martedì 18 maggio 2021

Dichiarazione del Patriarcato latino di Gerusalemme sulle recenti violenze a Gerusalemme

 

Con tutti i Capi delle Chiese, siamo “profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla Moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e quella di Gerusalemme come Città della Pace," e richiedono un intervento urgente. La violenza usata contro i fedeli mina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente. Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah è un'altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ciascuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all'umanità da Dio stesso.

Per quanto riguarda la situazione di Sheikh Jarrah, facciamo eco alle parole dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani che ha affermato che lo stato di diritto viene "applicato in modo intrinsecamente discriminatorio". Questo è diventato uno dei punti più critici delle crescenti tensioni a Gerusalemme in generale. L’episodio in questione non riguarda una controversia immobiliare tra privati. È piuttosto un tentativo ispirato da un'ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa.
Di particolare significato è anche il diritto di accesso ai Luoghi Santi. Ai fedeli palestinesi è stato negato l'accesso alla moschea di Al Aqsa durante questo mese di Ramadan. Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l'anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri.
La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque. Questa è una città sacra alle tre religioni monoteiste e, sulla base del diritto internazionale e delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, anche una città in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l'uguaglianza e la pace. Chiediamo pertanto un assoluto rispetto dello status quo di tutti i Luoghi Santi, compreso il complesso della moschea di Al-Aqsa. L'autorità che controlla la città dovrebbe proteggere il carattere speciale di Gerusalemme, chiamata ad essere il cuore delle fedi abramitiche, un luogo di preghiera e di incontro, aperto a tutti e dove tutti i credenti e i cittadini, di ogni fede e appartenenza, possono sentirsi a “casa”, protetti e sicuri.
La nostra Chiesa è stata chiara sul fatto che la pace richiede giustizia. Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l'ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette.
Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme. Ci uniamo in preghiera con l'intenzione del Santo Padre Papa Francesco che "l'identità multireligiosa e multiculturale della Città Santa possa essere rispettata e che la fraternità possa prevalere".
9 maggio 2021

mercoledì 12 maggio 2021

Una bella storia

Ho letto il libro su Giovanni Landi tutto d’un fiato, così come si legge un romanzo appassionante.

Sono rimasto stupito dalla caratura dell’uomo e dell’importanza della sua azione, oltre che dalle relazioni ampie ed ai massimi livelli.
Ho sempre pensato che Brescia fosse uno dei luoghi di elezione del cattolicesimo-democratico, ma dalla lettura ho visto come non fosse solo uno dei luoghi ma il luogo di incubazione di una cultura politica che a tutt’oggi esprime personalità determinanti per la nostra nazione.
Ho visto in Landi i comportamenti e addirittura i modi di Gervasio e Riccardo, gli amici che ho potuto avvicinare e conoscere più a fondo all'interno della quantità di nomi e personalità che appaiono in questa pubblicazione. Sono passato mentalmente nei luoghi nei quali si è sviluppata quella cultura, fabbrica, sindacato, partiti/società, religione conciliare e resistente. Tutti luoghi scomparsi o comunque rimasti uguali solo nel nome. Belle e, per me, originali e sinteticamente complete le ricostruzioni di Bodrato, Pazzaglia, Fappani, Panighetti, Lovatti. Forte la volontà di Taini di parlare esplicitamente di fatti divisivi ma profondamente qualificanti e significativi. Commoventi le testimonianze dei suoi amici. Sembrano anni nei quali pur nelle frequenti sconfitte, la volontà sembrava aperta alla possibilità. I luoghi dell’incontro in tempi paradossalmente meno facili per la mancanza dei social, sembrano essere stati invece più funzionali alla possibilità di incidere sulla realtà.
Il cattolicesimo-democratico è morto?
Complimenti a tutti quelli che hanno reso possibile questa pubblicazione.
 
Claudio Donghi
Presidente dell'Associazione Gervasio Pagani

 

Dichiarazione del Patriarcato latino di Gerusalemme sulle recenti violenze a Gerusalemme

Con tutti i Capi delle Chiese, siamo “profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla Moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e quella di Gerusalemme come Città della Pace," e richiedono un intervento urgente.

La violenza usata contro i fedeli mina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente. Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah è un'altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ciascuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all'umanità da Dio stesso.

