venerdì 31 marzo 2017

Minori migranti, un’altra legge di civiltà


Gennaro Migliore,
30 Mar 2017
L’Italia può dirsi orgogliosa di essere il primo paese in Europa a dotarsi di un sistema organico che considera i bambini prima di tutto bambini, a prescindere dal loro status di migranti o rifugiati.
Un paese che, a differenza di altri, non costruisce muri, ma nel solo 2016 si è adoperato per accogliere quasi 26000 minori, diventati le principali vittime delle migrazioni forzate, di violenze fisiche durante il viaggio e psicologiche dovute alla separazione dalla famiglia.
I bambini sono bambini
Un’innovazione che ci distingue dall’approccio adottato dall’Unione europea che ancora distingue i bambini che chiedono asilo e quelli che non lo chiedono, stabilendo un regime che discrimina tra bambino e bambino. Per questo abbiamo sostenuto con forza la proposta di Sandra Zampa nata dall’esperienza diretta sul campo al fianco dei minori migranti e sostenuto da tutte le più autorevoli organizzazioni di tutela dei diritti dei minori.
Minori tutelati: accoglienza, cure, inclusione sociale
Il testo disciplina gli aspetti fondamentali per la vita dei minori migranti che arrivano in Italia senza genitori: dalle procedure per l’identificazione e l’accertamento dell’età agli standard dell’accoglienza; dalla promozione dell’affido familiare alla figura del tutore, dalle cure sanitarie all’accesso all’istruzione. Tanti tasselli che uno accanto all’altro costruiscono un mosaico che parla di salvataggio di vite, accoglienza, inclusione sociale, di quella riscoperta della civiltà europea, di cui il nostro paese vuole esserne portatore e protagonista in Italia e in Europa.
Per la prima volta vengono disciplinate per legge le modalità e le procedure di accertamento dell’età e di identificazione, uniformandole a livello nazionale, garantendo maggiore assistenza con la presenza di mediatori culturali durante tutta la procedura.
C’è poi l’attivazione di una banca dati nazionale dove confluisce la “cartella sociale” del minore. Maggiori tutele sono previste anche per il diritto all’istruzione e alla salute. Per la prima volta sono sanciti anche per i minori stranieri non accompagnati il “diritto all’ascolto” nei procedimenti amministrativi e giudiziari che li riguardano e il diritto all’assistenza legale, avvalendosi del gratuito patrocinio a spese dello Stato.
Un’altra legge di civiltà
Insomma, dopo la legge sulle unioni civili, sui reati ambientali, quella sul dopo di noi e sul contrasto al caporalato, un’altra legge di civiltà di cui ogni elettore del PD e ogni italiano democratico deve sentirsi orgoglioso.
Sul tema dei bambini abbiamo ancora un piccolo grande sforzo da fare. Approvare al più presto la legge sullo ius soli. Il suo sblocco e rapida approvazione è un impegno che abbiamo scritto anche nella nostra mozione congressuale e sono sicuro sarà il prossimo che manterremo.

