mercoledì 30 novembre 2016

prodi vota sì

praticamente chi ha fondato l'ulivo vota sì....chi lo ha affondato vota no....

lunedì 28 novembre 2016

Trump minaccia Cuba

Zucconi: "La nostalgia di guerra fredda del presidente"

Con un tweet il neo presidente americano Donald Trump lancia minacce al governo cubano:  l'embargo resta se Cuba non rispetterà i diritti civili dei cittadini. "Ora che non può farla con l'amico Putin - commenta Vittorio Zucconi -  Trump fa la guerra fredda a un'isola innocua. In realtà tutti sanno che per il tycoon la politica estera è solo business"

amici e compagni dal palato fine...


Giorgio Tonini 
28 novembre 2016
Alcuni amici e compagni del Pd, anche in Trentino, stanno dicendo urbi et orbi che voteranno No al referendum. È nel loro diritto farlo, perché il nostro è un partito democratico, di nome e di fatto. Si tratta di amici e compagni dal palato molto fine. Ad alcuni di loro non piace questo, ad altri quell'aspetto della riforma. Si tratta di opinioni tutte rispettabili. Purché si sia consapevoli, fino in fondo, delle conseguenze delle proprie azioni. Se dovesse vincere il No, è vero, non avremo le dieci piaghe d'Egitto, non saremo aggrediti dalle cavallette, né l'acqua si tramuterà in sangue. Semplicemente, anche questo tentativo di riforma fallirà, trascinando con sé, insieme ad un altro pezzo di credibilità dell'Italia, la governabilità di questa legislatura. Sarebbe meglio evitarlo, ma in fondo, dicono loro, mancano pochi mesi alla scadenza naturale della legislatura. Il problema vero, cari amici e compagni, è cosa si farà nella prossima. Se vince il Sì, il famigerato "combinato disposto" del potere di fiducia limitato alla sola Camera e l'elezione della stessa con un sistema maggioritario (che sia l'Italicum o un altro si vedrà, anche perché in proposito dovrà pronunciarsi la Corte costituzionale), darà ad una delle principali forze politiche (vedremo se sarà il Pd, o Cinquestelle, o il centrodestra) un chiaro mandato a governare. Se invece vincerà il No, andremo a votare di nuovo per Camera e Senato entrambe dotate del potere di fiducia e con l'unico sistema elettorale possibile: un proporzionale più o meno puro. A quel punto, a meno che una forza politica non conquisti da sola la maggioranza assoluta dei voti in entrambe le Camere, si dovrà far vita ad un governo di coalizione tra le forze disponibili. Berlusconi si è schierato per il No, scommettendo sull'ipotesi che l'unico governo possibile sarà un governo basato sull'alleanza tra Pd e centrodestra, non è chiaro se con o senza la Lega di Salvini... A quanto pare i bookmakers danno molto quotata la scommessa dell'ex Cavaliere. Siete sicuri, cari amici e compagni dal palato fine, che è questo che volete, per il Pd e per l'Italia? Non vi pare che sia molto più saggio votare e far votare Sì, perché siano gli elettori, tra pochi mesi, a dirci se dobbiamo essere noi a governare, con i nostri uomini e le nostre donne, i nostri valori e i nostri programmi, o invece altri, ma senza inciuci, governicchi e patti diabolici tra partiti che poco o nulla hanno in comune tra loro? Ascoltate il vostro palato fine è riflettete: è meglio, oltre meglio mandar giù un aspetto della riforma che non vi piace, piuttosto che quello che ci aspetta, come democratici e come italiani, se vince il No.

martedì 22 novembre 2016

Pensierino della Sera.


 Matteo Renzi
...Mi sono a lungo chiesto come fanno i Cinque Stelle a votare contro una riforma che porta in Costituzione le storiche battaglie che il loro movimento ha sempre fatto. La riduzione del numero dei parlamentari? E loro votano NO. L'obbligo di discutere le leggi popolari? E loro votano NO. Il superamento del bicameralismo paritario? E loro votano NO. L'abbassamento del quorum se si raggiungono 800mila firme (attenzione: firme vere, purtroppo per loro, non copiate)? E loro votano NO. L'abolizione del CNEL? E loro votano NO. È impressionante. Ma la cosa che più mi colpisce è aver scoperto il motivo per cui votano NO sul Senato. Non potevo crederci ma abbiamo scoperto – grazie all'Espresso – che i fondi che vanno ai gruppi del Senato (trenta milioni al PD in questa legislatura, circa la metà a Cinque Stelle, tanti anche agli altri), fondi che saranno cancellati se vince il Sì e che rimarranno con la vittoria del NO, servono a Cinque Stelle per pagare l'affitto ai dipendenti dell'ufficio comunicazione. Cinque Stelle può espellere parlamentari e sindaci ma non può fare a meno dell'Ufficio Comunicazione. Persino Rocco Casalino, capo della comunicazione Cinque Stelle, è passato dalla Casa del Grande Fratello alla Casa del Grande Senato. Un'affittopoli incredibile, di cui non parla nessuno. Ecco come usano i fondi del Senato. Al netto del referendum: possibile che chi voleva fare la rivoluzione dell'onestà e della trasparenza al momento buono diventi il più conservatore della vecchia casta? Un pensiero agli elettori del Movimento 5 Stelle: ma davvero volete difendere il sistema delle firme false e degli affitti veri?

GIUSEPPE DOSSETTI E IL SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO

Pierluigi Castagnetti
Giuseppe Dossetti in uno dei suoi ultimi discorsi sui temi della Costituzione, tenuto presso l'Università di Parma, il 26 aprile 1995, affrontò tra gli altri il tema del superamento del bicameralismo paritario in questi termini:
"Un altro oggetto di riforme necessarie e possibili, è la revisione dell'attuale bicameralismo perfetto, che ha sinora impedito una legiferazione tempestiva ed efficace, e insieme ha concorso ad ostacolare un corretto rapporto Parlamento-Governo.
Si sta creando un'opinione abbastanza comune che vorrebbe passare dalle attuali due camere, con funzione legislativa paritaria e con omogenea rappresentatività, a un sistema che preveda la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, o meglio delle autonomie locali e delle grandi formazioni sociali, riservando per contro alla Camera dei deputati la rappresentatività politica generale.
Proprio della Camera dei Deputati resterebbe il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo, e l'attività legislativa ordinaria.
Il concorso della Camera delle Regioni potrebbe essere richiesto normalmente per le leggi che incidano sui rapporti tra Stato e Regioni; invece per le altre leggi potrebbe essere solo eventuale e prevedere la prevalenza finale della Camera dei Deputati in caso di dissenso...".

