mercoledì 30 aprile 2014

Senza pudore

Riccardo Imberti

dopo aver organizzato un incontro a Roma nel giorno dell'apertura della campagna elettorale di Renzi a Torino e aver partecipato all'incontro di ieri a Roma per fondare una nuova corrente ecco che scrivono: 
«Matteo, mettici la faccia». Si potrebbe sintetizzare così il messaggio inviato oggi dai Giovani turchi, che si sono riuniti per fare il punto in vista delle elezioni europee. «Quello che leggiamo sui sondaggi non corrisponde alle impressioni che raccogliamo sul territorio, soprattutto al sud – spiegano da Rifare l’Italia – per questo crediamo che Renzi debba organizzare più iniziative di campagna elettorale». 

da Europa 30 aprile 2014

martedì 29 aprile 2014

L’EVERSIONE DEL POTASSIO


FRANCESCO MERLO
La Repubblica 29 aprile 2014

È potassio eversivo la banana antirazzista. Rimanda alla posizione eretta della dignità perché è curva come la colonna vertebrale e come la verità secondo Nietzsche. La banana di Dani Alves disarma il razzismo più dei discorsi di Abramo Lincoln ed è magnifica la decisione di farne il simbolo dei mondiali che il 12 giugno si apriranno a San Paolo.
Matteo Renzi e Cesare Prandelli mangiano una banana contro il razzismo
IL MORSO di quel calciatore mulatto di trent’anni, che raccatta da terra e mangia il frutto della vergogna vigliacca e impunita perché protetta e nascosta dalla folla, ha infatti il ritmo della samba allegra di Josephine Baker che mostrava al mondo quant’era bella la scimmia esotica e nera coprendo e scoprendo con un tutù di banane il corpo più desiderato della Terra. Ecco perché in un solo giorno è stato più efficace del film Dodici anni schiavo l’imprevisto spettacolo della banana in calcio d’angolo che la velocità e la spontaneità del web hanno reso più popolare dei Papi santificati dai Papi.
Probabilmente Alves non sa che lì dentro, in quel gesto veloce e denso che passerà alla storia come il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos, c’è il riassunto di due secoli di Ironia: dall’uso degli sberleffi contro il potere di Goldoni alla sapienza di Chaplin che mostrava al mondo spaventato quant’era ridicolo Hitler, da “Banana Boat Song” di Harry Belafonte, il canto dei lavoratori giamaicani (“Come, Mister Tally Man, / tally me banana, vieni, signor padrone / a contare le mie banane”) sino alla riserva di umorismo proletario e alla potenza della satira del nostro Altan che, già prima di Dani Alves, aveva dimostrato che la banana è di sinistra (ma “il banana” è di destra).
C’è pure, nella sapienza naturale di Alves, un’intera enciclopedia della provocazione, la stessa riassunta dalla banana colta e colorata di Andy Warhol sulla copertina delle canzoni più esplosive di Lou Reed, quelle dell’eroina e dei lacci emostatici, “I am waiting for my man / 26 dollars in my hand”, con il bianco che trova appunto il suo angelo nero nel ghetto di Harlem. E c’è, ancora, un trattato di tolleranza nel rito semplice dei capocomici e dei commedianti che in tutte le epoche disinnescano l’odio e la maleducazione del pubblico raccogliendo gli ortaggi e la frutta sino all’atto estremo di gustare appunto la banana dell’offesa, trasformata nel suo contrario come in quel manifesto commissionato contro il bullismo ad Oliviero Toscani: la foto di una banana con la didascalia “uomo” e poi la foto di un pisello con la didascalia “bullo”. Questa banana che ha seppellito il razzismo è infine politica, perché affianca l’antologia della risata alla fenomenologia dello spirito della libertà. Ed è bello dedicarla non solo a Balotelli ma soprattutto alla nostra ex ministra, la signora Kyenge, che a Cantù fu accolta dai razzisti della Lega a “bananate”, e purtroppo a nessuno degli indignati d’Italia venne in mente di mangiarne una come Gargantua e Pantagruele mangiarono il Mondo. Del resto anche nella Mosca tetra dell’Urss la banana era il Mondo, una specie di Macondo, il sapore morbido e tuttavia croccante della fuga perché era l’unico frutto straniero che il regime riusciva ad importare grazie all’asse con Cuba, che dagli anticomunisti veniva assimilata, con un cortocircuito ideologico, alle altre famigerate dittature filo statunitensi del Centro America: Panama, Nicaragua, Honduras... A riprova che la risata è una declinazione della libertà queste repubbliche delle banane ispirarono uno dei primi e più felici film di Woody Allen ( Il dittatore dello Stato libero di Bananas ). E la repubblica delle banane è infatti l’insulto che periodicamente ci lanciano i giornali stranieri, la metafora che accompagna tutte le gaffe di Berlusconi, detto appunto “il banana”.
Una meraviglia di partita è stata dunque quella di domenica tra il Barcellona e il Villareal, una vera festa di liberazione perché per la prima volta un gesto abbagliante come un fulmine ci ha affrancato dall’ipocrita venerazione dell’invincibilità dello stadio. La banana di Alves ha finalmente trasformato in intelligenza critica il nostro oscuro e preoccupato biasimo del razzismo gridato dalle curve dove gli ultras ricoverano i loro problemi pesanti e i loro feroci conti aperti con il mondo. Non infatti le leggi speciali, gli elicotteri che fanno vento ed emettono fasci di luce rossa, le prediche ideologiche e l’esibizione della forza non usata, ma l’ironia spavalda della vecchia banana ha smontato l’anomia dello stadio, la dimensione del fuorilegge, del luogo extraterritoriale dell’impunità che nel mondo è forse più antica delle corna dell’arbitro, ma non del razzismo.

