venerdì 31 gennaio 2014

non mollare!

«La verità è che gli stiamo tagliando l’erba sotto i piedi  smontando uno a uno tutti i suoi soliti e triti argomenti. La riforma della legge elettorale, l’abolizione del Senato come Camera elettiva, la cancellazione delle Province, il taglio al finanziamento dei partiti e la revisione del Titolo V... Dalla politica arrivano finalmente risposte, Beppe Grillo non sa come reagire e perde la testa. È per questo che cerca la rissa, la butta in caciara e arriva addirittura a proporre l’impeachment di Napolitano, al quale siamo stati noi a chiedere di restare. Ma vedrete che quest’ultima mossa gli si ritorcerà contro e gli creerà problemi perfino nei suoi gruppi parlamentari». 

Matteo Renzi

Contro il Colle il partito dello sfascio

Stefano Menichini 
Europa  

L'attacco assurdo a Napolitano, insieme ai blitz militari in parlamento, svelano il disegno di far fallire l'estremo tentativo di autoriforma delle istituzioni. Allora occhio ai voti segreti.
Il disegno di Grillo e Casaleggio è smaccato. Devono tornare a mostrare al paese un parlamento travolto dal caos, dallo scandalo, lesionato nelle sue garanzie democratiche. E questo proprio nei giorni nei quali lo stesso parlamento, le istituzioni, i partiti, stanno finalmente dando un’immagine quanto meno produttiva di sé. Stanno risolvendo almeno il primo dei molti problemi lasciati a marcire per anni, e dalla cui fermentazione sono nati il loro discredito e poi il consenso per Cinquestelle.
Il simbolo più alto di questo tentativo di autoriforma della politica è colui che per anni l’ha invocata, promossa, perseguita, mentre i partiti erano irresponsabilmente sordi.
L’estremo assalto a Giorgio Napolitano non ha la minima consistenza giuridica, né pretende di averla. Il documento di M5S è un’accozzaglia di accuse assurde, per alcune delle quali (l’abuso della decretazione d’urgenza) si sarebbero dovuti al limite arrestare tutti i presidenti della storia recente della Repubblica, meno Napolitano che ha spesso denunciato la distorsione di cui sono responsabili un governo e un parlamento appunto inefficienti e lenti.
Il tassello più infame del castello di accuse torna a essere – nonostante le pronunzie inequivocabili dei magistrati siciliani – la pretesa copertura offerta dal Quirinale alla pretesa trattativa tra Stato e mafia. Qui Grillo e i suoi sono solo meri esecutori di un disegno calunnioso perseguito contro ogni smentita ed evidenza dal partito trasversale fondato e diretto da Ingroia e Travaglio.
La procedura di messa in stato d’accusa non andrà ovviamente da nessuna parte. Com’è tipico dei diffamatori, si vuole solo lasciare il segno del sospetto. Così come sarebbe ridicolo cercare di farci credere che la indecente buriana montata alla Camera sia davvero stata una reazione al (tardivo) intervento della Boldrini.
Tutto per Banca d’Italia? Via, non siamo bambini. Qui è in corso un’operazione che porterà M5S fino alle Europee sulle ali di un estremismo parolaio mai conosciuto prima neanche da loro, che pure ne sono campioni.
In questa situazione, senza voler restringere lo spazio alla discussione e al miglioramento della nuova legge elettorale, chi a Montecitorio si troverà a spingere pulsanti per voti segreti sull’Italicum dovrebbe riflettere bene. Se per incidente questo estremo tentativo di salvare la politica da se stessa dovesse fallire per mano ignota, davvero lì dentro non si salverebbe nessuno dalla ramazza. E non sarebbe solo Grillo a impugnarla.

giovedì 30 gennaio 2014

Ma gli “sfascisti” non vinceranno

Alfredo Bazoli
30 gennaio 2014 dal blog

Vediamo di ricapitolare. La settimana scorsa giunge in aula un decreto da convertire in legge entro il termine di oggi, 30 gennaio. E’ un provvedimento che contiene due distinte materie, la cancellazione della seconda rata IMU, e la rivalutazione delle quote della Banca d’Italia. Una legge certamente opinabile, come tutte del resto, che è già passata al Senato, e sulla quale il m5s decide di attuare l’ostruzionismo, come già accaduto altre volte. Poiché i termini per la conversione si approssimano, il governo decide di adottare l’unico strumento che ha per accorciare i tempi di approvazione, mettendo la questione di fiducia, che fa automaticamente decadere tutti gli emendamenti, e che viene votata venerdì scorso.
Lunedì si riprende la discussione sugli ordini del giorno, che sono centinaia e devono essere votati prima dell’approvazione finale. Il m5s sfrutta le pieghe del regolamento per allungare i tempi, e discute ogni singolo ordine del giorno fino ad esaurimento. Si giunge così al pomeriggio di ieri, alle dichiarazioni di voto finale. I grillini forzano la mano, si iscrivono a parlare tutti per dieci minuti, sfruttando una delle tante falle regolamentari della camera, che per le conversioni dei decreti legge, e a differenza di quanto previsto per le leggi ordinarie, non consente di contingentare i tempi di discussiofinale. Proprio per questo motivo e’ in vigore una prassi che, al fine di impedire che la minoranza possa pregiudicare l’approvazione di un decreto, consente al presidente della camera di applicare la cd. ghigliottina, ovvero di indire subito la votazione finale troncando la discussione.
Tutti sanno di questa prassi, che mai è stata esercitata poiché in passato l’ostruzionismo si è sempre fermato in tempo. Questa volta no. Nonostante frenetiche riunioni dei capigruppo fino all’ultimo momento utile, i grillini non recedono dai loro propositi. Sia chiaro, nessuno ha conculcato i loro diritti, la discussione in commissione e in aula e’ stata lunga, infinita. Ma questa volta, diversamente dai mesi passati, il m5s non si ferma, costringendo la Boldrini ad applicare la tagliola.
Perché? Ci sono ragioni di merito così sconvolgenti da rendere giustificato, inevitabile, o quanto meno ragionevole questo atteggiamento del m5s? Solo un ingenuo potrebbe pensarlo. Certo, le materie sono delicate, le scelte opinabili, ma di sicuro non più di tanti altri provvedimenti discussi in passato. La verità e’ che questa scelta, come tante o forse tutte quelle politicamente più rilevanti del m5s, e’ figlia di un proposito preciso, e ispirata dal famoso guru Casaleggio, non a caso presente a Roma in questi giorni. Il proposito e’ quello di alzare il livello dello scontro, di surriscaldare il clima, di stressare i rapporti politici, al fine di ostacolare il percorso di riforme, a partire dalla legge elettorale, che oggi appaiono possibili, e che se andassero in porto taglierebbero l’erba su cui prospera il m5s, quello della protesta contro l’inconcludenza e l’inaffidabilità della politica.
Coerentemente con questo chiaro intento, stiamo assistendo ad una escalation inusitata, iniziata con la gazzarra violenta e indegna inscenata al termine del voto di ieri, culminata con un assalto ai banchi del governo e della presidenza, e proseguita ieri sera e oggi impedendo lo svolgimento delle commissioni parlamentari. Atti gravi, che hanno messo a repentaglio il normale funzionamento delle istituzioni democratiche, e molto preoccupanti perché danno il senso di un tentativo di attizzare il fuoco, di eccitare gli animi, nella speranza di dare una spallata al sistema, di disarticolare la democrazia.
Comportamenti di natura quasi eversiva, posti in essere da ragazzi privi di qualunque esperienza politica e istituzionale, del tutto ignari delle conseguenze dei loro gesti, invasati e accecati da un nuovo integralismo non poi così diverso da altri del passato, quello della verità esclusiva, dell’appartenenza alle armate del bene in lotta contro il male, della convinzione della propria purezza a fronte delle macchie altrui. Una forma di ideologia ben insufflata, ed eccitata, da cattivi maestri che stanno fuori.
Di questo disegno, naturalmente, fa parte anche la richiesta di impeachment del presidente della repubblica per alto tradimento, una richiesta priva di qualunque fondamento giuridico e politico, ma utile all’obiettivo perseguito. Questo è il clima nel quale oggi è dato a noi di operare: un clima difficile e preoccupante, che ci carica di una quota grande di responsabilità da esercitare con equilibrio e pazienza, continuando a lavorare per sbloccare questa crisi lunga e faticosa, e far ripartire il paese. Obiettivi che oggi mi sembrano assai più vicini di poco tempo fa, e che non permetteremo vengano impediti da chi preferisce puntare sulle macerie del paese.