Per quanto riguarda la situazione di Sheikh Jarrah, facciamo eco alle parole dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani che ha affermato che lo stato di diritto viene "applicato in modo intrinsecamente discriminatorio". Questo è diventato uno dei punti più critici delle crescenti tensioni a Gerusalemme in generale. L’episodio in questione non riguarda una controversia immobiliare tra privati. È piuttosto un tentativo ispirato da un'ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa.

Di particolare significato è anche il diritto di accesso ai Luoghi Santi. Ai fedeli palestinesi è stato negato l'accesso alla moschea di Al Aqsa durante questo mese di Ramadan. Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l'anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri.

La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque. Questa è una città sacra alle tre religioni monoteiste e, sulla base del diritto internazionale e delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, anche una città in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l'uguaglianza e la pace. Chiediamo pertanto un assoluto rispetto dello status quo di tutti i Luoghi Santi, compreso il complesso della moschea di Al-Aqsa.

L'autorità che controlla la città dovrebbe proteggere il carattere speciale di Gerusalemme, chiamata ad essere il cuore delle fedi abramitiche, un luogo di preghiera e di incontro, aperto a tutti e dove tutti i credenti e i cittadini, di ogni fede e appartenenza, possono sentirsi a “casa”, protetti e sicuri.

La nostra Chiesa è stata chiara sul fatto che la pace richiede giustizia. Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l'ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette.

Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme. Ci uniamo in preghiera con l'intenzione del Santo Padre Papa Francesco che "l'identità multireligiosa e multiculturale della Città Santa possa essere rispettata e che la fraternità possa prevalere".

9 maggio 2021

 

lunedì 1 marzo 2021

“Il PD lanci una nuova Costituente del riformismo italiano”.

Intervista a Giorgio Tonini

Senatore Tonini, incominciamo questa nostra conversazione con il governo Draghi. Le chiedo, adesso che la squadra  è completa, un giudizio sul governo. L’impressione è che, guardando la vicenda dei sottosegretari, non sia partito con il piede giusto. Trova esegerata questa affermazione?

Il mio giudizio è che, nelle condizioni date, si tratta del governo migliore possibile per il paese. Del resto l’Italia, che fatica ad organizzarsi in modo soddisfacente in via ordinaria, dà sempre il meglio di sé nelle situazioni eccezionali. Dinanzi alla triplice emergenza che dobbiamo affrontare – sanitaria, socio-economica e politica – il presidente Mattarella ha chiamato a raccolta tutte le forze politiche e sociali, attorno alla personalità oggi più stimata nel nostro paese, che è anche l’italiano più conosciuto e apprezzato nel mondo. A sua volta Mario Draghi, forte di un largo consenso trasversale, ha composto un Consiglio dei ministri di alto profilo, sia tecnico che politico, una miscela sapiente di competenza e rappresentatività, che sono poi le due componenti, ugualmente importanti, per dar vita ad un governo autorevole. Questi, a mio modo di vedere, sono i dati politici essenziali. Dopo di che, ognuno ha in testa il suo “dream team”, che si tratti della nazionale di calcio o del governo del paese. Ma il fuoco, diceva De Gasperi, si fa con la legna che si ha.

Sembra che la destra, in particolare la Lega, sia più a suo agio nel governo. Per lei?

Il Pd e il M5S entrano nel nuovo scenario dopo la crisi del “loro” governo, il governo giallo-rosso, il governo Conte2, quindi con un sentimento misto, al tempo stesso di convinzione (soprattutto da parte del Pd) e frustrazione (in particolare tra i grillini). Per il centrodestra il passaggio di fase assume un significato assai diverso. Da parte di Forza Italia, l’ingresso nel nuovo esecutivo è vissuto come la fine di uno stato di esclusione dal governo che durava dal 2011, a parte i primi mesi del governo Letta. E per la Lega, che pure è costretta ad ammainare tutte le bandiere “salviniane”, il terzo governo di questa legislatura è comunque vissuto come un ritorno, quasi una rivincita. Nella sintesi hegeliana, rappresentata dal terzo governo di questa legislatura, dopo la tesi e l’antitesi dei due governi Conte, è inevitabile che il centrodestra veda soprattutto la “negazione della negazione”. Ma se dal punto di vista della sua base politico-parlamentare, il governo Draghi è effettivamente la sintesi dei due stadi precedenti, dal punto di vista del programma e della cultura politica che lo sostiene, incarnati nella figura e nelle parole inequivoche di Mario Draghi, il nuovo esecutivo non è affatto equidistante tra Conte1 e Conte2, ma si pone semmai come la terza fase, quella conclusiva (vedremo se anche definitiva) della liquidazione politica del populismo sovranista e antieuropeo che tre anni fa era entrato da vincitore nelle aule della Camera e del Senato.