SE QUESTO È UNO STATISTA


MASSIMO GIANNINI
La Repubblica 29 aprile 2014

Se questo è un uomo di Stato. Ad ascoltare i deliri con i quali Silvio Berlusconi ha aperto la sua campagna elettorale, non si può trarre una conclusione diversa. Nessuno si faceva troppe illusioni: un Ventennio di autocrazia populista e di macelleria costituzionale parla per lui. Ma dopo l’assegnazione ai servizi sociali per la condanna al processo Mediaset ci si aspettava almeno una modica quantità di autocontrollo. Non un «ravvedimento », troppo generosamente auspicato dal tribunale di sorveglianza nelle motivazioni con le quali l’ex Cavaliere è stato «affidato» all’Istituto di Cesano Boscone. Ma almeno un po’ di misura, nell’apprezzare l’insostenibile leggerezza della pena finale (7 giorni di «assistenza» spalmati sui prossimi 11 mesi), rispetto alla comprensibile pesantezza della pena iniziale (4 anni di carcere). Invece no. Il senso dello Stato, il rispetto delle istituzioni, il principio di legalità: nulla di tutto questo appartiene alla cultura politica di Berlusconi.
L’ACCUSA ai tedeschi, secondo i quali «i lager non sono mai esistiti», è un insulto alla Storia, prima ancora che alla Germania. La frase, falsa e sconclusionata, è molto più che l’ennesimo «infortunio» di un gaffeur planetario. È invece uno scandalo diplomatico, che fa un danno enorme all’immagine dell’Italia, e non solo al capo di Forza Italia. Le reazioni indignate, che uniscono la Merkel e i rappresentanti di Ppe e Pse, confermano la gravità dell’incidente. E solo la malafede manipolatoria può spingere Berlusconi a replicare che si tratta dell’ennesima «trappola» ordita delle sinistre, e a ribadire la sua «profonda amicizia con il popolo ebraico». Qui in gioco non c’è un presunto «antisemitismo » berlusconiano, che nessuno ha denunciato. C’è invece l’assoluto cinismo del leader di una destra irrecuperabile, che per lucrare una miserabile rendita elettorale in vista del voto del 25 maggio non esita a inventare il solito «nemico esterno», cioè la Germania. A evocare il «non evocabile », cioè i lager. Ad accostare l’inaccostabile, cioè il Fiscal Compact con la Shoah. C’è dunque lo stesso nichilismo morale dell’ex premier di un governo impresentabile, che per difendersi dalle critiche dei socialisti europei dà del «kapò» a Martin Schultz.
L’accusa al presidente della Repubblica e ai magistrati, colpevole il primo di avergli negato la grazia e i secondi di averlo infangato con una «sentenza mostruosa», è un’offesa alla legalità, prima ancora che alla verità. Sono tristemente note, le spallate continue che lo «statista» di Arcore ha tentato di assestare al sistema dal 1994 ad oggi, tra leggi ad personam e intimidazioni ai pm, alla Consulta, al Quirinale. Ma non erano altrettanto note le rivelazioni fatte dallo stesso ex Cavaliere, che a «Piazza pulita» afferma impunemente di aver detto al Capo dello Stato «tu hai