meraviglia....


Una buona riforma, in attesa della Riforma

Stefano Menichini 
Europa  

L'accordo parlamentare sull'Italicum è un gran successo di Renzi e del suo Pd. Il nuovo sistema elettorale è buono anche se non perfetto. Sarà Terza repubblica solo dopo le riforme costituzionali.
In Italia, riuscire a realizzare qualcosa su cui ci si era impegnati è raro. Procedere rispettando i tempi stabiliti e superando la giungla di difficoltà della politica è poi quasi incredibile. Matteo Renzi costruirà intorno a questi capisaldi tutto il racconto su di sé, e avrà ragione. Ogni scongiuro è autorizzato, ma la spinta che gli viene dalla chiusura dell’accordo di ieri dovrebbe essere sufficiente a far passare l’Italicum dalle forche caudine delle votazioni alla camera e al senato.
Dopo di che, di una realizzazione è importante misurare la qualità e l’efficacia, oltre che il fatto in sé: Renzi dovrebbe rimanere alla larga dalla retorica del “fare” svincolato dalle sue conseguenze.
Italicum certo non è perfetto. La sua lacuna più evidente riguarda il rapporto eletto-elettore: da questo punto di vista è incomparabilmente migliore del Porcellum, non ha ceduto alla tentazione pericolosa delle preferenze, è però distante dall’optimum dei collegi uninominali.
Le soglie sono tutte ritagliate sulla situazione e sulle convenienze attuali dei partiti: era inevitabile. È però importante notare che il 37 per cento appare ora molto difficile da raggiungere per chiunque, il che rende il secondo turno inevitabile: e il ballottaggio è di gran lunga la formula più chiara per decidere una maggioranza. Il 4,5 fa sorridere, sembra uscito più da un banco di Porta Portese che da una trattativa politica ad alto livello. Quanto alla soglia “territoriale” (la clausola salva-Lega), deve infastidire più per la spudorata ipocrisia di Matteo Salvini che se ne dice disinteressato, che per la cosa in sé, che avrebbe anche un senso.
L’impressione generale è di un buon risultato tecnico date le premesse. Di un forte acceleratore della costruzione e del rafforzamento della leadership di Matteo Renzi e della centralità del Pd. Ma non di un epocale cambio di Repubblica. Il parlamento che dovesse uscire dall’Italicum non sarebbe molto diverso dall’attuale, quanto a numero e forza dei partiti.
Il cambio vero è contenuto nelle riforme costituzionali, soprattutto nell’abolizione del senato elettivo. E questo, nonostante l’accordo tra Renzi e Berlusconi, non è un risultato proprio a portata di mano: le resistenze saranno potenti e i tempi pericolosamente lunghi.
Nel destino della riforma costituzionale c’è tutta la differenza fra un grande e indiscutibile successo politico, quello ottenuto da Renzi in questi giorni, e un risultato davvero storico. Che speriamo non debba essere di nuovo rimandato alla prossima legislatura.

mercoledì 29 gennaio 2014

....ripresa....







Lagarde: "In Ue 20 milioni di disoccupati. In Italia un terzo degli under 25 senza lavoro"
La direttrice del Fmi smorza gli entusiasmi sulla ripresa. Tre obiettivi per riportare una crescita sostenibile in Europa: rafforzare la struttura dell'unione monetaria, ridurre i livelli di indebitamento pubblici e privati, riformare i mercati del lavoro e dei prodotti

L’uovo di Mastrapasqua


La Stampa
28 gennaio 2014

Ma è mai possibile, si lamentano da alcuni giorni i miei cari, che il dottor Mastrapasqua riesca a fare il presidente dell’Inps, il vicepresidente esecutivo di Equitalia, Equitalia nord, Equitalia centro ed Equitalia sud, il direttore dell’ospedale israelitico e della casa di riposo ebraica, il dirigente di Italia Previdente, Eur spa, Eur Tel, Eur congressi Roma, Coni servizi spa, Autostrade per l’Italia, Fandango, Telecom Italia Media, il consigliere d’amministrazione di Quadrifoglio, Telenergia, Loquendo, Aquadrome, il presidente onorario di Mediterranean Nautilus Italy, Adr Engineering, Consel, Groma, Emsa Servizi, Telecontact Center, dell’immobiliare Idea Fimit Sgr e di chissà cos’altro ancora - insomma, che in un’epoca di disoccupazione diffusa il dottor Mastrapasqua sia in grado di gestire da solo venticinque incarichi, venticinque uffici, venticinque ficus da bagnare almeno venticinque volte l’anno, venticinque posti macchina e forse venticinque macchine, ma di sicuro venticinque chiavi d’ingresso e quindi un portachiavi immenso, un bigliettone da visita a venticinque strati e decine di riunioni, cene di rappresentanza, ricevute gonfiabili, conflitti di interesse, incontri e telefonate per litigare, mettersi d’accordo e combinare affari con le altre ventiquattro parti di se stesso - mentre tu ogni volta che in casa c’è qualche lavoretto da fare dici sempre che non hai tempo e che sei stanco morto? 