La domanda sul governo era una specie di ouverture. Arriviamo al vero argomento dell’intervista: il partito democratico. Possiamo dire che la pandemia e l’esperienza del governo Conte hanno nascosto il malcontento che ora sta emergendo nel suo partito. Un malcontento che tocca la gestione del partito e della linea politica portata avanti dal segretario Zingaretti. Le chiedo: non è deleterio, in questo contesto complicatissimo (e con questo governo), dividere il PD?

Dividere il Pd, in qualunque scenario, non solo in questo, è molto più che deleterio, è un atto di irresponsabilità nei confronti del paese. Vede, nessun paese europeo ha dovuto affrontare la doppia emergenza, sanitaria e socio-economica, nel contesto di debolezza, precarietà e instabilità politica dell’Italia. Tutti e tre i governi di questa legislatura sono stati guidati da personalità (prima Conte, poi Draghi) scelte fuori dal parlamento e dai partiti. Tutto legittimo, sul piano costituzionale. Tutto necessario e anzi obbligato, sul piano politico. Ma tutto anomalo sul piano democratico. La politica italiana, questa è la verità, non è in grado di svolgere la sua funzione primaria: esprimere leader e assetti per il governo stabile del paese. La stabilità dei governi, bene primario di qualunque sistema democratico, è per noi italiani ancora un miraggio. Alla stabilità si può arrivare attraverso meccanismi istituzionali (come nel caso della Francia, governabile anche con partiti deboli o addirittura in crisi), o attraverso un sistema di partiti parlamentari forti e durevoli nel tempo, come in Germania o nel Regno Unito. Non si possono cumulare, come accade in Italia, regole istituzionali pensate per indebolire i governi e partiti deboli e precari. Un sistema democratico di tipo parlamentare è sano e forte se ha pochi (idealmente due) partiti grandi e duraturi, “a vocazione maggioritaria” come diceva Mitterrand, attorniati da qualche forza minore. Non quattro-cinque partiti medi, nessuno dei quali in grado di ottenere nemmeno un quarto dei voti, circondati da un pulviscolo di formazioni politiche in perenne metamorfosi, per lo più frutto di trasformismo parlamentare, o di scissioni motivate da ragioni contingenti se non effimere. Se ogni oppositore di Angela Merkel dentro la Cdu-Csu avesse dato vita ad un suo partitino, oggi la Germania sarebbe messa come l’Italia.

Veniamo alle critiche mosse al Segretario. In particolare, per l’area riformista, si fa osservare che il PD è stato troppo schiacciato sui cinque stelle. Per cui, sempre secondo l’area riformista, occorre tornare alla vocazione maggioritaria. Al di là delle parole qui si tocca il problema identitario del PD. Un problema enorme, che ancora non è stato definitivamente risolto. In un contesto così drammatico (disagio sociale enorme, esplosione della povertà, ricostruzione del Paese) quale identità per il PD?