L’incredibile affluenza in Francia. E da noi qualcuno vuole abolirle…


Mario Lavia
L'Unità 21 novembre 2016
Le Monde: “La vittoria di Fillon è lo scenario peggiore per Marine Le Pen”
Quasi 4 milioni di francesi hanno partecipato al primo turno delle primarie del centrodestra francese. Un record. Una notizia sbalorditiva, in epoca di crisi della politica, di sfiducia nei partiti e dei loro leader. Ma la Francia si è mossa. A chiamarla alla mobilitazione, si sarebbe detto una volta, sono stati i conservatori, i Républicains, non la sinistra, i socialisti – che da sempre sono i primi a rivolgersi “alle masse”. In Francia – e in Germania – la “diga” antipopulista è conservatrice.
Alcune considerazioni.
1. Le primarie sono così partecipate proprio perché c’è un’enorme crisi della politica, perché colmano un gap che c’è fra i partiti tradizionali e la società: ed ecco che appena ne ha la possibilità la società riprende la parola assumendosi in prima persona la responsabilità della scelta politica.
2. C’è un aspetto specificamente francese nell’altissima affluenza di ieri: e cioè che le primarie dei conservatori  sono state vissute come l’antipasto delle elezioni presidenziali, nella convinzione che si trattasse di scegliere il Presidente francese o quantomeno lo sfidante di Marine Le Pen. Da questo punto di vista sarà interessante vedere se anche le primarie dei socialisti registreranno lo stesso successo, visto che il Ps è percepito ormai come un partito tagliato fuori dalla corsa per l’Eliseo.
3. Tanto è vero che molti socialisti sono andati a votare (per Fillon contro l’odiato Sarkozy) alla primarie dei rivali gollisti. Spinti dall’esigenza di trovare il miglior anti-Le Pen, e sapendo di non poterlo scovare nel Ps, molti elettori socialisti hanno preferito donare 2 euro ai conservatori, creando così un immaginario, ma non poi tanto immaginario, superpartito antipopulista e antifascista.
4. Ha stravinto François Fillon (dato favorito anche al secondo turno, fra una settimana, contro Juppé) perché è apparso il più affidabile, contra il radicalismo di Sarko e un certo appesantimento dell’anziano Juppé. Le Monde oggi scrive che la vittoria di Fillon crea “lo scenario più difficile per Marine Le Pen” la quale non si attendeva la vittoria del candidato più moderato, almeno esteriormente, dei tre. E se la Francia ha voglia di moderazione, Fillon ha delle buone carte.
5. Se la “diga” antipopulista è “bianca” è evidente che per i socialisti si pone un enorme problema di prospettiva. Resi ormai marginali o subalterni in molti paesi europei, i socialisti rischiano di essere stritolati fra i conservatori (in Francia, in Germania, in Spagna) o di essere rosicchiati dalla sinistra più radicale (un po’ è successo in Spagna, forse accadrà in Francia) o di slittare verso posizioni più estreme (laburisti inglesi).
6. Le primarie in ogni caso si confermano come un potentissimo fattore di mobilitazione popolare, anzi: il più potente. Inventato a sinistra (dall’Ulivo italiano), oggi è uno strumento usato anche da una destra pragmatica e popolare come quella francese che ha colto la sua efficacia. Ed è davvero singolare che proprio nella sinistra italiana quelli che ancora pensano al primato dei partiti nei vecchi termini autoreferenziali vogliano rimetterle in discussione o addirittura sopprimerle. Anche questa è una lezione che viene dalla giornata francese di ieri.

sabato 19 novembre 2016

sorpresa!

Ma è meraviglioso.
Il Comitato del NO fa ricorso ad AGCom perché secondo loro il SI ha molto più tempo in tv.
Escono i dati ufficiali.
Sostanziale pareggio in RAI.
Dal 15 al 25 % in più di tempo al NO sui canali Mediaset e LaPeppe.

tecnologia

E poi i ragazzi italiani a Berlino hanno anche spiegato a DiMail come funziona quella diavoleria della posta elettronica.
vittorio zucconi

mercoledì 16 novembre 2016

L’opposizione in 4 parole: “Non nel mio giardino”


Chicco Testa
L'Unità 16 novembre 2016
Da questi pregiudizi non si salva praticamente nessuna categoria di opere
Ieri ho assistito al dibattito che si è tenuto in occasione della presentazione del rapporto 2015/2016 del Nimby Forum. Iniziativa che censisce ogni anno la quantità e la tipologia di opposizioni territoriali alla realizzazione di opere pubbliche e private in vari settori.
NIMBY è acronimo inglese, che tradotto in italiano recita “non nel mio giardino”. Ossia “quell’opera si potrebbe pure realizzare ma non vicino a casa mia”. Naturalmente quel “vicino a casa mia” è inteso in senso molto lato. Nella mia Provincia, nella mia Regione, in Italia. Risultato: un sacco di investimenti, opere utili, occupazione aggiuntiva bloccati da opposizioni di vario genere.
Il rapporto dà conto di come le opposizioni di questo genere non diminuiscano, ma cambino via via obiettivo. La categoria più contestata di opere è oggi, pensate un po’, quella relativa alle fonti energetiche rinnovabili. Ho sempre pensato che, al contrario di quanto si crede, questo tipo di comportamento abbia le sue radici non in opinioni e interessi che si formano autonomamente, ma nelle idee messe in giro in spregio di ogni ragionevolezza da leader politici, religiosi, sindacali, da presunti intellettuali e che “la gente” non faccia altro che prenderli per buoni.
Da questi pregiudizi non si salva praticamente nessuna categoria di opere. In compenso un’altra associazione, che si poneva l’obiettivo di premiare le amministrazioni capaci di realizzare opere e infrastrutture utili, ha chiuso i battenti. Per una ragione molto semplice. Dopo qualche anno di attività era finito l’elenco delle cose da premiare. Gran brutto segno per il nostro Paese.