sabato 25 marzo 2017

Beniamino Andreatta....un maestro


Giorgio Tonini
25 marzo 2017

Domani saranno dieci anni dalla morte di Beniamino Andreatta. L'ho conosciuto quando ero molto giovane. E fu per me un grande onore vederlo a Padova, al Congresso della Fuci del gennaio 1983, sedersi in mezzo al pubblico di studenti per ascoltare la mia relazione. Poi mi mandò a chiamare e mi chiese di andare a lavorare con lui all'AREL. Gli risposi che avevo scelto di andare a lavorare alla CISL, con Pierre Carniti, perché preferivo stare dalla parte dei lavoratori. Mi guardò sorridendo e mi disse armeggiando con la pipa "Non si preoccupi, le vie del capitalismo sono infinite". Qualche anno dopo, a Trento, fu candidato dalla Dc nello stesso collegio in cui il Psi aveva candidato Carniti. Votai per Andreatta, anche perché ero un elettore democristiano e non volevo votare Psi. Ma sia Andreatta che Carniti restarono a casa, fu eletto Enzo Obelix Boso, della Lega Nord. Fu lì che cominciai a pensare che le vecchie appartenenze non avevano alcun senso e che avevamo bisogno di un partito democratico, nel quale Andreatta e Carniti potessero candidarsi insieme. Oggi sono presidente della Commissione Bilancio, trent'anni dopo Andreatta, e tutti i giorni mi chiedo cosa avrebbe fatto lui al posto mio. Purtroppo lui non c'è più, ma la sua eredità è in mezzo a noi. Per farne memoria ho scritto un articolo che IL FOGLIO, che ringrazio, ha voluto pubblicare è che vi allego. Buona giornata
LA LEZIONE DI ANDREATTA
A distanza di dieci anni dalla sua morte, sopraggiunta il 26 marzo 2017, più di sette anni dopo il malore improvviso che, in piena sessione di bilancio alla Camera, lo aveva bruscamente messo a tacere, Beniamino Andreatta continua ad essere punto di riferimento imprescindibile per chiunque si ponga l'obiettivo di fare dell'Italia un paese moderno.
Trent'anni fa, il 5 agosto 1987, Andreatta veniva eletto presidente della commissione bilancio del Senato, carica che mantenne fino al termine della decima legislatura, nella primavera del 1992. Da quella postazione, per cinque lunghi e drammatici anni, lo statista trentino si è battuto come un leone, quasi sempre in solitudine, contro il drago del debito pubblico, che nel corso degli anni ottanta era cresciuto in modo impressionante: 95 miliardi di euro, meno del 60 per cento del pil, nel 1979; 850 miliardi, pari al 105 per cento del pil, nel 1992.
«Il nostro debito — disse Andreatta intervenendo in Senato nel giugno del 1990, con parole di sorprendente freschezza — costituisce, per le sue dimensioni, un problema per il funzionamento dei mercati finanziari europei... Per l'Italia questo problema si trasformerà in un costo ed in qualche difficoltà di collocamento, se verrà realizzata l'unione economica e monetaria. Se invece non verrà realizzata, questo debito costituirà un problema molto serio per la bilancia dei pagamenti (sarà necessario tenere la struttura italiana dei tassi fortemente differenziata da quella degli altri paesi) e per la credibilità delle autorità monetarie italiane».
Non può essere dunque, diremmo oggi, l'uscita dall'euro, la formula magica per liberarci del debito. Perché formule magiche per sgravarci di quel peso non esistono. Non sono praticabili, spiegava Andreatta ai senatori un anno prima, «operazioni di finanza straordinaria con imposte patrimoniali», né «forme di conversione forzosa o di rigetto del debito». Quanto all'inflazione, se moderata può aiutare, ma certo non si può nutrire nessuna nostalgia per quella a due cifre. La via per uscire dal debito eccessivo è dunque una sola: «un'azione attenta di contenimento della spesa e di allargamento delle entrate, per ottenere un surplus di parte corrente al netto degli interessi e per far partecipare il sistema tributario al finanziamento degli interessi». Insomma, «un'azione di lunga lena di correzione della spesa e di efficienza del sistema tributario italiano». Non sfugge ad Andreatta il prezzo sociale e politico di un simile impegno: «l'operazione di risanamento finanziario comporterà, per un certo numero di anni, che in quasi tutti i settori l'intervento della finanza pubblica dovrà porsi in proporzioni, rispetto al prodotto interno italiano, inferiori a quelle di paesi che hanno scelto in passato una linea più attenta di commisurazione tra risorse disponibili e decisioni di spesa». Ma a certe condizioni, il pareggio primario prima e l'avanzo primario poi, possono non tradursi in recessione: «Credo che la crescita possa essere spinta con politiche dell'offerta, attraverso più cogenti regole di concorrenza ed attraverso l'eliminazione degli interventi pubblici disfunzionali». Insomma, la riduzione del deficit è sostenibile, in termini di crescita e di occupazione, se accompagnata da riforme dello Stato e dei mercati. Oggi, dopo anni di avanzo primario record in Europa, che non è bastato a ridurre il debito a causa della recessione, aggiungeremmo alle riforme, che sono e restano indispensabili, anche un indirizzo di politica economica europea di segno più marcatamente espansivo.
Le politiche di risanamento finanziario hanno innnanzi tutto bisogno, secondo Andreatta, di «nuove regole del gioco». Durante la nona legislatura, (1983-87), lo statista trentino prende parte alla commissione Bozzi per le riforme istituzionali. In quella sede, Andreatta aveva presentato ed era riuscito a far approvare una radicale revisione dell'articolo 81 della Costituzione, dinanzi alla quale quella che siamo riusciti ad ottenere noi nella scorsa legislatura, grazie alla spinta europea e al governo Monti, appare assai più moderata e prudente. L'articolo 81, fortemente voluto alla Costituente da due giganti della statura di Einaudi e Vanoni, afferma che: «con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese», ma si deve, per così dire, fotografare lo stato della finanza pubblica; e che «ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». In altre parole, ogni aumento di una voce di spesa deve essere «coperto» da una corrispondente riduzione di un'altra voce di spesa o dall'aumento di un entrata.