L’ultimo agguato nella palude

Stefano Menichini 
Europa  

Ore decisive per la riforma elettorale. Renzi si batte contro il partito del rinvio, che vorrebbe soprattutto soffocare da subito la leadership del segretario Pd
C’hanno provato. E ci proveranno fino all’ultimo, fino a stasera, fino a quando rimarrà una sola possibilità di fermare la corsa della riforma elettorale. Non è esagerato dire che queste sono le ore decisive per capire se l’Italicum è destinato al fallimento immediato, o a un primo e forse decisivo successo parlamentare.
Negli ultimi giorni, il partito che ha lavorato di più è stato il partito dell’ostruzionismo. Lo compongono coloro (di tutti gli schieramenti) che vorrebbero trascinare il gioco della riforma all’infinito, con le tattiche dilatorie applicate negli ultimi anni. Non è che non vogliano una nuova legge: semplicemente, non la vogliono così esigente nei confronti dei piccoli partiti; e soprattutto non vogliono che il suo varo rappresenti una vittoria di Matteo Renzi e della sua leadership.
Qui c’è la questione cruciale. Il punto forte e il punto debole dell’operazione tentata dal segretario del Pd.
Si diceva la verità, quando si prendeva atto (come ha fatto anche il capo dello stato) che Renzi fosse l’unico attore sulla scena in grado di portare a casa il risultato, nell’interesse dell’intero sistema e del buon nome del parlamento, dei partiti e della politica.
Il risvolto di questa medaglia è che a tutti coloro che vogliono soffocare subito le ambizioni del sindaco è stata offerta l’occasione di fargli del male. Magari non battendolo apertamente ma costringendolo ai tempi lunghi, al rinvio, alla palude di Palazzo nella quale annega ogni entusiasmo. Non si può escludere che fra costoro ci sia anche Berlusconi: non dimentichiamo che è lui l’avversario finale di Renzi.
La normalizzazione del nuovo arrivato, la sua riduzione a politico qualunque, la fine della sua eccezionalità: questa è la partita parallela che si gioca, intrecciata a quella sulla riforma elettorale e a quella sul governo, nelle cui difficoltà si vorrebbe coinvolgere il segretario del Pd fino all’estremo di consegnargli palazzo Chigi.
Il partito della palude non capisce quanto male faccia in realtà a se stesso, più che a Renzi. Il sindaco, agile e sfuggente, saprà comunque proporre una versione dei fatti positiva per sé, foss’anche nel ruolo di vittima.
Gli altri, tutti gli altri, rimarranno ostaggi dell’unico beneficiario della paralisi: Beppe Grillo, lo scienziato pazzo che ha dato voce e vita a quel Frankenstein della politica che ieri dava del boia al capo dello stato stando seduto tra i simboli della Repubblica italiana.

martedì 28 gennaio 2014

il 16 febbraio....


Avanti tutta!

«Preferisco rischiare anche il fallimento, piuttosto che stare fermo nella palude. I contraccolpi ci saranno di sicuro e me li aspetto. Si serviranno di ogni mezzo e proveranno qualsiasi cosa per stopparmi. Ma se credono che io mi logori di qui al 2015 si sbagliano di grosso, possono aspettare... e avranno delle amare delusioni. A me portano bene tutti quelli che gufano sul mio insuccesso e sul mio logoramento».
Matteo Renzi

Il Pd, scontro inevitabile a sinistra

Stefano Menichini 
Europa  
 
Primi passaggi decisivi sulla riforma elettorale, sotto la minaccia di Renzi. Intanto Sel rompe col Pd: un po' tattica, un po' un conflitto inevitabile.
Sapremo presto se il dissenso interno al Pd sulla riforma elettorale deflagrerà e produrrà effetti politici o se invece – come sembrerebbe dal primo passaggio sugli emendamenti in commissione – tutto si ridurrà a tentativi di bandiera. La decisione di non portare fino in fondo modifiche sulle quali non siano d’accordo tutti i presentatori dell’Italicum è incoraggiante, ma va sottoposta alla verifica dei fatti e soprattutto del voto a scrutinio segreto in aula.
È su questo passaggio che pesa la minaccia di Matteo Renzi. Ascoltata per la quarta o quinta volta in pochi giorni, non suona un bluff. E del resto sarebbe inevitabile per il segretario del Pd non subire passivamente la bocciatura in campo aperto di un accordo sul quale si è esposto tanto. Ci sarebbero tutti gli argomenti validi da parte sua per dichiarare chiusa la legislatura e per presentarsi agli elettori con una carica rottamatrice moltiplicata dalla delusione subita. Gli effetti di un voto col sistema “ritagliato” dalla Corte costituzionale non sarebbero certo di governabilità: intanto però Renzi ne uscirebbe come leader battezzato dalle urne, mentre la maggioranza degli attuali parlamentari sparirebbe prematuramente nell’oblio. E loro lo sanno.
Intendiamoci. Fallimento del tentativo di riforma istituzionale, crisi di governo ed elezioni anticipate rimangono lo scenario meno probabile, anche per il presidio rappresentato dal capo dello stato. Ma nessuno può sentirsi tanto forte o incosciente da sfidare la sorte.
Intanto va però notato che, nelle pieghe della vicenda della riforma elettorale, sembrerebbe essersi consumato il primo equivoco dell’epopea Renzi.
Giorni fa sulla Stampa Luca Ricolfi notava le reazioni infastidite della sinistra tradizionale rispetto a modi, tempi e contenuti dell’azione del segretario Pd. Ora dalle reazioni umorali siamo passati ai fatti politici: Sel è uscita dal congresso in rottura col Pd, cancellando le impressioni su un buon mood fra Vendola e Renzi e anche l’ipotesi di intese elettorali o addirittura di confluenze.
Stiamo parlando di un mondo che non s’è ancora ripreso dal passaggio di Grillo-Gengis Khan, che ha lasciato terra bruciata lì dove sopravvivevano lacerti di cultura politica anticapitalista. A Rimini s’è avvertito il risucchio verso radicalismi italiani (l’ingroismo senza Ingroia) e soprattutto europei (la scelta di appoggiare Tsipras invece di Shultz).
Certo, sono posizionamenti da leggere più in chiave di trattativa a breve sulle soglie della legge elettorale e di campagna elettorale per le Europee. Potrebbero rientrare alla vigilia di elezioni politiche, intanto però confermano la profezia di Ricolfi: dopo il primo stordimento e la prima sconfitta nelle primarie, la sinistra “di prima” reagisce al ciclone Renzi. Dopo Sel, toccherà ai sindacati, quando il Jobs Act sarà definito e pubblico. Lì si misurerà la capacità renziana di mantenere vivo il proprio abile trasversalismo affrontando però di petto ogni conservatorismo. Com’è giusto che sia e come deve accadere, da Tony Blair a oggi.