L’identità di un partito, mi ha insegnato Alfredo Reichlin, è definita dalla sua funzione. Il Pd è nato da una grande convergenza e non da una scissione: dunque l’identità del Pd è la sua funzione di unire il riformismo per portarlo al governo del paese. Il Pd è la casa comune dei riformisti del centrosinistra, una casa grande e plurale, retta da un progetto politico, rendere il riformismo maggioritario nel paese per dare al paese quella stagione di riforme che non ha mai conosciuto. E retta da una regola aurea, la contendibilità di tutte le cariche e le candidature, per la quale nessuna vittoria e nessuna sconfitta nella dialettica interna è mai definitiva e irreversibile: il vincitore pro tempore non espelle gli sconfitti e gli sconfitti pro tempore non spaccano il partito. Progetto politico e principio democratico sono stati minati alle fondamenta dalle tante scissioni, inutili e dannose, perpetrate peraltro da chi dal partito aveva avuto ruoli di massima direzione, come Bersani o Renzi. Possiamo andare ancora avanti in questa diaspora, in questa deriva disperatamente nichilista, fino alla completa distruzione, fino all’annientamento del più importante e ambizioso progetto politico italiano di questo secolo. O possiamo invece assumerci la responsabilità di rilanciare la capacità inclusiva e la vocazione maggioritaria del Pd. Anche con un passaggio straordinario, una nuova Costituente del riformismo italiano, nella quale riscoprire e rilanciare le ragioni dell’unità in nome di una comune visione del futuro del paese. In questo rilancio di un riformismo ripensato e rinnovato deve esserci spazio anche per una riflessione non rituale sul populismo. Il riformismo perde se non ascolta, interpreta e rappresenta le ragioni del popolo. Le ultime riflessioni di Emanuele Macaluso sono state un grido d’allarme circa la gravità e l’aggravarsi progressivo della frattura tra riformismo e popolo. È in questa chiave che è stato giusto aprire un dialogo tra Pd e Cinquestelle: un dialogo che ho sempre sostenuto e difeso. Un dialogo che ha prodotto risultati importanti per il paese, a cominciare dal ritorno (e da protagonista) dell’Italia nel “mainstream” europeo, un ritorno che ha contribuito non poco a rendere possibile la “svolta keynesiana” della politica economica dell’Unione. Un dialogo che non è riuscito tuttavia a mostrare capacità espansive sul piano dei consensi, né in parlamento, né nel paese. Forse perché impostato, da entrambe le parti, più sul piano della divisione del lavoro e della spartizione di aree di influenza e di potere, che sulla produzione di una sintesi politica e programmatica più avanzata e persuasiva. Probabilmente, la crisi del governo Conte2 ha in questo limite strategico le sue cause non occasionali.

Voi del PD avete chiaro chi sono i vostri elettori?

I nostri elettori attuali e reali sono prevalentemente ceti medi urbani che vivono di spesa pubblica. Una parte pregiata, ma strutturalmente minoritaria, del paese. Il Pd, come l’Ulivo prima del Pd e in generale la sinistra e il centrosinistra dopo la fine della “Prima Repubblica”, fatica a rappresentare, per dirla con Claudio Martelli, sia il merito che i bisogni: sia i competenti-competitivi sul mercato, sia i perdenti della globalizzazione, a cominciare dagli operai. Vocazione maggioritaria significa oggi in concreto saldare i (relativamente) garantiti dalla spesa pubblica, con i competitivi da una parte e i perdenti dall’altra. Il ciclo di governo a guida Pd della scorsa legislatura (prima Letta, poi Renzi, poi Gentiloni) non è riuscito in questo tentativo: un fallimento del quale mi sento, per la mia parte, corresponsabile. Purtroppo nel Pd, dove si discute e soprattutto si litiga in piazza ogni giorno su tutto, non si è mai avviata una vera riflessione sulle cause e sui possibili rimedi di quel fallimento, riassunto nella cocente sconfitta del 2018. Ci si è divisi su Renzi: tutta colpa sua, cacciamolo, contro tutta colpa di chi lo ha contrastato, cacciamoli. Come i milanesi durante la peste raccontata dal Manzoni, invece di indagare le cause, ci siamo dedicati alla poco nobile arte della caccia al colpevole. Né i renziani, né gli antirenziani si sono chiesti perché nel giro di due anni, con lo stesso segretario, il Pd è volato sopra il 40 per cento, per poi precipitare sotto il 20. Dal massimo al minimo storico.

Torniamo al governo, non pensa che la lealtà, assolutamente doverosa, non debba essere la sola caratteristica del PD al governo, ma dovrebbe essere anche quella di un protagonismo capace di creare una egemonia politica nel governo?