L'obiettivo di Einaudi e Vanoni, spiega Andreatta, era il pareggio del bilancio. «Ma questo non è stato. — si legge nel suo intervento alla bicamerale Bozzi nel 1984 — Si è considerato che il ricorso al finanziamento, anche al finanziamento di tesoreria, fosse sufficiente come mezzo di copertura». È per questa via, attraverso il sistematico e progressivo aggiramento della «linea Maginot» dell'articolo 81, che è esplosa la spesa e si è formato il gigantesco debito pubblico italiano. Andreatta presenta quindi un nuovo testo, che si propone esplicitamente di «sbarrare tutte le strade alla legislazione di spesa priva di copertura». Un testo molto lungo, che «non è certamente elegante — ammette Andreatta — ma non è neppure elegante la condizione della finanza pubblica nel nostro paese».
Tra le varie barriere contro la spesa facile, c'è innanzi tutto l'importazione nel nostro ordinamento dell'istituto americano della «first resolution», ossia la votazione preliminare da parte delle Camere sul «limite massimo dell'autorizzazione a contrarre prestiti sotto qualunque forma per i cinque anni successivi», in modo che le manovre di bilancio debbano poi mantenersi all'interno di quei limiti prefissati. La seconda barriera, mutuata dall'articolo 155 della Legge fondamentale tedesca, prevede l'obbligo del pareggio del bilancio corrente, riservando alla sola spesa per investimenti la possibilità di essere coperta attraverso il ricorso al mercato, ossia facendo debito. Terza barriera, l'obbligo di corredare ogni disegno di legge e ogni emendamento, sia governativo che parlamentare, che comporti spesa, con una relazione tecnica «bollinata» dal Ragioniere generale dello Stato. Quarta barriera: «Nei sei mesi precedenti lo scioglimento delle Camere, non possono essere presentati provvedimenti legislativi che aumentino le spese o riducano le entrate». Infine, quinta barriera, la Corte dei conti: alla quale Andreatta propone di assegnare poteri di controllo assai più penetranti, come la valutazione, in sede di rendiconto, del costo effettivo delle leggi approvate negli esercizi precedenti, nonché la facoltà di «investire la Corte costituzionale dei giudizi nei confronti delle leggi non conformi alle norme» contenute nel nuovo articolo 81.
L'emendamento Andreatta viene accolto nel testo finale proposto alla commissione, ma lì si ferma, insieme alla bicamerale Bozzi, che inaugura la lunga serie di tentativi falliti di riforma della Costituzione. Si ferma la riforma dell'articolo 81, ma non l'azione riformista di Andreatta, che usa la sua nuova posizione di presidente della commissione bilancio del Senato per riproporre, almeno parzialmente, le barriere contro il «deficit spending», attraverso una riforma della legge di contabilità e una revisione del regolamento del Senato. Si deve alla riforma della legge di contabilità voluta da Andreatta, ad esempio, l'istituzione del Documento di programmazione economica e finanziaria. Mentre ancora oggi risente degli interventi di modifica voluti dallo statista trentino, il regolamento del Senato, assai più severo di quello della Camera: per esempio nel richiedere relazioni tecniche bollinate dal Ragioniere generale dello Stato su tutti i disegni di legge e gli emendamenti che comportano spesa, pena il parere contrario della commissione bilancio («per assenza di relazione tecnica»), che comporta l'improcedibilità da parte dell'assemblea.
Andreatta riesce a realizzare queste riforme nel primo anno di legislatura, tra il 1987 e il 1988, durante l'ultimo tratto di strada della lunga segreteria Dc di Ciriaco De Mita, che nel 1988 diventa anche presidente del Consiglio. Il drago del debito viene ferito e rallenta per un attimo la sua corsa, ma è ancora vivo e tutt'altro che vinto. Arrivano i governi Andreotti VI e VII e la legislatura si conclude tra nubi che annunciano la tempesta, che costringerà il governo Amato alla grande svalutazione della lira e alla manovra record da 100 mila miliardi.
Intervenendo nel dibattito sulla fiducia all'ultimo governo Andreotti, il 7 novembre 1991, Andreatta torna a chiedere una riforma dell'articolo 81, «perché abbiamo la necessità di adeguare ai meccanismi della Germania federale o della Francia il nostro sistema di bilancio; abbiamo bisogno di stabilire chi è responsabile di che cosa», superando la «cogestione» tra governo e parlamento, nella quale prospera l'irresponsabilità.
«Ma è certo — osserva Andreatta — che il problema fondamentale rimane quello del sistema politico». Dopo la fase virtuosa, quella del centrismo degasperiano e poi del centro-sinistra di Moro e Nenni, «dal 1972 ad oggi possiamo dire che c'è stata un'era della ingovernabilità, perché non c'è stata intesa, non c'è stata più coalizione». E allora, conclude, «delle due l'una: o si riesce a ricostruire questo spirito di coalizione o si creano strumenti (come la legge elettorale maggioritaria, ndr) perché si possa operare il divorzio tra le forze politiche e ci siano forze in grado di governare con maggioranze più ristrette. È un classico ormai: in tutte le analisi quantitative sul perché la spesa pubblica in certi periodi e in certi paesi ha presentato larghi deficit, una variabile importante è la larghezza delle coalizioni, la scarsa durata dei governi, la mancanza di spirito di coalizione. Ecco perché, come è ovvio, i problemi della finanza pubblica sono i problemi politici di un paese e le debolezze del sistema politico si traducono nei risultati contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti».