Onore a D’Alema, l’unico che confessa di volere un governicchio


Fabrizio Rondolino
L'Unità 16 novembre 2016
I Noisti ipocritamente dicono che Renzi dovrebbe restare anche se vince il No
I Noisti che votano No con l’unico obiettivo di abbattere Matteo Renzi – e sono la maggioranza: da Salvini a Bersani, da Brunetta a Grillo – curiosamente (o ipocritamente?) insistono su un punto: il 5 dicembre, se vince il No, Renzi deve comunque restare a Palazzo Chigi. Bisogna votare contro le riforme per colpire il presidente del Consiglio, sostengono in tv e sui giornali, ma il presidente del Consiglio non si deve dimettere.
E perché? Perché, spiegano, il referendum non è sul governo. Però bisogna votare No, concludono, perché questo governo è pessimo.
Un gran bel ragionamento, non c’è che dire: onesto, trasparente, convincente. E rivelatore: nascondere le conseguenze dei propri atti è un contrassegno della politica politicante, del tatticismo elevato a sistema di vita, del desiderio rabbioso di distruggere senza preoccuparsi di ciò che verrà dopo.
Onore dunque a Massimo D’Alema, che l’altro giorno ha confessato finalmente la verità: “Se vince il No, niente elezioni anticipate, bisognerà prima cambiare la legge elettorale… il presidente Mattarella nel giro di poche ore individuerà una personalità super partes per formare un nuovo governo”.
A parte la battuta sulle “poche ore” necessarie a risolvere una crisi di governo, che fa da pendant ai “pochi mesi” sufficienti per D’Alema ad approvare una nuova riforma istituzionale, per di più “condivisa”, lo scenario prospettato dall’ex premier e mancato commissario europeo è realistico: la vittoria del No spalanca le porta all’ennesimo governo tecnico, o istituzionale, o di scopo, o come altrimenti sarà etichettato il governicchio che si proverà a formare.
Proviamo ad approfondire la questione. L’azionista di maggioranza di questo ipotetico governo sarebbe comunque il Pd guidato da Renzi – almeno fino al congresso – e la maggioranza ricalcherebbe più o meno quella attuale, con l’eventuale aggiunta di Forza Italia (sempreché Berlusconi, dopo aver appena licenziato Stefano Parisi, cambi di nuovo idea e ritorni “moderato”).
Ma nessuna delle forze politiche che voteranno la fiducia al governo si sentirà più di tanto impegnata nel sostenerlo, e anzi farà a gara per punzecchiarlo, prenderne le distanze, metterlo in difficoltà: un po’ perché la vittoria del No apre di fatto la campagna elettorale per le politiche, un po’ perché quel governo presumibilmente avrà ministri “tecnici” slegati dai partiti, un po’ perché si sa in partenza che avrà vita breve.
Davvero qualcuno crede che un tale governicchio sia in grado di scrivere una nuova legge elettorale, contrattare con l’Europa i necessari margini di flessibilità, rassicurare i mercati finanziari, arginare l’ondata populista e restituire dignità ed efficienza all’azione politica?

martedì 15 novembre 2016

informazione disparitaria

Franco Valenti
15 novembre 2015
Giovane muratore romeno accusato di stupro di una ultraottantenne nel bresciano. Subito si sono alzati i latrati dei segugi Lombardi . Dei media cialtroni hanno dato fiato alle trombe creando un nuovo mostro senza prima attendere la conferma di un simile reato. Ora la medicina legale del Civile di Brescia certifica che il dna trovato sugli indumenti della signora non è quello del cittadino romeno. I segugi latranti stanno rientrando , coda tra le gambe, nelle loro tane in attesa di una nuova occasione. I media in piccolo e sottovoce riferiscono della immediata scarcerazione del manovale romeno. Lo fanno sommessamente in modo che rimanga nella mente del popolino lo sdegno per il supposto mostro. Ora suggerirei al legale di questo cittadino di chiedere lauti indennizzi sia all'accusa che a chi sopra la notizia ci ha marciato alla grande.

I noisti vogliono il proporzionale perché preferiscono l’inciucio


Fabrizio Rondolino
L'unità 15 novembre 2016
Il populismo si sconfigge con la buona politica, cioè con l’alternanza di governo.
Alla variegata e variopinta armata che sostiene il No al referendum di dicembre si rimprovera, fra le altre cose, di non proporre alcuna alternativa praticabile – o, il che è lo stesso, di proporne troppe e tutte diverse tra loro – e, soprattutto, di avere in comune un unico obiettivo, che peraltro non è oggetto di voto: fare la pelle a Renzi.
In realtà, c’è un altro elemento fondamentale che unifica il fronte del No, e che è destinato a pesare nel futuro politico del Paese persino in caso di vittoria del Sì: il ritorno al proporzionale.
Proporzionale “alla spagnola” è la proposta di riforma elettorale depositata dal Movimento 5 stelle; proporzionali sono le proposte che vengono dalla minoranza del Pd e dalla sinistra radicale; per il proporzionale si è schierato – a sopresa ma non troppo – addirittura Silvio Berlusconi, il cui merito storico, da tutti riconosciuto, è l’“invenzione” del bipolarismo maggioritario.
Il nesso riforma-Italicum può dunque considerarsi valido in entrambe le direzioni, ma in un significato più profondo, più strategico: l’approvazione della riforma istituzionale consolida un sistema politico fondato sull’alternanza, cioè sulla possibilità di avere governi e maggioranze politiche omogenee scelte direttamente dagli elettori (il che naturalmente non significa che l’Italicum non possa essere cambiato).
Al contrario, la conservazione dell’assetto esistente porta con sé la restaurazione di un sistema politico in cui le scelte si spostano dagli elettori alle segreterie dei partiti. O meglio: agli elettori è riservata la rappresentanza, maggiore con un sistema proporzionale, ma soltanto ai partiti spetta la governabilità.
Il vero argomento a favore del proporzionale, come ha candidamente e sinceramente spiegato Eugenio Scalfari domenica scorsa, è impedire che il M5s vinca le prossime elezioni: poiché in Italia, come nel resto del mondo, ci sono i barbari alle porte, gli altri che barbari non sono – tutti gli altri – devono fare fronte comune.
E’ accaduto in Germania e, seppur molto più faticosamente, in Spagna, e potrebbe accadere l’anno prossimo in Francia: perché non anche in Italia?
Ma se davvero così stanno le cose, a me pare che ci sia un motivo in più per votare Sì.
La rappresentanza proporzionale e il governo di coalizione non sono in sé un male, ci mancherebbe: ma rischiano di diventarlo quando vengono piegati alla necessità di salvarsi dai barbari. L’antipolitica – qualunque cosa significhi questo termine – non si sconfigge alzando un muro fortificato a protezione dell’establishment di sinistra e di destra: si sconfigge con la buona politica. E l’ossigeno della buona politica è l’alternanza, cioè la possibilità di avere alla guide del Paese un governo scelto dagli elettori, politicamente omogeneo, responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Altro che “deriva autoritaria”: l’alternativa è fra una democrazia che funziona e un sistema politico bloccato; fra il potere degli elettori e quello dei partiti o dei loro simulacri; fra l’apertura e la chiusura: in una parola, fra la responsabilità e l’inciucio.

lunedì 14 novembre 2016



se si vuole superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione per regolamentare le materie di competenza dello Stato e delle regioni si vota Si. Altrimenti rimane tutto come ora. Brescia per il sì 