lunedì 27 gennaio 2014

Giornata della memoria

per ricordare l’inconcepibile

Con Renzi la nebbia è finita


La prova cruciale, quella in cui si capirà di che stoffa è fatto Matteo Renzi, non è quella di questi giorni. Il test vero, per il sindaco di Firenze, arriverà quando dovrà affrontare in campo aperto i sindacati (soprattutto la Cgil) e l’ostinato conservatorismo dei suoi compagni di partito in materia di mercato del lavoro, tasse, spesa sociale.  
Ossia sulle cose che il 70% dei cittadini giudicano altrettanto o più importanti del cambiamento delle regole del gioco politico (sondaggio Ipsos pubblicato ieri dal «Corriere della Sera»). Vedremo allora se la cautela fin qui mostrata da Renzi, in particolare al momento della presentazione del «Jobs Act», cederà il passo a un atteggiamento più risoluto. Lo speriamo, perché la prima cosa che gli italiani si aspettano dalla politica non è una nuova legge elettorale, ma la possibilità di creare e trovare lavoro. 

Detto questo, però, come non godersi lo spettacolo di questi giorni? 
Sul cambiamento delle regole, Renzi ha fatto in 3 giorni più di quello che i politici politicanti hanno fatto in 31 anni, ossia dall’insediamento della commissione Bozzi sulle riforme istituzionali (1983). Ma soprattutto lo ha fatto in un modo che, per la sinistra, è del tutto nuovo. Con Renzi la sinistra si è riappropriata del linguaggio naturale, e con questa sola mossa ha cancellato un handicap formidabile che l’ha sempre condizionata nel confronto con la destra. Fino a ieri l’intero establishment di sinistra ha sempre parlato in codice, usando concetti astratti, formule vuote, espressioni allusive, perfettamente comprensibili agli addetti ai lavori ma drammaticamente lontane dalla vita e dalla sensibilità delle persone comuni. Per capirli, per capire che cosa veramente avessero inteso dire, per capire che cosa effettivamente fossero intenzionati a fare, ci voleva l’interprete. E per interagire con loro si doveva conoscere le buone maniere del linguaggio politico, quel dire e non dire, accennare e far intendere, lusingare e velatamente minacciare, ma sempre educatamente, sempre con il dovuto sussiego, sempre con il necessario bon ton intra-casta. Parole di nebbia, le aveva chiamate Natalia Ginzburg fin dai primi Anni 80. Parole che rendevano i politici di sinistra dei veri marziani agli occhi della gente comune. 

E’ anche per questo che, quando Berlusconi scese in campo nel 1994, per i politici di sinistra (e non solo per loro) fu un vero shock. Berlusconi parlava in linguaggio naturale. Si poteva ascoltare senza l’interprete. Esattamente come Renzi oggi. Renzi non parla in codice, non conosce le buone maniere del dibattito politico, se ne infischia dei balletti e dei cerimoniali dei suoi compagni di partito. Si lascia scappare battutacce, usa l’ironia e qualche volta il sarcasmo, è del tutto privo di quella sorta di omertà, o patto di non aggressione, che vige fra i professionisti della politica. Come se lui facesse un altro mestiere, e quindi non si sentisse in alcun modo vincolato alle regole di deferenza che derivano dall’affinità. I politici del Pd, offesi da Renzi, sembrano nobildonne ingioiellate che incontrano sulla loro strada il tamarro di turno: come in un film di Checco Zalone, loro porgono languidamente la mano per il baciamano, lui risponde con una pacca sulle spalle e passa allegramente oltre. 

Tutto questo è tremendamente spiazzante per i vecchi mandarini del suo partito, ma anche per molti quarantenni. Addestrati a parlare e agire in codice, abituati a tradurre ogni parola, a interpretare ogni comportamento, non sanno che pesci pigliare quando uno come Renzi la smette di menare il can per l’aia. Ma soprattutto sono imbarazzati, politicamente imbarazzati. Dal momento che Renzi comunica come Berlusconi, e per vent’anni i dirigenti della sinistra si erano vantati di non parlare come lui, ed erano persino arrivati a bollare il modo di comunicare di Berlusconi come segno inequivocabile di rozzezza-demagogia-populismo, diventa un bel problema ritrovarsi con un leader che, almeno in questo, assomiglia al loro peggiore nemico. Non avendo voluto capire a suo tempo che alcuni difetti di Berlusconi, come il parlar chiaro e la vocazione decisionista, potevano anche essere delle virtù, sono ora in difficoltà ad accettarle quando si ripresentano in uno dei loro, il neo-eletto segretario del Pd. 

Si potrebbe supporre che tutto ciò sia un guaio per i politici di lungo corso del Pd, e non per Renzi, che dopotutto tra frizzi, lazzi e fuochi d’artificio si trova perfettamente a proprio agio. E tuttavia la conclusione sarebbe affrettata, e troppo ottimistica, a mio parere. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, l’oscurità del linguaggio, per la sinistra, non è affatto un optional. Specialmente negli ultimi venticinque anni, dopo la svolta della Bolognina di Occhetto (1989), ossia da quando la sinistra ha provato a diventare riformista, un certo grado di ambiguità e furberia nella lingua è stato lo strumento con cui gli eredi del comunismo hanno cercato di preservare la propria unità e, talora, di allargare il proprio consenso. E’ solo in virtù di tale uso spregiudicato della lingua che, per oltre vent’anni, è stato possibile nascondere, dissimulare, attenuare le profonde differenze fra le varie anime della sinistra. Le 281 pagine di programma di Prodi nel 2006, così come i confusissimi 11 punti di Bersani nel 2013, non erano figli di modesti consulenti, o di pessimi uffici studi. No, quelle «parole di nebbia», come le avrebbe definite Natalia Ginzburg, erano il mezzo più idoneo per restare uniti nonostante i dissensi, l’unico modo di tenere insieme Prodi e Bertinotti, Veltroni e Vendola, Mastella e Padoa-Schioppa. Da questo punto di vista, è molto riduttivo sostenere – come usano fare i riformisti-doc – che l’unico collante della sinistra in questi venti anni sia stato l’antiberlusconismo: no, cari riformisti, la sinistra di collanti ne ha avuti due, uno era l’antiberlusconismo, l’altro il parlare per concetti vaghi, quella malattia della lingua che Raffaele La Capria ha definito «concettualismo degradato di massa». 