lunedì 20 marzo 2017

Inizia il congresso del PD

Oggi inizia il congresso del PD, con la cosiddetta "fase a circoli" in cui voteranno solo gli iscritti 2016. Questa prima fase terminerà il 2 aprile, e poi ci sarà la campagna aperta anche ai non iscritti (sostenitori, simpatizzanti, elettori) con voto il 30 aprile dalle 8 alle 20 in primarie aperte.

Cogliamo l'occasione, anche in questa prima fase, per parlare a tutti, ed invitiamo alle convenzioni di circolo, ad ascoltare il dibattito tra gli esponenti delle tre mozioni, Emiliano, Orlando, Renzi, anche gli interessati non iscritti.

Vogliate apprezzare questo atto di democrazia e questo sforzo di organizzazione unico in Italia, che il Partito Democratico porta in dono al nostro paese.

domenica 19 marzo 2017

Serra: Appello alla CGIL


L'AMACA
Michele Serra
La Repubblica 19 marzo 2017
IL voucher brucia sul rogo di purificazione che la sinistra vindice ha eretto per celebrare la cacciata di Renzi. Non era Giordano Bruno, era un pezzetto di carta che molta gente usava per legalizzare i piccoli lavori e non frodare l’Inps; e altra gente per aggirare le leggi sul lavoro. Per punire il cattivo uso fatto dai disonesti, il voucher è stato incenerito tutto intero, compresa la sua metà utile e onesta.
Ora in parecchi stanno frugando nella cenere per cercare di capire come faranno, di qui in poi, a pagare in chiaro prestazioni che solo un pazzo o un sadico può considerare passibili di pratiche burocratiche: di qualunque natura esse siano. Esempio concreto: una piccola azienda agricola ha bisogno, per una sola giornata all’anno, di otto-dieci lavoranti per fare il raccolto. Anche prima del famigerato Jobs Act poteva farlo con i voucher. Ognuno vale dieci euro (paga oraria laddove l’agricoltura non è in mano a caporali e schiavisti), sette e mezzo vanno al lavorante, due e mezzo all’Inps. Morti i voucher, si tornerà a pagare in nero, come nelle gloriose tradizioni nazionali. A meno che la Cgil metta a disposizione (gratis) un ufficio che si occupi delle pratiche di assunzione
di dieci persone per una sola giornata cadauno. La burocrazia è nemica del lavoro tanto quanto lo sfruttamento.

giovedì 16 marzo 2017

Aldo Moro


Lo Stato democratico, lo Stato del valore umano, lo Stato fondato sul prestigio di ogni uomo e che garantisce il prestigio di ogni uomo, è uno Stato nel quale ogni azione è sottratta all'arbitrio ed alla prepotenza, in cui ogni sfera di interesse e di potere obbedisce ad una rigida delimitazione di giustizia, ad un criterio obiettivo e per sua natura liberatore; è uno Stato in cui lo stesso potere pubblico ha la forma, la misura e il limite della legge, e la legge, come disposizione generale, è un atto di chiarezza, è un'assunzione di responsabilità, è un impegno generale ed uguale.”
(Aldo Moro, Milano, 3 ottobre 1959

16 marzo


Sono le 10 meno 10, ... cerchiamo di avvicinarci per capire meglio, ci sono molte ambulanze e infermieri… Ecco la macchina con i corpi degli agenti della scorta dell’on. Moro coperti da un telo… Per terra i bossoli … a destra la borsa di Aldo Moro…per terra il sangue …”
(16 marzo 1978, telecronaca di Aldo Fraiese)
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto.”
(Aldo Moro alla moglie Eleonora, lettera recapitata il 5 maggio 1978
Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!”
(Paolo VI, cerimonia funebre per Aldo Moro, 13 maggio 1978)