Sveglia, prima che sia troppo tardi


Walter Veltroni
L'Unità 13 novembre 2016
Insisto da tempo sulla dimensione (per me sconvolgente) della crisi della democrazia in Occidente
Il titolo dell’ultimo editoriale, quello di domenica scorsa, era Il mondo sospeso. Scrivevo, al termine della più brutta campagna elettorale della storia americana, che non mi fidavo dei sondaggi, che l’America non è quella delle aree metropolitane, che il mondo era a un passo dalla svolta che avevamo paventato, su queste colonne, da luglio dell’anno scorso.
Non sono un indovino, non faccio il bastian contrario di giornali, di pagatissimi uomini dei polls, dei bookmakers. No, semplicemente osservo, come la mia posizione di oggi, lontana, per scelta, dalla ruvidità del centro del ciclone, mi consente di fare. E, chi legge queste colonne lo sa, insisto da tempo sulla dimensione, per me sconvolgente, della crisi della democrazia in Occidente. Lo dissi al Lingotto, quando tutto sembrava correre veloce verso il sole. Non sono pessimista, a chi vuole cambiare il mondo non è consentito. Uso la ragione, come mi è stato insegnato tempo fa.
Proviamo a mettere in ordine le cose che sono cambiate, nel breve tempo della storia che abbiamo vissuto. La storia non si calcola a giorni o a mesi, come facciamo con le nostre vite. La storia è fatta di fasi, quelle con cui, chi la guarda all’indietro, ordina e fornisce coerenza alle cose accadute. La giusta datazione dell’inizio del tempo storico che viviamo, di questo grande rivolgimento, è il 1989. Quando cadde, sotto la spinta di un processo di liberazione dato dalla crescita economica, il Muro di Berlino e, con esso, l’equilibrio politico, strategico, militare che aveva retto il mondo per quarant’anni. La storia è finita, la democrazia ha trionfato annunciarono molti analisti. Sembrava che la forza della libertà e l’irrinunciabilità dei diritti individuali e collettivi fossero inarrestabili.
Il mondo, che aveva visto cadere i regimi fascisti del sud dell’Europa e del Sud America, ora registrava l’arrivo di milioni di esseri umani a bordo della nave inaffondabile della democrazia. Ci fu un ciclo di espansione economica e di speranza diffusa di equità sociale che espresse i governi riformisti in Usa, Italia, Francia, Germania, Inghilterra.
La sinistra cresce in tempi di speranza economica e sociale, la destra in quelli di paura diffusa. D’altra parte, non dimentichiamolo mai, una si chiama progressista e l’altra conservatrice. Così è stato, in quel tempo. Poi è arrivato quel giorno di settembre del 2001 e tutto è cambiato. Il più grande attacco straniero sul suolo americano da Pearl Harbor non poteva non mutare i paradigmi di un mondo in cerca di un equilibrio. Siamo precipitati, inseguendo inesistenti “armi di distruzione di massa”, in un conflitto che non ha sconfitto il terrorismo ma ha finito col produrre effetti non calcolati. I muscoli americani hanno prevalso sul cervello americano e quell’area ha cominciato a destabilizzarsi senza che fosse prevista una strategia analoga a quella che orientò il secondo dopoguerra del novecento.
Nel 2008 la crisi devastante dell’economia mondiale ha aperto un ciclo recessivo in tutto l’Occidente, un ciclo che, salvo gli Usa, non sembra destinato a finire, dopo quasi dieci anni. Si sono perduti posti di lavoro, patrimoni, certezze. Le saracinesche sono scese come una mannaia su imprese e negozi, per milioni di persone il lavoro è diventato l’incubo di perderlo. Dieci anni così. Tutto è diventato precario, nella vita delle persone. In primo luogo il rapporto con il lavoro. Il proprio, che si vive come provvisorio e quello dei figli che si vedono destinati ad una retrocessione di ruolo sociale rispetto all’inarrestabile ascensione che ha caratterizzato la vita delle famiglie occidentali dal dopoguerra ad oggi.
Nelle frettolose analisi delle elezioni americane è passata solo una parte della verità: la conquista di consenso repubblicano nelle roccaforti operaie squassate da chiusure di aziende prodotte dalla concorrenza internazionale. Tutto vero, come vera è l’immagine di un pensiero democratico lontano da questo dolore sociale. Ma la realtà, come sempre è più complessa. Si guardino le analisi differenziate. Trump ha avuto il massimo del consenso nelle fasce di età dai 45 in su e la Clinton ha invece prevalso tra i più giovani. Ma la candidata democratica ha ottenuto il massimo dei voti nei ceti più poveri della popolazione mentre ha perso brutalmente nelle fasce di reddito medio.
È la grande crisi di quella enorme zona mobile della piramide sociale che determina oggi la fase che viviamo. Il dolore degli ultimi e la paura degli intermedi. È a loro, vittime principali della crisi, che la sinistra moderna dovrebbe guardare. E poi il fattore più sottovalutato: la portata antropologica e sociale della rivoluzione tecnologica. Schematizzo e mi scuso: le tecnologie hanno ridotto il lavoro senza produrre ricchezza redistribuita e hanno alterato, il tempo ci dirà se in bene o in male, tutte le nostre relazioni più importanti, quelle del sapere e del comunicare, quelle dell’amare e del socializzare. L’uomo moderno è solo, sempre di più, ed è immerso in un sistema vorticoso di contatti e di conoscenze che sono frammentate, rapsodiche, voraci, semplificate. Ha completamente modificato il suo rapporto con il tempo e agisce in un universo cognitivo scritto sulle sabbie molli: un delirio di false notizie, di allarmi separati dalla ragione, di costante riduzione della complessità. Sono in crisi tutti gli agenti unificanti, a partire da quelli della comunicazione. Si può dire che sia il tempo in cui è tramontato il concetto del Novecento di opinione pubblica. Ed è venuto il momento di dirsi chiaramente che la cecità politica ha determinato una grave conseguenza: sono spariti o ridimensionati tutti gli agenti unificanti della società: partiti, sindacati. L’idea di coltivare la disintermediazione ha reso la relazione della democrazia un gioco a due tra un vertice lontano e una platea infinita e indistinta che fatica a razionalizzare e può essere preda di ogni pulsione emotiva.
E oggi è la paura il cemento favorito per attivare processi di unificazione elettorale. Paura che si vende facilmente, al mercato della comunicazione esplosa. Paura che porta al paradosso, nel tempo globalizzato, di una società chiusa, di un riflesso identitario come reazione al mistero dell’altro. Da qui si generano le pulsioni protezionistiche ben presenti nei programmi del populismo mondiale. E l’Europa, ferita a morte dalla Brexit e dalla sua incapacità di corrispondere ad un bisogno di crescita ed equità, rischia di essere la vittima eccellente di questa nuova fase. E così nasce la voglia del vaff, del calcio al tavolino, della rabbia nichilista. Quella che sta attraversando, come un’onda grigia, tutto l’Occidente.
Non ci stancheremo di ripetere che la democrazia è stata, lo ha ricordato recentemente Michele Ainis, una piccola parentesi nella storia della vicenda umana. Il dominio, per secoli, lo hanno avuto varie forme autoritarie. E la storia ci insegna che il bisogno di semplificazione autoritaria nasce proprio dalla combustione di diversi elementi: la recessione e l’iniqua distribuzione della ricchezza, la crisi della capacità di decidere della democrazia, la difficoltà di partiti e soggetti collettivi. Il cittadino restato solo, spaventato dalla paura di precipitare socialmente, diffidente verso gli altri, finisce con l’invocare un uomo forte, che lo liberi dalla paura, dia ascolto e risposta alle sue ansie, metta ordine nel caos. Per farlo sceglie non importa chi. Purché arrivi da un presunto nulla, come un cavaliere ricco e spietato. A lui non si chiederà nessuna delle virtù che si pretendono da un politico: Trump, riporta La Stampa, ha detto: «Potrei andare sulla Fifth Avenue, mettermi a sparare e non perderei un voto».
E ha ragione. Non so quanto durerà, perché la divisione establishment-anti establishment che oggi rende “immune” chi sostiene la seconda causa ha, dentro di sé, il trabocchetto autodistruttivo che trasforma in breve tempo in uomo del potere chi assume il potere in nome del populismo. E, a conferma, il nemico della grande finanza, il candidato che bollava Hillary Clinton come l’espressione delle banche ha annunciato, tra le prime misure, la cancellazione di alcune norme della legge Dodd-Frank voluta da Obama che introduceva limiti alle speculazioni finanziarie.
Il mondo sta virando e non sappiamo dove andrà. Il vento è di burrasca. La cosa peggiore è non capire da dove viene. Nell’asilo Mariuccia, che è diventato il discorso pubblico del nostro paese, tutto questo non esiste. Ci si chiede semmai come lucrare a breve qualche voto dalla vittoria di Trump, roba assurda. E, siccome in Italia è sempre l’8 settembre, ora spuntano come funghi i sostenitori della prima ora del nuovo presidente americano.
L’ufficio della Casa Bianca è il più difficile del mondo. Ora lo abita un uomo che non ha alcuna esperienza politica o militare, che ha sinceramente affermato di non conoscere il mondo. Dobbiamo sperare che il suo mandato assomigli al discorso della prima notte piuttosto che a quelli con i quali ha preso i voti. Altrimenti il vento diventerà burrasca. Verrebbe da dire, specie a sinistra, di stare molto attenti.
Di fronte a questa fase inedita la sinistra può compiere i suoi due errori tradizionali. Mettersi a rincorrere il populismo o l’antieuropeismo o non capire la necessità di un discorso di redistribuzione che assuma il tema della caduta di ruolo sociale come centrale per la sua azione.
Ma il paradosso contrario sarebbe anche grottesco. Sarebbe ridicolo se la sinistra, in questo mondo sconvolto da un muramento gigantesco che investe tutta la sfera della vita degli umani pensasse, come fa tradizionalmente quando è smarrita dal nuovo, che la soluzione è tornare al Novecento, a quelle ricette, a quelle opzioni. Che il tempo inedito si affronti con lo sguardo al passato. O la si smette di litigare, si torna a cercare di capire la società, di interpretare il dolore e le ansie del popolo, si rafforza il riformismo sociale e la capacità di innovare o tutto finirà male. Davvero male. La sinistra debole e divisa, vecchia o elitaria è un fattore di questa crisi. Fu così, in altri momenti tragici della storia. Sveglia, prima che sia troppo tardi.