Ecco perché, per Renzi, la strada potrebbe essere in salita. Se Renzi parlerà chiaro su tutto, e non solo sulla legge elettorale, le divisioni dentro il Pd non saranno più occultabili con la nebbia della lingua, e il partito potrebbe spaccarsi. Specialmente sul mercato del lavoro, il conflitto fra sinistra conservatrice e sinistra modernizzatrice non potrà che venire allo scoperto. Credo sia questo il motivo per cui, un paio di settimane fa, sul Codice semplificato del lavoro di Ichino la sua risposta alla mia domanda (perché non vararlo subito?) sia stata così debole, così elusiva. Suppongo che Renzi non abbia troppa fretta sul mercato del lavoro perché vuole aspettare di aver il partito in mano prima di iniziare le battaglie politicamente più difficili (creare posti di lavoro è più difficile, ancora più difficile, che cambiare le regole del gioco).  
E’ una cosa che capisco benissimo. Purché non si perda di vista il nodo fondamentale: dopo 7 anni di crisi, con milioni di posti di lavoro perduti, gli italiani non si accontenteranno di un cambiamento delle regole del gioco.

sabato 25 gennaio 2014

Un passo da gigante, ma rivediamo gli sbarramenti

Salvatore Vassallo 
Europa  

Le soglie e la tecnica di ripartizione dei seggi hanno bisogno di adattamenti
L’accordo costruito da Renzi in tre giorni è un passo da gigante rispetto alle tre bicamerali precedenti. L’insieme del pacchetto prendere-o-lasciare è molto più ambizioso e rivoluzionario di tante proclamate «grandi riforme». Se tutti e tre pilastri – senato, legge elettorale, regioni – verranno tradotti in legge, le intese a fisarmonica di questa malnata XVII legislatura, grazie al nuovo Pd, saranno servite al paese, al di sopra di ogni ragionevole aspettativa.
La legge elettorale non è perfetta, ma può realizzare ciò che promette: i candidati saranno ben visibili sulla scheda e gli elettori saranno messi in condizione di valutarli; le elezioni potranno produrre una maggioranza parlamentare e un governo di legislatura; i partitini personali scompariranno dalla scena.
Il ritorno ai collegi uninominali, che sarebbe stata la strada maestra, si è rivelata non praticabile, ma potrebbe riprendere forza quando il sistema politico si sarà riassestato. Per ora, è senza dubbio preferibile abbandonare il meglio e prendere il bene che c’è nell’Italicum, applicandosi solo ai dettagli: le soglie e la tecnica di ripartizione dei seggi.
Uno degli aspetti della proposta su cui si appuntano molte critiche – e su cui io stesso a prima vista avevo espresso perplessità – ragionandoci, è del tutto sostenibile, con un piccolo adattamento.
In breve: che si fa dei voti andati a partiti coalizzati che rimangono sotto la soglia di sbarramento? Se li si azzera, si rischia di dare il premio alla coalizione arrivata seconda. Al contrario, se vengono conteggiati, i partner maggiori della coalizione, otterrebbero i seggi del premio grazie ai voti dai partner minori, esclusi dal parlamento; un partito con il 25% potrebbe ottenere da solo il premio e vedere raddoppiata la sua rappresentanza parlamentare.
A ben vedere, questo problema è mal posto. Quando un partito stipula un accordo pre-elettorale di coalizione dichiara al suo elettorato che il voto dato sul suo simbolo è un voto dato anche a tutta la coalizione. La legge potrebbe – e forse, a vantaggio dei legulei, dovrebbe – dichiarare in modo esplicito agli elettori che il sistema funziona un po’ come il (celebrato) voto alternativo australiano, o come il voto singolo trasferibile usato in Irlanda: se il partito che preferisci di più non ne avrà ottenuti abbastanza, trasferiremo il tuo voto all’insieme dei partiti con cui si è coalizzato.
In fondo, è un modo assai ragionevole per non sprecarlo. Questo principio però, per reggere, andrebbe esteso a tutte le coalizioni in cui c’è almeno un partito «sopra-soglia», e non solo alla coalizione che vince. Questo sì, crea una disuguaglianza nel peso dato ai diversi voti costituzionalmente discutibile. Quindi il riparto nazionale dovrebbe avvenire prima in relazione al complesso dei voti ottenuti dalle coalizioni e poi, al loro interno, ai partiti sopra-soglia che le compongono.
Per evitare le lenzuolate di liste civetta, bisognerebbe comunque fissare un limite dell’1 o del 2% sotto il quale i voti non vengono conteggiati a nessun fine. La tagliola dell’8% sui non coalizzati, messa per inibire ai piccoli la minaccia di andare da soli, è palesemente eccessiva. Non si vede ragione per cui non ci debba essere una soglia unica al 5%.
Quanto ai partiti che rappresentano quote amplissime di elettorato in determinati territori, anziché prevedere soluzioni ad hoc per Tizio o per Caio, basterebbe usare una regola standard, buona anche per le minoranze linguistiche senza bisogno di ulteriori deroghe: tutti prendono i seggi ottenuti con quozienti pieni di collegio, che saranno pari almeno al 20% dei voti validi, se i collegi non assegnano più di 5 seggi, mentre al riparto nazionale (dei resti e del premio) partecipano solo i partiti sopra-soglia. Il sistema manterrebbe comunque barriere piuttosto solide contro la frammentazione e riacquisirebbe una venatura spagnola, che non guasta.