Martina a Brescia


DENTRO O FUORI


Sandro Albini
16 marzo 2017
Di solito, in un divorzio, chi se ne va pensa a ricostruirsi un'altra vita. Chi resta, ci resta male e tende a tutelare quel che è rimasto. Nel caso del divorzio dal PD di Bersani, D'Alema, Gotor, Corsini ecc. la preoccupazione maggiore consiste nel tentativo di dimostrare che sono stati cacciati, quindi sono vittime, e nel mettere in atto ogni iniziativa capace di danneggiare il PD. Esemplare la vicenda Lotti, contro cui si sono assentati ma pronti a presentare un o.d.g. contro la sua permanenza al governo. Sembrerebbe un atteggiamento confusionario, ma non è così. E' il lucido, perfido tentativo di riaprire una vicenda sconfitta dal voto del Senato tenendo così in fibrillazione PD e Governo (al quale giurano lealtà contraddette dai comportamenti). Essendosi costituiti come partito di sinistra (dei quali ormai si fa fatica a tenere il conto) perché non elaborano un programma e lo presentano per verificare quanto consenso raccolgono, invece di concentrarsi soltanto sulla denigrazione del loro ex partner? Anche chi è rimasto dentro a sfidare Renzi (mi riferisco a Emiliano) concorre dall'interno ad alimentare disorientamento verso il partito del quale aspira alla guida. Gli uni e gli altri vorrebbero far macerie del PD anche a costo di regalare il Paese a Grillo (è lui o non è lui? chiosa Mentana) o ad una destra per metà razzista. La vicenda referendum non ha insegnato nulla: fosse passato si prospettava un futuro di stabilità (chiunque fosse chiamato al governo del Paese). Ora il Parlamento non riesce nemmeno più a discutere di legge elettorale lasciando che l'inerzia ci conduca verso elezioni al termine delle quali sarà impossibile costituire un governo su una comune base programmatica. E' il prezzo per ridimensionare Renzi, diranno cinicamente i fuorusciti. Come se questo risolvesse i problemi di un Paese che ne ha tanti (ed alle viste alcuni molto gravi) lasciati sulle spalle del povero Gentiloni.

martedì 14 marzo 2017

«cattolici democratici», un’etichetta carica di storia.

Cesare Trebeschi 
Corriere della sera 14 marzo 2017
L’ex sindaco di Brescia Cesare Trebeschi, spedisce, via Corriere, questa lettera aperta a Gregorio Gitti, parlamentare del Pd, coordinatore di un gruppo a sostegno di Andrea Orlando che si chiama «Cattolici democratici».
Caro Gregorio, un secolo fa, un grande Papa, Benedetto XV, non curandosi dello sgomento di migliaia di santi cappellani militari del sacro romano Impero e dell’allora regno d’Italia, e, diciamo pure, di tanti ottimi cristiani spiazzati nel loro impegno patriottico, ma preoccupandosi del suo compito primario salvaguardia della fede cristiana fondata sull’amore e sulla dignità della persona umana definiva la guerra un’inutile strage. Credo che nei nostri, allora diecimila paesi, e nelle nostre forse centomila parrocchie, milioni di mamme, di spose, di fidanzate, di bambini, lungi dal deplorare l’invasione della Chiesa nella politica, forse ne abbiano sommessamente pianto la tardività. Proprio per scongiurare il pericolo dei ritardi, un paio d’anni dopo un animoso prete siciliano, fratello di un vescovo, ma anche organizzatore dell’Associazione, laica, dei Comuni italiani, chiese udienza a Benedetto XV per benedire una grande battaglia laica, santa ma pur sempre battaglia, gravida di perdite non tutte incruente. Don Luigi Sturzo non andò solo a quelle udienze, ma con un piccolo gruppo di uomini maturi ed esperti, uno dei quali pensò bene di farsi accompagnare da un giovanissimo figlio che mezzo secolo dopo sarebbe salito alla responsabilità di Benedetto, il quale avrebbe corretto, e non soltanto qualche virgola di quell’appello ai liberi e forti che segna la nascita del partito popolare. Non so chi da quell’appello e in quel partito avesse cancellato l’aggettivazione cristiana che molti, alla scuola di don Romolo Murri avrebbero voluto: che se poi quell’aggettivo fosse inteso a significare non solo e non tanto l’eguale dignità di tutti, indipendentemente dalla razza, dal censo, dal familismo e soprattutto dalla ricchezza, ma addirittura comportare una sorta di ufficiale garanzia e protezione da parte della Chiesa, proprio don Sturzo – e forse proprio il giovane correttore del suo nobile appello - da buoni manzoniani avrebbero dovuto ricordare, ed ahimè a ragion veduta, e veduta proprio da loro personalmente, l’amaro lamento dei promessi sposi: quale protezione! Il preambolo è troppo lungo, ed invade grossolanamente un campo di studi che non mi è proprio: ma francamente, caro Gregorio, ti leggo direi quasi con tristezza inventore, non so se di un movimento, ma quanto meno di una sigla di sedicenti «cattolici democratici». Certo, tu non avresti potuto intitolare il tuo partito, gruppo, movimento che sia, partito di nutellademocratici, perché i proprietari della nutella non avrebbero mancato di rivendicarne l’esclusiva, facendoti condannare dal tribunale di Alessandria a spogliarti di una appropriazione indebita: non mi dirai, spero, che nessuno può vantare l’esclusiva della cattolicità, e non a torto, se è proprio papa Francesco quasi a svestirsene per riportare i cristiani a unità, ma non conviene accontentarsi di seguirne l’esempio senza inventarne l’etichetta?