domenica 13 novembre 2016

Senatore Corsini...ma quale libertà di coscienza?


Riccardo Imberti
Mi chiedo come ci si possa appellare alla libertà di coscienza di fronte ad un voto che, il 4 dicembre, non riguarderà i principi fondamentali della Costituzione, ma semplicemente il rapporto tra Stato e Regioni, o le modalità più efficienti ed efficaci per fare le leggi. Il sen. Paolo Corsini lo sa bene, tant’è vero che “tende a precisare” a Beppe Pezzotti, nella lettera del 4 novembre a questo Giornale, che lui “propenderebbe” soltanto per il No alla riforma costituzionale, ma non vorrebbe prefigurare schieramenti politici con i compagni di viaggio No-global e No-euro. Eppure è recente il manifesto che presenta il sen. Corsini tra due importante relatori della Lega Nord, impegnati in un dibattito a favore del No in quel di Chiavenna. Immagine che farebbe accigliare il sen. Mino Martinazzoli che nel 1994 aveva preso proprio dalle mani di Corsini il testimone della candidatura a sindaco di Brescia per impedire il governo della città alla rampante Lega Nord per l’indipendenza della padania. Tirato per i capelli da Massimo D’alema, il senatore Corsini non si ritiene vincolato dal voto ricevuto dagli elettori bresciani, né dalla disciplina di partito. Non pensa che il No alla riforma costituzionale mantiene l’attuale assetto e quindi il ritorno al sistema elettorale proporzionale e quindi ad una prospettiva di governi di “larghe intese”, con drammatici dubbi sulla conseguente politica economica, sociale, europea, mediterranea e atlantica. La disciplina di partito non è più una virtù. Questa è la riforma della Costituzione che il Pd ha discusso, condiviso, modificato, plasmato e poi votato in Parlamento. Anche da parte del sen. Corsini, credo. Questo referendum, tra l’altro, deve essere collocato in un contesto complessivo di riforme volute dal governo sui temi del lavoro, della scuola, della pubblica amministrazione. Il partito democratico è giovane, ma è un partito, composto da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, impegnati a traghettare il centrosinistra italiano verso la modernità. Non avrebbe bisogno di essere diviso e lacerato.

sabato 12 novembre 2016

Bauman: 'L'imbroglione Trump è un veleno, venduto come antidoto ai mali di oggi'