C’era una volta Piazza Tahrir


Renzi e la mossa elettorale del cavallo

Giorgio Tonini 
Europa  

Berlusconi è dovuto tornare su suoi passi: il segretario del Pd non lo ha né rilegittimato né amnistiato
A Matteo Renzi piace la mossa del cavallo. Una mossa tanto rischiosa e perciò coraggiosa, quanto indispensabile per venire fuori dalle situazioni bloccate, dalla contrapposizione paralizzante tra “torri”, tra opposte ragioni chiuse e fortificate, condannate a scontrarsi senza vie d’uscita. La mossa del cavallo piaceva tanto ad un grande vecchio della sinistra italiana, Vittorio Foa, che non la considerava un espediente tattico, ma il frutto di un’intelligenza capace di liberarsi dalla coazione a ripetere, l’espressione creativa di una mente che si vuole libera di guardare oltre gli schemi, capace di atteggiamento critico verso se stessa, non meno che verso gli altri.
Renzi ha fatto la sua mossa del cavallo, quando ha chiamato Silvio Berlusconi, per cercare, anche con lui, un accordo che sbloccasse lo stallo sulle riforme. Non lo ha rilegittimato, né tanto meno amnistiato. Lo ha riportato dov’era, prima che il Cavaliere decidesse di abbandonare il tavolo delle riforme, come rappresaglia per il voto sulla decadenza. È Berlusconi dunque, non il Pd, che è dovuto tornare sui suoi passi. D’altra parte, il giovane leader dei democratici sapeva che solo recuperando Forza Italia al tavolo che deve definire le nuove regole del gioco democratico, avrebbe potuto tenere insieme tutti e tre gli obiettivi del suo ambizioso disegno politico e istituzionale: definire una nuova legge elettorale di tipo maggioritario, senza subire un eccessivo condizionamento da parte dei partiti più piccoli; riprendere la strada della riforma della Costituzione, almeno per modificare il senato e per rivedere il Titolo V, abolendo le province ordinarie e rivisitando la ripartizione delle competenze tra Stato, regioni, enti locali; conquistare un altro anno di tempo per consentire al governo di affrontare con un piglio nuovo i problemi del paese, di produrre risultati e di mettere il Pd in una posizione forte nel rapporto con l’elettorato, fin dalle prossime elezioni europee.
Nessuno di questi tre obiettivi era raggiungibile con le sole forze dell’attuale maggioranza: senza la mossa del cavallo, il rischio era dunque per il Pd quello di trovarsi dinanzi all’alternativa tragica tra gettare la spugna e correre rassegnati verso le elezioni, o invece guadagnare tempo, ma senza sapere come riempirlo di fatti. Tutti e tre questi obiettivi sono invece ora ridiventati possibili. E infatti, si è subito cominciato a vedere il primo tassello, quello di una buona riforma elettorale, come è giusto definire il testo presentato alla camera mercoledì scorso.
È vero che il diavolo si annida nei dettagli ed è giusto scrutarli con molta cura, questi dettagli, tanto più quando si parla di regole delicate come quelle elettorali. Sarebbe tuttavia altrettanto sbagliato perdere di vista l’insieme, e ancora più sbagliato sacrificare un insieme più che positivo, vagheggiato per anni, in nome del consueto irrigidimento su questo o quel dettaglio. Dunque, ben vengano dubbi, critiche e proposte emendative: purché non si dimentichi che l’ottimo è il peggior nemico del bene e che di riforme perfette sono pieni gli archivi di camera e senato.
L’aspetto sul quale si sono appuntate le critiche più aspre nei riguardi della proposta di riforma elettorale avanzata da Pd, FI e Ncd, è la mancata reintroduzione delle preferenze, in favore della lista corta bloccata (3-6 candidati). Le critiche, a mio modo di vedere, non appaiono fondate. Certamente, al contrario di quanto sostenuto ad esempio da Gianni Cuperlo, non mi pare lo siano dal punto di vista della legittimità costituzionale. Il testo delle motivazioni della sentenza della Corte su questo è chiarissimo. La Corte distingue infatti nettamente (li definisce sistemi tra loro “non comparabili”), tra la lista bloccata modello Porcellum, che “impone al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori”, e modelli invece “caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)”.
Dunque, dal punto di vista della Corte, la lista corta bloccata e i collegi uninominali sono modalità sostanzialmente equivalenti sul piano della qualità democratica e come tali entrambi assolutamente legittimi. Del resto, difficilmente la Corte avrebbe potuto esprimersi in maniera diversa. Basti considerare che in nessun grande paese europeo si eleggono i deputati con le preferenze: in Inghilterra e in Francia c’è il collegio uninominale, in Spagna la lista corta bloccata, mentre il Bundestag tedesco è eletto per metà con i collegi uninominali e per metà con la lista bloccata. Solo in Grecia si vota con le preferenze.
Infondata sul piano della legittimità costituzionale, la critica è invece assolutamente pertinente sul piano del rapporto tra politica e opinione pubblica. Pertinente non significa tuttavia convincente. Non c’è infatti nessuna evidenza (semmai numerosi indizi contrari, basti pensare ai consigli regionali) che le preferenze favoriscano la qualità (morale, professionale, democratica) della rappresentanza. Ma soprattutto: la sovrapposizione di una competizione nelle liste a quella tra le liste è un potente fattore di disgregazione dei già friabili partiti italiani. E proprio la fragilità dei partiti è una delle cause principali della crisi della politica democratica in Italia. Basti pensare, senza con questo voler offendere nessuno, che tre dei quattro partiti che oggi sostengono il governo Letta (cioè tutti tranne il Pd) non erano presenti col loro nome e simbolo alle elezioni politiche di meno di un anno fa.
Bisogna essere consapevoli che se non si inverte questa tendenza alla liquefazione delle forze politiche non sarà possibile alcuna riforma della democrazia parlamentare e non resterà altra via percorribile che quella del presidenzialismo, per mettere le istituzioni al riparo dalla crisi dei partiti. Dunque ben venga una legge che favorisca le aggregazioni e scoraggi la frammentazione dei e nei partiti: una legge che, nell’impossibilità di reintrodurre il collegio uninominale (salvo che, fortunatamente, in Trentino Alto-Adige e Valle d’Aosta) per la contrarietà di quasi tutti gli altri partiti, si orienti verso il collegio plurinominale, la lista corta bloccata, che è comunque il second best. Naturalmente, questa scelta sarà tanto più sostenibile, come è stato da più parti osservato, se potrà accompagnarsi ad una legge sui partiti, sul loro finanziamento, sulla loro vita democratica, sulla loro vitale e non delegabile funzione di selezione dei candidati. Chissà che non possa essere proprio questa la prossima mossa del cavallo di Matteo Renzi.