Cara Pini, su certi argomenti non si possono fare queste figuracce


Mario Lavia
L'Unità 14 marzo 2017
La politica di oggi non può non capire che ci sono anche giuste esigenze d’immagine
E’ verissimo, come sostiene Giuditta Pini, che solitamente alla discussione generale su una legge (dunque quando non sono previste votazioni) le aule parlamentari sono deserte. Infatti tempo fa ci fu chi propose di abolirle proprio, queste discussioni generali, ed entrare subito nel merito degli articoli: ma non se ne fece niente e la discussione generale è rimasta.
Ora, nessuno pretende la presenza dei 630 deputati (o dei 300 del Pd, visto che la relatrice della legge, Donata Lenzi, è del Pd e forse avrebbe meritato qualche applauso in più) ma insomma su un tema delicatissimo come il testamento biologico – atteso da anni! – qualche sforzo si poteva e si doveva fare. E l’argomento che era lunedì proprio non regge – anzi, è controproducente – perché se c’è una cosa che fa imbestialire gli italiani è la scusa dell’impegno sul territorio che i parlamentari profonderebbero il lunedì.
Si dice che il Parlamento non può farsi carico delle esigenze delle telecamere. Che non è una ribalta televisiva. Ma  come si fa a non capire, al giorno d’oggi, che una politica che non tiene conto delle necessità dell’immagine è una politica autoreferenziale e schizzinosa? Come si fa a non capire che le scene tv dell’aula vuota alimentano demagogia e qualunquismo? Un clamoroso esempio di questa autoreferenzialità l’hanno dato ieri i deputati di tutti i partiti, populisti e non populisti, destra e sinistra: un pessimo esempio di unità nazionale.

Che congresso sia - leale

Come promesso con il post precedente - che mi premeva troppo, era un'urgenza insopprimibile, un ricordo emerso da comunicare a tutti voi - un breve report sul Lingotto.
Il Matteo che ha aperto venerdì, più che per il richiamo alla collettività ed alla squadra, leit-motiv della 3 giorni, mi è piaciuto per l'espressione "un uomo si valuta da come indossa le sue ferite". La mia recente esperienza personale - forse - me la fa apprezzare di più. Ed ha ragione.

Tanta squadra, tanta collettività, tanta sinistra. Non abbiamo paura di questo, ricordando il mio motto recentemente ricordato in Direzione Provinciale: "Sinistra è chi sinistra fa" #forrestgump.

Comunque vada sarà un successo, nemici non ne abbiamo (neanche fuori dal partito) e nel partito nemmeno avversari. Buon congresso a tutti, a Michele Emiliano, ad Andrea Orlando, a Matteo Renzi, ed ai loro sostenitori. Il 7 maggio, in ogni caso, avremo un segretario per 4 anni. Sarà il segretario di tutti.

lunedì 13 marzo 2017

Quella ragazza del '25 e le primarie

Sono tornato ieri dalla tre giorni del Lingotto in cui Renzi e noi che lo sosteniamo ci siamo prefissi il compito di delineare il PD e l'Italia del '27, di qui a 10 anni cioè. Della tre giorni e delle primarie magari parlerò in un altro post. Voglio condividere con tutti voi un ricordo personale, adesso.