Espresso 11 novembre 2016
Giuliano Battiston
Per Zygmunt Bauman, decano dei sociologi europei, tra i più autorevoli pensatori contemporanei, la vittoria elettorale di Donald Trump è un sintomo allarmante: riflette il divorzio ormai avvenuto tra potere e politica, da cui deriva un vuoto, un divario colmato da chi promette soluzioni facili e immediate a problemi complessi e sistemici, attingendo al ricco serbatoio della retorica populista.
Trump – spiega Bauman a l'Espresso – ha saputo giocare abilmente la carta dell'outsider e dell'uomo forte, combinando una politica identitaria discriminatoria e l'enfasi sulle ansie economiche dei cittadini americani, figlie del passaggio da un modello economico inclusivo a un modello che esclude, marginalizza e crea veri e propri esiliati. Trump si è presentato come l'antidoto alle incertezze del nostro tempo, ma è un veleno, sostiene Zygmunt Bauman, per il quale la vittoria dell'imprenditore statunitense lascia presagire il rischio che i tradizionali meccanismi di tutela democratica vengano sostituiti «dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino autoritari». 
Negli Stati Uniti e in Europa la reazione prevalente alla vittoria di Trump, perlomeno negli ambienti progressisti, è stata di stupore e paura. C'è chi ha parlato di «un grande pericolo», chi di «una sfida al modello democratico occidentale», chi di «una tragedia per la repubblica americana e per la Costituzione». Questi toni a tratti apocalittici le sembrano appropriati?
Le visioni apocalittiche spuntano fuori ogni volta che la gente entra nel “grande territorio sconosciuto”: quando si è certi che nulla, o molto poco continuerà a essere così come è stato, e non si ha alcun indizio su ciò che è destinato ad accadere o su ciò che probabilmente sostituirà quel che ci lasciamo alle spalle. Le reazioni alla vittoria di Trump hanno proliferato velocemente. La cosa sorprendente è che siano tutte consensuali: così come è successo nel caso del voto per la Brexit, si interpreta il voto per Trump come una protesta popolare contro l'establishment e l'elite politica del Paese nel suo complesso, nei confronti dei quali una larga parte della popolazione ha maturato una crescente frustrazione per aver disatteso le aspettative e non aver mantenuto le promesse fatte. Non sorprende che tali interpretazioni siano particolarmente diffuse tra coloro che hanno forti interessi acquisiti nel mantenimento dell'attuale establishment politico.
Mentre Trump ha giocato proprio la carta dell'outsider...
Non essendo parte di tale elite, non avendo ricoperto alcun incarico elettivo, provenendo “dal di fuori dell'establishment politico” ed essendo ai ferri corti perfino con il partito di cui era formalmente membro, Trump ha offerto un'occasione unica per una condanna, senza appelli, contro l'intero sistema politico. Lo stesso è successo nel caso del referendum britannico, quando tutti i principali partiti politici (dai conservatori al Labour e ai Liberals) si sono uniti nella richiesta di restare nell'Unione europea, così che ogni cittadino ha potuto usare il proprio voto per esprimere il disgusto per il sistema politico nella sua interezza. Un altro fattore, complementare, è stato la notevole brama della popolazione affinché l'infinita litigiosità parlamentare, inefficace e impotente, venisse
E poi muri da erigere, dittatori da esaltare, immigrati da deportare, bufale da cavalcare. È giunto il momento di analizzare la credibilità di questo candidato attraverso le sue stesse parole. Perché sì, Donald Trump può diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America sostituita dalla volontà indomita e inoppugnabile di “un uomo forte” (o di una donna forte), capace con la sua determinazione e con le sue doti personali di imporre in modo immediato, senza tentennamenti e temporeggiamenti, soluzioni veloci, scorciatoie, decisioni vere. Trump ha costruito abilmente la propria immagine pubblica come una persona ricca di quelle qualità che l'elettorato sognava. Quelli appena citati non sono gli unici fattori che hanno contribuito al trionfo di Trump, ma sono senz'altro cruciali. Al contrario, la trentennale appartenenza di Hillary Clinton all'establishment e la sua agenda politica frammentata e compromissoria hanno giocato contro la popolarità della sua candidatura.
Concorda con quanti si spingono a leggere la vittoria di Trump come una manifestazione della crisi del modello democratico occidentale?
Credo che stiamo assistendo all'accurato svisceramento dei principi della “democrazia”, che si presumeva fossero intoccabili. Non credo che il termine in sé verrà abbandonato, almeno come termine con cui descrivere un ideale politico, anche perché quel “significante”, come lo avrebbe definito Claude Levi-Strauss, ha assorbito ed è ancora capace di generare molti e differenti “significati”. C'è però una chiara possibilità che i tradizionali meccanismi di salvaguardia (come la divisione di Montesquieu del potere in tre ambiti autonomi, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, o il sistema britannico di checks and balances) escano in qualche modo dal favore pubblico e vengano privati di significato, sostituiti in modo esplicito o di fatto dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino dittatoriali. Le citazioni che lei ha riportato come reazioni alla vittoria di Trump indicano tutte una preoccupazione comune, sono sintomatiche di una tendenza crescente, che esiste: la tendenza a riportare – per così dire – il potere dalle nebulose vette elitarie dove è stato collocato o dove è stato trascinato verso “casa”. La tendenza dunque a riportare il potere all'interno di una comunicazione diretta tra l'uomo forte al vertice da una parte e dall'altra l'aggregazione dei suoi sostenitori e soggetti di potere, equipaggiati con i  social network come strumenti di indottrinamento e di sondaggio delle opinioni.
Nel corso della campagna elettorale, Trump ha molto insistito sulle questioni razziali e sul nazionalismo più insulare e discriminatorio, ma non ha fatto appello solo a questi temi. Al di là degli attacchi sistematici verso i “diversi”, ha giocato la carta dell'incertezza economica di tutti quei cittadini americani che hanno la percezione di essere stati defraudati dai processi di globalizzazione. I due aspetti – l'ansia economica e l'ansia verso gli “altri” – sono legati? E come?
Trionfa il mito del cowboy bianco, l'America non urbana, i tea party. Escono sconfitte le donne, le minoranze, le lotte per i diritti. Resoconto di una battaglia elettorale giunta al termine
Il trucco è stato proprio quello di connettere i due aspetti, di renderli inseparabilmente legati e di rafforzarli vicendevolmente. È ciò che è riuscito a fare Trump, un supremo imbroglione (anche se non è il solo nel panorama politico mondiale). Sono incline ad andare perfino oltre nell'analisi dell'uso che Trump ha fatto del matrimonio tra politica identitaria e ansia economica, perché credo che sia riuscito a condensare tutti gli aspetti e i settori dell'incertezza esistenziale che perseguita ciò che è rimasto della classe lavoratrice e della classe media, indottrinando coloro che soffrono con l'idea che l'espulsione degli stranieri, di quanti sono etnicamente diversi, degli stranieri appena arrivati rappresenti la tanto agognata “soluzione veloce” che li potrebbe ripagare in un colpo solo di tutta la loro ansia e incertezza.
Tra quanti hanno votato Trump, alcuni fanno parte della categoria degli “espulsi”: quei cittadini che facevano parte di un “contratto sociale” ma che ne sono stati espulsi forzatamente, insieme a quelli, giovani ma non solo, che non ne sono stati parte e non lo saranno mai in futuro. La vittoria di Trump rappresenta la fine del modello economico inclusivo, keynesiano, del dopoguerra, sostituito da un modello di segno opposto, che esclude?
Il passaggio da una visione del mondo, da una mentalità e da una politica economica che include a una che esclude non è affatto nuovo. È stato un passaggio strettamente sincronizzato con un altro salto qualitativo, quello da una società di produttori a una società di consumatori, che non sarebbe stato possibile senza la marginalizzazione, ovvero la creazione di una “sottoclasse” che non soltanto è degradata rispetto alla società delle classi, ma ne è stata del tutto esiliata, una categoria di “consumatori fallati” talmente esclusa da non poter essere riammessa. L'attuale tendenza verso la “securitizzazione” dei problemi sociali aggiunge acqua allo stesso mulino: rende le reti dell'esclusione ancora più ampie, mentre trasferisce coloro che finiscono in queste reti da una categoria che, per quanto inferiore, rimaneva di segno “positivo”, a una divisione che, per quanto morbida, rimane micidiale, sinistra e tossica. 
In alcuni suoi libri, per esempio ne La solitudine del cittadino globale, lei analizza ciò che definisce come «la trinità malvagia», l'incertezza, l'insicurezza e la vulnerabilità, sentimenti prevalenti in un mondo in cui è avvenuto il divorzio tra potere e politica. È inevitabile che tale divorzio conduca all'uomo forte o al populismo?
Sì, tendo a credere che sia inevitabile. Il divorzio a cui fa riferimento lascia dietro di sé un divario – un divario che si sta spaventosamente allargando – dal quale emana la combinazione avvelenata della disperazione e della sfortuna. Gli strumenti ortodossi, che credevamo familiari e disponibili, per combattere e respingere efficacemente i problemi e le ansie che ci attanagliano sono ormai spuntati. Soprattutto, non si crede più che possano mantenere quanto promettono. Per una società nella quale sempre meno persone ricordano, di prima mano, cosa significasse vivere sotto un regime totalitario o dittatoriale, l'uomo forte – non ancora sperimentato - non sembra un veleno, ma un antidoto: per le sue presunte capacità di saper fare le cose, per le soluzioni veloci e istantanee, per gli effetti immediati che promette di portare come corredo alla sua nomina.  
Beppe Grillo, il leader italiano del Movimento Cinque Stelle, ha sottolineato le similitudini tra le vittorie elettorali del suo partito e quella di Trump scrivendo che «sono quelli che osano, gli ostinati, i barbari, che porteranno avanti il mondo. E noi siamo i barbari!». È tempo che l'establishment faccia veramente i conti con i nuovi barbari?
«Donald ha fatto un VDay pazzesco» dice Grillo, incurante delle accuse di chi gli dice di guardare a destra e saltare sul carro del vincitore. Il senatore M5S Nicola Morra spiega perché l'imprenditore in effetti fa simpatia e cos'ha in comune coi pentastellati
In Europa, i vari Grillo sono molto numerosi. Per coloro per i quali la civiltà ha fallito, i barbari sono i salvatori. In alcuni casi è ciò che loro si sforzano in tutti i modi di far credere per convincere i creduloni che sia proprio così. In altri casi è ciò che desiderano ardentemente credere coloro che sono stati  abbandonati e dimenticati nella distribuzione dei grandi doni della civiltà. Alcuni membri dell'establishment potrebbero essere impazienti di approfittare dell'occasione, dal momento che coloro che credono nella vita postuma a volte sono disposti a suicidarsi.