Il campo di Letta e quello di Renzi

Stefano Menichini 
Europa  

Il premier fa una sortita su legge elettorale e conflitto d'interessi, e subito viene ricacciato. Forse è meglio puntare sulle realizzazioni di governo.
Si può credere che Enrico Letta si sia tenuto intenzionalmente alla finestra nelle ore in cui si stringeva l’accordo sulla riforma elettorale. Oppure pensare che sia stato scansato e ridimensionato in quel passaggio cruciale, come tante fonti hanno suggerito, nonostante il fatto che tra Renzi e Berlusconi si stesse in sostanza decidendo anche il destino del governo.
Comunque sia andata una settimana fa, non appena Letta ha provato a infilare il piede nell’uscio del dibattito sulle riforme ha preso un doloroso pestone. Ieri è stato sostanzialmente ricacciato indietro dopo aver toccato (molto en passant, va detto) un tema caldo come le preferenze e un altro tema che a sinistra troneggia come un totem, cioè la regolamentazione del conflitto d’interessi. Sul primo punto lo ha smentito addirittura il numero due della delegazione Pd al governo. E sul conflitto d’interessi (che negli ultimi tempi era stato riscoperto solo da Sel, nell’urgenza di sventolare una bandiera a proposito di riforme) prima che imperversassero i berlusconiani i sarcasmi più acidi erano venuti dall’interno della maggioranza del Pd.
Bisogna riconoscere che, sollevate da Letta, entrambe le questioni non potevano che sembrare altrettante zeppe fra le ruote del carro della riforma. Basti pensare al tempismo di riproporre proprio ora in faccia a Berlusconi il conflitto d’interessi, dopo vent’anni di amnesie a sinistra e mentre la magistratura sta risolvendo gran parte del problema.
Al di là delle interviste, nei fatti non può che risultare l’estraneità del governo rispetto a scelte ormai consegnate al parlamento. Dunque l’incidente è destinato a rientrare, ma finisce nel dossier dei dispetti incrociati fra premier e segretario del Pd.
È un faldone già troppo corposo, dopo neanche due mesi di convivenza. Rileggendolo, l’impressione è che questo tipo di confronto nuoccia soprattutto al presidente del consiglio ed è un peccato, perché da palazzo Chigi Letta avrebbe la possibilità di proporsi all’opinione pubblica come uomo di governo capace di risultati più concreti di quelli “tutti politici” che sta conseguendo Renzi.
Certo, Letta può vantare un grande successo ottenuto proprio sul terreno della manovra politica. Successo che rischia però di essere effimero: è bastata la promozione a “consigliere” di un gentile giornalista vestito con una tuta bianca, perché Alfano riscoprisse il moderatismo di Berlusconi, e si allontanasse così il bel sogno della nascita della famosa “destra repubblicana”.

venerdì 24 gennaio 2014

Secondo

Oggi comincia il secondo congresso del partito di Vendola, il secondo e l’ultimo?

Un buon risultato politico




Alfredo Bazoli
Gazebos 22 gennaio 2014
Diciamoci la verità, alcune ragioni di perplessità e dissenso rispetto alla proposta di accordo sulle riforme conclusa da Renzi, e in particolare sulla legge elettorale, sono ragionevoli e fondate.
E' vero infatti che la legge profilata presenta alcuni aspetti critici, che sono stati messi in evidenza dagli esperti ed osservatori più attenti, tra cui la soglia per accedere al premio di maggioranza, all'evidenza molto (troppo) bassa, con conseguente distorsione possibile del risultato elettorale eccessiva, e il sistema di riparto dei seggi su base nazionale, che contraddice e vanifica gli aspetti positivi dei collegi di piccola dimensione, rendendo incerta l'attribuzione di seggi e così meno solido il rapporto tra eletto ed elettore.
Si tratta di una ipotesi che presenta anche evidenti aspetti positivi, dei quali i più rilevanti io credo siano soprattutto il fatto di garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio, e la previsione di soglie di sbarramento significative, che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari e il ricatto permanente delle piccole formazioni.

Ma sarebbe davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi solo sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a mio avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato politico ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver riportato dentro una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza Italia, e così aver nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa legislatura nata zoppa, ovvero le riforme istituzionali e di sistema.
Perché è inutile nasconderselo, senza Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al Senato, sarebbe forse stato possibile approvare una nuova legge elettorale, ma di certo sarebbe stata impossibile qualunque modifica costituzionale, ed in particolare quelle da tutti condivise come la modifica del bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento del modello regionale.
Non sfugge a nessuno, infatti, che una riforma del senato che comporti una modifica radicale del suo ruolo, la sua trasformazione in camera delle autonomie con il venir meno del rapporto fiduciario col governo, e la conseguente cessazione dell'elezione dei suoi membri, ha ben poche chance di essere approvata con i numeri risicati della maggioranza attuale, tanto più se si pensa che il regolamento del Senato prevede il voto segreto per le leggi costituzionali.
Ed è allora proprio su questo terreno, a me pare, che si misura più correttamene il significato dell'operazione politica conclusa da Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei tempi compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere i grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile l'Italia.
Un obiettivo fondamentale per ridare dignità ad una politica svilita ed apparentemente impotente di fronte al declino del paese, per rispondere alla crisi di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica e classe dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura, pronti a raccogliere le macerie del paese.
Certo, si tratta di una strada complicata e difficile, che comporta un delicato esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e maggioranza più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei patti stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che in passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le rotte che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio, comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da accettare, come già si intravede nel caso della legge elettorale, e non è difficile immaginare che capiterà anche quando sulle altre riforme istituzionali si passerà dai titoli al merito.
Una strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a mio avviso senza alternative, che occorreva intraprendere con quel coraggio un po' garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un tratto distintivo, del nuovo leader del partito democratico. 




Un buon risultato politico

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Un buon risultato politico
Diciamoci la verità, alcune ragioni di perplessità e dissenso rispetto alla proposta di accordo sulle riforme conclusa da Renzi, e in particolare sulla legge elettorale, sono ragionevoli e fondate.
E' vero infatti che la legge profilata presenta alcuni aspetti critici, che sono stati messi in evidenza dagli esperti ed osservatori più attenti, tra cui la soglia per accedere al premio di maggioranza, all'evidenza molto (troppo) bassa, con conseguente distorsione possibile del risultato elettorale eccessiva, e il sistema di riparto dei seggi su base nazionale, che contraddice e vanifica gli aspetti positivi dei collegi di piccola dimensione, rendendo incerta l'attribuzione di seggi e così meno solido il rapporto tra eletto ed elettore.
Si tratta di una ipotesi che presenta anche evidenti aspetti positivi, dei quali i più rilevanti io credo siano soprattutto il fatto di garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio, e la previsione di soglie di sbarramento significative, che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari e il ricatto permanente delle piccole formazioni.