E' legato alla consultazione per scrivere le liste alla Camera ed al Senato di fine 2012 (si tennero tra Natale e Capodanno, mi pare il 30 dicembre): le cosiddette Primarie per i Parlamentari.
Faceva freddo, e con l'amico Riccardo Imberti, anima di questo blog, passammo la giornata all'Auditorium non riscaldato, me lo ricordo come se fosse oggi, con gli amici del circolo che ci portavano bevande calde e generi di conforto.
C'era la neve fuori e il ghiaccio per terra, non spazzato.

Ebbene: di quella consultazione ho un ricordo indelebile. Due donne minute che, di prima mattina, poco dopo le 8, furono le prime ad arrivare, con passo malcerto per il ghiaccio per terra, a votare per decidere i nostri parlamentari da mettere in lista. Una di quelle donne era nata nel 1927 (100 anni prima del '27 che ci proponiamo di immaginare), l'altra del 1925.

È il più bel ricordo che ho della mia esperienza nel PD ed a loro rendo grazie, e lo direi loro personalmente se ci fossero ancora.


giovedì 9 marzo 2017

Renzismo 2.0: dalla fase “garibaldina” alla costruzione del partito-comunità


Andrea Romano
L'Unità 9 marzo 2017
E’ chiara l’intenzione di aprire una nuova stagione nella proposta politica e culturale del renzismo
L’appuntamento del Lingotto permette di collocare il “renzismo” in prospettiva storica, guardando da una parte alle tappe più recenti che hanno condotto il PD dove si trova oggi e dall’altra alle principali innovazioni che si annunciano nel profilo politico della proposta di Matteo Renzi. Per quanto non sia una pratica molto diffusa, persino all’interno della comunità PD, giova sempre ricordare cos’è accaduto nella sinistra italiana negli ultimi cinque anni. E dunque il voto legislativo del 2013, con la “non vittoria” di Pierluigi Bersani, i tre milioni e mezzo di voti persi dal 2008, l’incombere di uno stallo drammatico nella vita politica e istituzionale del paese dinanzi sia all’assenza di una chiara maggioranza parlamentare sia all’emersione della forza rabbiosa e distruttiva dei Cinque Stelle. Un incrocio che produsse in tempi rapidi la caduta della segreteria Bersani e l’avvio di una fase di governo di carattere insieme trasversale ed emergenziale, mentre un PD tramortito guardava al proprio interno e intorno a sé per capire quale (nuova) strada percorrere.
La leadership di Matteo Renzi si afferma in quel contesto, rispondendo ad un bisogno radicale che era insieme di discontinuità e direzione avvertito a tutti i livelli del partito. E quella leadership, per come si era costruita negli anni precedenti, aveva in quel momento l’aspetto insieme “garibaldino” e “pratico” del giovane sindaco di una grande città che si era candidato a ribaltare il PD e la sua percezione pubblica. Da qui la centralità che nell’azione di governo fu data immediatamente alle “cose da fare” – e da fare subito, con l’urgenza avvertita da gran parte del paese oltre che dalla politica – e insieme il rinvio ad un secondo e successivo momento della costruzione dei contenuti culturali e organizzativi dell’innovazione che Renzi e il renzismo avevano portato con sé nel Partito democratico.
Anche solo guardando alla sintesi della proposta programmatica della candidatura di Renzi a queste nuove primarie, oltre che al programma del Lingotto, si avverte con chiarezza l’intenzione di aprire una nuova stagione nella proposta politica e culturale del renzismo. Non si tratta tanto della sconfessione delle cose fatte – perché al netto di insufficienze che pure vi sono state sarebbe velleitario (e persino fantasioso) pretendere che il Partito Democratico non si consideri e non sia percepito come la forza politica che ha concretamente guidato l’Italia dal 2013 in avanti – quanto piuttosto della volontà di allargare e consolidare le basi per l’appunto culturali e organizzative del renzismo.
Un segnale molto significativo, da questo punto di vista, è lo spazio dedicato al tema del partito sia nelle linee programmatiche sia nella stessa organizzazione dei lavori del Lingotto, con un seminario riservato a quello che è stato forse l’argomento più negletto in questi ultimi anni di vita del PD. L’esigenza di ripensare le forme organizzative del partito appare insieme un’urgenza dettata dai fatti, in quella che appare la stagione della massima delegittimazione della politica, e una risposta alla necessità di dare respiro, solidità e persino protezione all’innovazione radicale di linguaggi e contenuti venuta con la leadership di Renzi.
Un buon metodo per il futuro, dove il rilancio della nostra proposta politica non sia concepito solo come orgoglio per le cose fatte ma anche e soprattutto come la costruzione di un condominio (politico, organizzativo e culturale) più solido sulle basi nuove che sono state poggiate nella rocambolesca stagione del 2013-2014.