giovedì 10 novembre 2016

....america...


Se l’impossibile diventa realtà


Alfredo Bazoli
E così eccoci qui, ancora una volta, a valutare l’esito di una consultazione elettorale sorprendente, che ribalta ogni pronostico e mostra che l’impossibile diventa realtà.
Era già accaduto con la Brexit, ora di nuovo con la vittoria di Trump alle presidenziali americane.
Un uomo per molti versi impresentabile, politicamente scorretto, che ha attaccato duramente, ai limiti dell’insulto, minoranze, paesi stranieri, avversari politici, volgare e sessista, senza alcuna esperienza di governo e di politica, profondamente odiato dai democratici e avversato anche dal partito repubblicano, insomma un uomo del tutto inadatto e che in un’altra epoca non avrebbe passato le prime selezioni, un uomo così, a dispetto di tutti i pronostici e le aspettative, di tutti i nemici e gli avversari, ha sbaragliato la concorrenza, ha annichilito ogni aspettativa, ed è diventato presidente degli Stati Uniti.
Come è potuto succedere? E che significa?
C’è, nelle spiegazioni che sento e leggo diffusamente, qualcosa che non torna.
Si dice che è la crisi economica, che è la classe bianca che ha sperimentato quella crisi a reagire rabbiosamente.
Eppure negli ultimi otto anni di presidenza Obama, l’America ha vissuto una crescita economia poderosa, la disoccupazione è calata dai livelli drammatici del 2008 a limiti fisiologici, la borsa ha continuato a correre.
Insomma, gli USA la crisi economica se la sono lasciati alle spalle da un bel po’, al contrario di quello che sta capitando a gran parte dell’Europa.
Dunque c’è qualcosa di più che non la spiegazione economica, a motivare questa rabbia, questa voglia di rovesciare il tavolo che si è espressa in modo così sorprendente in queste elezioni, seguendo un’onda partita dalla brexit, e che dunque riguarda tutte le democrazie occidentali.
Io me la spiego così.
È l’onda di una paura, di una angoscia che sta mettendo le radici dentro le società occidentali, figlia di un disordine mondiale che sentiamo minaccioso, che ci spaventa attraverso il terrorismo che si fa stato, feroce e nichilista, che ci destabilizza e preoccupa con le ondate migratorie pressanti e apparentemente ingestibili, che ci rende insicuri con le incertezze di una economia instabile, che non da sicurezze e prospettive.
Questa paura sta dilagando nel ceto medio, o in quel che ne resta, sta corrodendo piano piano ma inesorabilmente la fiducia nel futuro, nella provvidenza della storia.
Da alcuni anni la sensazione diffusa è che il futuro dei nostri figli sarà peggiore del nostro.
E allora la risposta sta nel desiderio di rompere questa deriva minacciosa, di lacerare questo meccanismo, di rovesciare questo piano inclinato affidandosi a chi meglio di altri può portare alla rottura totale del sistema.
Con tutte le incognite, i rischi e le ulteriori incertezze che ciò comporta.
Ma se così stanno le cose, è chiaro che alla politica che cerca le soluzioni, che non si limita a urlare, che si sforza di unire, spetta di raccogliere questo sfogo, questa rabbia, di farsene carico, di trasformarla in progetto per il futuro.
Il campanello d’allarme per le democrazie occidentali è ora.
Se non saremo capaci di una svolta seria e credibile, a partire dall’Europa, finiremo per essere travolti tutti, e rischieremo di trovarci, alla fine, e a dispetto delle illusioni date da risposte semplici, più poveri e insicuri di prima.

.... a volte cadevano....