Ma sarebbe davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi solo sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a mio avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato politico ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver riportato dentro una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza Italia, e così aver nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa legislatura nata zoppa, ovvero le riforme istituzionali e di sistema.
Perché è inutile nasconderselo, senza Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al Senato, sarebbe forse stato possibile approvare una nuova legge elettorale, ma di certo sarebbe stata impossibile qualunque modifica costituzionale, ed in particolare quelle da tutti condivise come la modifica del bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento del modello regionale.
Non sfugge a nessuno, infatti, che una riforma del senato che comporti una modifica radicale del suo ruolo, la sua trasformazione in camera delle autonomie con il venir meno del rapporto fiduciario col governo, e la conseguente cessazione dell'elezione dei suoi membri, ha ben poche chance di essere approvata con i numeri risicati della maggioranza attuale, tanto più se si pensa che il regolamento del Senato prevede il voto segreto per le leggi costituzionali.
Ed è allora proprio su questo terreno, a me pare, che si misura più correttamene il significato dell'operazione politica conclusa da Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei tempi compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere i grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile l'Italia.
Un obiettivo fondamentale per ridare dignità ad una politica svilita ed apparentemente impotente di fronte al declino del paese, per rispondere alla crisi di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica e classe dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura, pronti a raccogliere le macerie del paese.
Certo, si tratta di una strada complicata e difficile, che comporta un delicato esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e maggioranza più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei patti stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che in passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le rotte che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio, comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da accettare, come già si intravede nel caso della legge elettorale, e non è difficile immaginare che capiterà anche quando sulle altre riforme istituzionali si passerà dai titoli al merito.
Una strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a mio avviso senza alternative, che occorreva intraprendere con quel coraggio un po' garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un tratto distintivo, del nuovo leader del partito democratico. 
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Diciamoci la verità, alcune ragioni di perplessità e dissenso rispetto alla proposta di accordo sulle riforme conclusa da Renzi, e in particolare sulla legge elettorale, sono ragionevoli e fondate.
E' vero infatti che la legge profilata presenta alcuni aspetti critici, che sono stati messi in evidenza dagli esperti ed osservatori più attenti, tra cui la soglia per accedere al premio di maggioranza, all'evidenza molto (troppo) bassa, con conseguente distorsione possibile del risultato elettorale eccessiva, e il sistema di riparto dei seggi su base nazionale, che contraddice e vanifica gli aspetti positivi dei collegi di piccola dimensione, rendendo incerta l'attribuzione di seggi e così meno solido il rapporto tra eletto ed elettore.
Si tratta di una ipotesi che presenta anche evidenti aspetti positivi, dei quali i più rilevanti io credo siano soprattutto il fatto di garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio, e la previsione di soglie di sbarramento significative, che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari e il ricatto permanente delle piccole formazioni.

Ma sarebbe davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi solo sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a mio avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato politico ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver riportato dentro una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza Italia, e così aver nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa legislatura nata zoppa, ovvero le riforme istituzionali e di sistema.
Perché è inutile nasconderselo, senza Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al Senato, sarebbe forse stato possibile approvare una nuova legge elettorale, ma di certo sarebbe stata impossibile qualunque modifica costituzionale, ed in particolare quelle da tutti condivise come la modifica del bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento del modello regionale.
Non sfugge a nessuno, infatti, che una riforma del senato che comporti una modifica radicale del suo ruolo, la sua trasformazione in camera delle autonomie con il venir meno del rapporto fiduciario col governo, e la conseguente cessazione dell'elezione dei suoi membri, ha ben poche chance di essere approvata con i numeri risicati della maggioranza attuale, tanto più se si pensa che il regolamento del Senato prevede il voto segreto per le leggi costituzionali.
Ed è allora proprio su questo terreno, a me pare, che si misura più correttamene il significato dell'operazione politica conclusa da Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei tempi compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere i grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile l'Italia.
Un obiettivo fondamentale per ridare dignità ad una politica svilita ed apparentemente impotente di fronte al declino del paese, per rispondere alla crisi di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica e classe dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura, pronti a raccogliere le macerie del paese.
Certo, si tratta di una strada complicata e difficile, che comporta un delicato esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e maggioranza più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei patti stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che in passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le rotte che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio, comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da accettare, come già si intravede nel caso della legge elettorale, e non è difficile immaginare che capiterà anche quando sulle altre riforme istituzionali si passerà dai titoli al merito.
Una strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a mio avviso senza alternative, che occorreva intraprendere con quel coraggio un po' garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un tratto distintivo, del nuovo leader del partito democratico. 
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Si tratta di una ipotesi che presenta anche evidenti aspetti positivi, dei quali i più rilevanti io credo siano soprattutto il fatto di garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio, e la previsione di soglie di sbarramento significative, che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari e il ricatto permanente delle piccole formazioni.

Ma sarebbe davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi solo sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a mio avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato politico ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver riportato dentro una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza Italia, e così aver nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa legislatura nata zoppa, ovvero le riforme istituzionali e di sistema.
Perché è inutile nasconderselo, senza Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al Senato, sarebbe forse stato possibile approvare una nuova legge elettorale, ma di certo sarebbe stata impossibile qualunque modifica costituzionale, ed in particolare quelle da tutti condivise come la modifica del bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento del modello regionale.
Non sfugge a nessuno, infatti, che una riforma del senato che comporti una modifica radicale del suo ruolo, la sua trasformazione in camera delle autonomie con il venir meno del rapporto fiduciario col governo, e la conseguente cessazione dell'elezione dei suoi membri, ha ben poche chance di essere approvata con i numeri risicati della maggioranza attuale, tanto più se si pensa che il regolamento del Senato prevede il voto segreto per le leggi costituzionali.
Ed è allora proprio su questo terreno, a me pare, che si misura più correttamene il significato dell'operazione politica conclusa da Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei tempi compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere i grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile l'Italia.
Un obiettivo fondamentale per ridare dignità ad una politica svilita ed apparentemente impotente di fronte al declino del paese, per rispondere alla crisi di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica e classe dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura, pronti a raccogliere le macerie del paese.
Certo, si tratta di una strada complicata e difficile, che comporta un delicato esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e maggioranza più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei patti stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che in passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le rotte che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio, comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da accettare, come già si intravede nel caso della legge elettorale, e non è difficile immaginare che capiterà anche quando sulle altre riforme istituzionali si passerà dai titoli al merito.
Una strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a mio avviso senza alternative, che occorreva intraprendere con quel coraggio un po' garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un tratto distintivo, del nuovo leader del partito democratico. 
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