mercoledì 8 marzo 2017

Il cerotto di D’Alema


Massimo Gramellini
Il Corriere della Sera 8 marzo 2017
Lasciare il Pd? Come strappare un cerotto: fa male, però dopo si sta meglio» dichiara con noncuranza D’Alema, la vasta mente già proiettata sulle prossime disfatte. E a chi lo ascolta cascano i cerotti e magari non solo quelli. Ma come? Avete occupato per anni la scena mediatica con la cronaca dei vostri bisticci da cortile spacciati per questioni di principio. Avete bloccato per almeno un anno i lavori del Parlamento con la disfida dei Sì e dei No, le leggi elettorali perennemente interrotte, le paccottiglie tattiche su primarie aperte, chiuse o cabriolet. Poi le correnti, gli spifferi, le scissioni agitate come clave di pastafrolla, le elezioni anticipabili, i governi a scadenza tipo yogurt. E tutto questo, dicevate, perché il Pd era il centro pulsante del sistema. L’architrave della democrazia. Avete creato intorno alla sua disgregazione un clima solenne da tragedia nazionale. E adesso che il dramma è finalmente compiuto, il capo dei congiurati minimizza il suo stesso operato e celebra il distacco con un’alzata di spalle? Se ne deduce che il primo a non avere mai creduto fin dall’inizio che il Pd fosse una cosa seria è stato lui, con buona pace dei militanti che invece ci avevano investito tempo e passione, e oggi si sentono sconfitti come coniugi alle prese con un fallimento matrimoniale. Si è strappato il cerotto, dice. Il guaio è che, prima di strapparselo, se l’era messo, indossandolo per anni come una medaglia. Perché a questo ormai si è ridotta la politica. A un mettere e togliere cerotti sopra ferite che non guariscono mai.

giovedì 2 marzo 2017

L’inchiesta Consip finirà nel nulla ma Travaglio già sentenzia


Fabrizio Rondolino
L'Unità 2 marzo 2017
Il “metodo Travaglio” è già stato condannato dalla Corte di Strasburgo
Per commentare il Fatto di oggi, interamente dedicato a “babbo Renzi” in un crescendo di insinuazioni, allusioni, manipolazioni, è sufficiente ricordare una recentissima sentenza della Corte di Strasburgo – naturalmente ignorata dal Fatto e dunque ignota ai suoi lettori – che chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio come funziona il “metodo Travaglio” e perché quel metodo costituisca un reato.
Nel 2008 e nel 2010 il Direttore di Bronzo fu condannato per aver diffamanto Cesare Previti in un articolo, pubblicato sull’Espresso nel 2002, che riportava soltanto una parte delle dichiarazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, “generando così nel lettore – scrive la Corte – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. Spiega la Corte: “Come stabilito dai tribunali nazionali [Travaglio era già stato condannato in primo e in secondo grado, Ndr], tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata nel resto della dichiarazione non inclusa nell’articolo”.
E’ significativo che sia stato lo stesso Travaglio a ricorrere a Strasburgo rivendicando il diritto alla libertà d’espressione (non per caso è il Direttore di Bronzo): ma la libertà d’espressione, com’è noto a chiunque tranne che a Travaglio, non è libertà di diffamazione.
Prendere una frase a piacere, decontestualizzarla, omettere tutto ciò che contraddice la propria tesi e amplificare un frammento a scapito dell’insieme, così da costruire una “verità alternativa” – questa l’opinione dei giudici europei – non c’entra niente con la libertà di espressione, e anzi ne è in un certo senso il rovescio. In buona sostanza, è una bugia. E come tale va giustamente sanzionata.
Vedremo come andrà a finire l’inchiesta Consip nella parte che sembra coinvolgere Tiziano Renzi e Luca Lotti: con ogni probabilità, nel nulla. Il presunto reato (“traffico di influenze”) è a dir poco gassoso, prove non ce ne sono, le testimonianze sono frammentarie e contraddittorie, di pagamenti e tangenti non c’è la minima traccia. Ma per il Fatto non ci sono dubbi: “Tangenti a Consip e 30mila euro al mese promessi a babbo Renzi” è il titolone di prima pagina.
Siamo da capo: l’importante è sputtanare, distruggere la reputazione, attivare la macchinetta del fango. Fino alla prossima condanna – di Travaglio, naturalmente.