mercoledì 9 novembre 2016

E i trumpisti de noantri vanno all’assalto di Renzi


Mario Lavia
L'Unità 9 novembre 2016
Bruttisimo momento per i progressisti di ogni latitudine
Si solleva l’onda trumpista su tutto il mondo (i vari Erdogan, Putin, Farage, Le Pen) e qualche spruzzo lambisce l’Italia galvanizzando i Salvini, i Brunetta, i Grillo.
In una fase già caldissima di suo – a poco più di 20 giorni dal voto referendario – l’inatteso trionfo di Donald Trump alimenta le pulsioni, come si dice adesso, anti-establishment, vellica la pancia, aizza il risentimento: e il governo Renzi, e personalmente il premier, vengono messi nel mirino con rinnovata forza polemica.
Nel voto americano non è difficile scorgere molte cose che riguardano lo stato di salute delle democrazie occidentali e della politica in quanto tale: ed è come se la politica, intesa come regolazione della passioni, venisse fulminata nelle urne, lasciando le passioni (comprese le peggiori) andare per proprio conto a briglia sciolta.
Brutto affare, per chi crede nella politica come mediazione fra i bisogni e il governo reale. Bruttissimo affare soprattutto per i riformisti di ogni latitudine.
E così, dopo la sbornia di stanotte, un Brunetta molto su di giri reclama le dimissioni del presidente del consiglio: “Rimetta il mandato nelle mani di Mattarella”. E perché? Perché – dice il capogruppo forzista – “ha schierato l’Italia con la Clinton”:il  che è chiaramente una sciocchezza, ma può suonare bene.
Ben venga un voto che in qualche modo sfascia certezze consolidate – progressisti contro conservatori affidabili: è Beppe Grillo che a momenti si intesta la vittoria di The Donald, che in fondo, ha lanciato un “vaffa” pesantissimo e vincente proprio come hanno fatto i Cinquestelle. C’è un po’ di delirio di onnipotenza in questo ma sotto sotto un po’ è vero: Grillo e Trump non sono forse due newcomers apparsi sulla scena chissà da dove e impostisi in un baleno contro tutte le previsioni?
E poi c’è Salvini, il primo “trumpista” italico, colui che andò a stringere la mano ad un Trump che probabilmente nemmeno sapeva chi era quel ragazzone italiano. Oggi, il Matteo di Milano, è entusiasta. Quando dice che «il popolo batte i poteri forti 3 a 0», Salvini cavalca un’antica contrapposizione (popolo contro potere) tipica del pensiero reazionario fra le due guerre mondiali ma soprattutto coglie e esaspera la propensione di un pezzo di società a fare a meno della politica, esalta il nichilismo proprio di questa stranissima fase storica nella quale muoiono le tradizionali forme della politica (Hillary è risultata “troppo” tradizionale anche per i democratici americani) ma non si vedono alternative serie all’orizzonte.
Per Matteo Renzi è un nuova grande nuvola sulla testa. Al di là delle strumentalizzazioni del voto americano – per cui è un gioco un po’ così proiettarlo sul referendum del 4 dicembre – non è chiaro se siamo dentro un inarrestabile ciclone reazionario e populista. Ma di certo il clima è cambiato.

america...


La vittoria dell’inquietudine e della rabbia


Stefano Cagelli
L'Unità 9 novembre 2016
Trump è stato in grado, solo contro tutti e contraddicendo la sua biografia, di interpretare i sentimenti dell’America profonda. Ora si apre un’epoca nuova per il mondo, piena di incognite
Ciò che in pochi, pochissimi, si erano immaginati, è diventato una cruda realtà: Donald Trump, l’impresentabile, l’irriverente, il maleducato, il razzista, il sessista è il 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Ha vinto la battaglia della vita contro Hillary Clinton, data per favorita da tutti i sondaggi, sostenuta in maniera unanime dalla stampa nazionale, appoggiata dalla quasi totalità delle cancellerie occidentali e dal presidente uscente Barack Obama, all’apice della sua popolarità, che si è speso per lei in gran parte degli stati chiave per la vittoria finale.
La vittoria di Trump è il compimento della campagna elettorale peggiore della storia degli Stati Uniti. Una campagna in cui il magnate è stato in grado, solo contro tutti, di incarnare e interpretare il sentimento anti-establishment serpeggiante nella società americana. A dispetto del sostegno a dir poco tiepido da parte del partito repubblicano, è stato capace di intercettare e addirittura incrementare i voti nelle roccaforti storiche del Gop e di andare a “rubare” voti tradizionalmente democratici.
Solo venti giorni fa, addirittura il candidato vicepresidente Mike Pence aveva (quasi) voltato le spalle a Trump, dopo lo scandalo legato al video sessista di qualche anno prima. E’ stato il momento in cui sembrava che la partita per la presidenza fosse chiusa. E’ stata, evidentemente, una valutazione sbagliata, non solo da parte di tutti gli osservatori ma anche dai sondaggisti. Da quel momento in poi, infatti, è cominciata una rincorsa apparentemente disperata, il cui esito ci dice molto di quello che sta succedendo nella società americana, che poi non è tanto diverso da quanto accade in Europa.
Trump si è scusato ma contestualmente ha inasprito ancor di più, se possibile, il tono dello scontro, non solo contro Hillary Clinton e il suo passato ma contro il sistema in tutta la sua complessità. Contro i media, contro i politici che hanno impoverito l’America, contro gli immigrati che hanno invaso il Paese, contro i trattati internazionali. E questa escalation politica e verbale ha evidentemente pagato, nonostante la biografia di Trump rappresenti tutto fuorché il profilo di un paladino dei diritti dei più deboli.
Ha detto le cose che la gente voleva sentirsi dire. Ci sarà modo di analizzare nel dettaglio i motivi e le dinamiche di questa incredibile vittoria, ma alla base di tutto c’è esattamente quello che si riassume con una parola e una sola: populismo. La gente chiede questo? Io gli do questo. Il popolo è arrabbiato per quest’altro motivo? Io punto il dito contro la causa di questa rabbia. Tutto questo si è tradotto in una notte elettorale da incubo che ha visto via via crescere le speranze di vittoria di Trump, fino a farle diventare prima probabilità e poi certezza.
Ora dovrà governare il Paese più importante del mondo, più spaccato che mai. Ora, per dirla alla Obama, “avrà in mano i codici nucleari”, il destino del mondo è anche e soprattutto sulle sue spalle. Da cittadini del mondo non possiamo che augurarci che lui stesso, chi gli sta vicino, il partito che lo appoggia (e che avrà la maggioranza al congresso) capiscano la portata e le conseguenze che avranno le loro determinazioni.
Dall’altra parte Hillary Clinton esce di scena nella maniera più brutta e più triste possibile. L’ultimo capitolo della sua vita politica sarà questo, non ce ne saranno altri. Il sogno di diventare presidente svanisce contro l’uomo che ha usato nei suoi confronti le parole più brutte mai pronunciate prima. Anche in questo caso ci sarà il tempo e lo spazio per analizzare i motivi della sconfitta, l’opportunità di una candidatura così legata a quel sistema che Trump ha individuato come l’obiettivo da colpire e che, evidentemente, l’America profonda ha voluto punire, le conseguenze delle indagini dell’Fbi sull’emailgate. Quel che è certo è che la sua base elettorale l’ha abbandonata nel momento più importante. I giovani, gli immigrati, i più deboli avrebbero dovuto portarla alla Casa Bianca. Così non è stato e su questo tutto il partito democratico dovrà interrogarsi a fondo.
Quella che si apre da domani è una fase nuova, inedita, piena di incognite, per l’America e per il mondo. Si è chiusa un’epoca e se ne apre un’altra che investirà tutto, dall’economia agli equilibri internazionali. Nel 2008, con la prima elezione di Barack Obama, parlammo di un evento storico. Ebbene, anche oggi dobbiamo parlare di un evento storico. Otto anni fa il sentimento-simbolo che coinvolse tutto il mondo era quello della speranza, oggi è quello dell’inquietudine. Solo il futuro ci dirà come andrà a finire.