Il Pd non potrebbe non sostenere il governo Draghi, neppure se, per assurdo, lo volesse. Perché sarebbe come non sostenere se stesso, i fondamenti primari della sua cultura politica. Quindi lealtà è troppo poco. Il governo Draghi per il Pd non è un “governo amico”, è il “suo” governo. È il “nostro” governo. Il protagonismo del Pd deve esprimersi in due direzioni. Innanzi tutto sul piano programmatico. Ho parlato prima del nostro fallimento politico nella scorsa legislatura. A parziale nostro discarico, possiamo invocare l’argomento della totale inadeguatezza della linea di politica economica dell’Europa. L’allora ministro Padoan parlava di un “sentiero stretto” lungo il quale l’Italia doveva camminare a passi piccoli e prudenti: tra politiche restrittive, per evitare il default del nostro gigantesco debito pubblico, e politiche espansive, per evitare che la cronica stagnazione della nostra economia reale diventasse recessione e depressione. Quel sentiero era stato reso praticabile dalla politica monetaria, marcatamente espansiva, della Bce presieduta da Mario Draghi. Ma il sentiero restava stretto perché, come ripetutamente e pubblicamente sottolineato dallo stesso Draghi, la politica monetaria non era sorretta da una parallela politica economica espansiva a livello federale europeo, l’unica in grado di compensare le politiche restrittive necessarie nei paesi fortemente indebitati e di sostenere le riforme strutturali, indispensabili per accrescere la competitività delle nostre imprese sul mercato globale. Quella svolta è ora finalmente arrivata. Il governo Draghi deve poter dimostrare che la forza espansiva dell’imponente pacchetto di misure keynesiane europee sarà impiegata dall’Italia per fare solo debito “buono” (quello che si ripaga perché alimenta la crescita e non si limita ad accompagnare il declino) e per sostenere le riforme strutturali che rendano possibile e sostenibile la distruzione creatrice, che è la chiave per accrescere la competitività del nostro sistema e dunque la crescita e l’occupazione. Il Pd deve scommettere senza riserve mentali sul successo dell’Agenda Draghi: perché è l’unica chance per l’Italia, ma anche perché è l’unica chance per il Pd, per dimostrare a se stesso e al paese che è possibile una nuova convergenza tra riforme e popolo, una credibile ambizione maggioritaria del riformismo.

Questa è la prima direttrice del protagonismo Pd. La seconda?

La seconda è più semplice, se si realizza la prima. La componente cosiddetta “tecnica” del governo Draghi è perlopiù incarnata da personalità che da sempre si riconoscono nel riformismo di centrosinistra. Il Pd dovrebbe nutrire l’ambizione di diventare abitabile, in via naturale e spontanea, per personalità, mondi, ambienti che oggi fanno fatica a riconoscersi in un partito dilaniato da incomprensibili baruffe tra piccoli leader di ancor più piccole correnti.

Veniamo a Giuseppe Conte, qual è il suo pensiero su di lui? Pensa che possa essere ancora il punto di riferimento per i progressisti?

Non conosco personalmente Giuseppe Conte, ma gli riconosco il merito di aver guidato con dignità e responsabilità una transizione assai difficile. Sul suo futuro politico, non saprei. Spero che decida di portare il suo contributo alla ricomposizione della frattura tra riformismo e popolo. Sul proliferare di partitini personali ho già espresso la mia opinione.

Non le preoccupa la crescita di Giorgia Meloni?

Certo. È un segnale di quanto sia ancora irrisolta la frattura tra riformismo e popolo. Sul tempo medio, è un fattore di forza tattica, ma anche di debolezza strategica del centrodestra. Forza tattica, perché è del tutto evidente che il centrodestra, superata (come speriamo tutti) l’emergenza e scelto insieme il nuovo presidente della Repubblica, si appresta a chiedere il voto, convinto di poter saldare in modo vincente il “partito del Nord”, che si è ritrovato attorno all’asse governativo tra Forza Italia e Lega (almeno parzialmente) “desalvinizzata”, asse sdoganato dall’esperienza del governo Draghi, con le aree, geografiche e sociali, del paese che mantengono un atteggiamento di diffidenza e di protesta e che oggi tendono a riconoscersi soprattutto in FdI. Questa forza tattica rischia tuttavia di capovolgersi in debolezza strategica, se il partito della Meloni dovesse rafforzarsi in modo tale da mutare in modo significativo gli attuali rapporti di forza nel centrodestra. Molto dipenderà anche dal Pd: se saprà utilizzare appieno il sostegno e anzi l’identificazione col  governo Draghi come propellente di un allargamento delle basi del suo consenso nel paese, o se invece cederà questa opportunità al rinnovato asse tra Lega e Forza Italia. Come avviene in ogni grande coalizione, la collaborazione tra avversari non può che essere anche una competizione: per il migliore posizionamento, in vista del confronto elettorale futuro.