il dovere morale di darmi la grazia motu proprio». In questo «atto sedizioso» si racchiude, tutto intero, il berlusconismo. L’idea malsana che l’unzione popolare purifica da tutti i reati e da tutti i peccati. Che le istituzioni ne debbano solo prendere atto, compiendo di propria iniziativa il passo che il pregiudicato non vuole richiedere, perché questo equivarrebbe a riconoscere la sua responsabilità penale. Che la Costituzione, formale e materiale, si debba snaturare per questo, introiettando l’anomalia cesarista di un cittadino che si pretende diverso da tutti gli altri, dentro e fuori dalle aule di giustizia, e che pertanto va considerato «legibus solutus» per il passato, il presente e il futuro. Se la rivelazione berlusconiana è vera (e non c’è ragione di credere che non lo sia) bisogna ringraziare una volta di più Giorgio Napolitano, per non aver ceduto di un millimetro e non essersi prestato a questo scempio etico, giuridico e politico.
Quanto alla «sentenza mostruosa», in un Paese che perde troppo facilmente la memoria non finiremo mai di ricordare che la condanna dell’ex Cavaliere nasce dalla gravità del reato commesso, accertato senza alcun ragionevole dubbio nei tre gradi di giudizio: una frode fiscale da 7 milioni di euro, parte di una provvista in nero da 370 milioni di dollari con i quali il condannato pagava mazzette a magistrati, funzionari pubblici e parlamentari. Cosa ci sia di «mostruoso», nell’espiare un delitto così grave assistendo gli anziani per un pomeriggio a settimana, lo vede chiunque. Berlusconi è l’opposto che un «perseguitato». Pur essendo riconosciuto come «persona ancora socialmente pericolosa», ha beneficiato di uno «statuto speciale» che non limita la sua «agibilità politica» né preclude la sua campagna elettorale (cominciata infatti proprio con le armi distruttive dell’anti- europeismo e dell’anti-Stato).
Resta da chiedersi perché Berlusconi continui imperterrito a sparare sul Colle e sulle toghe, dal momento che la Sorveglianza gli ha concesso i servizi sociali purché si attenga alle «regole della civile convivenza, del decoro e del rispetto delle istituzioni » ed eviti le frasi «offensive» e di «spregio nei confronti dell’ordine giudiziario». La risposta può essere una sola: l’ex Cavaliere provoca, e forse spera che la magistratura sia costretta suo malgrado a dovergli revocare l’affidamento alla Sacra Famiglia, e a disporre gli arresti domiciliarsi. Sarebbe il famoso «finale da Caimano». Il pretesto definitivo per lanciarsi da «martire della libertà» nel fuoco della battaglia elettorale. La scelta estrema per cercare di risalire l’abisso dei consensi in fuga, per sottrarsi all’»abbraccio mortale» con Renzi e per recuperare posizioni su Grillo che il 26 maggio rischia di diventare almeno il più grande partito italiano dopo il Pd, pronto per l’eventuale ballottaggio previsto dall’Italicum. È questo, dunque, il grumo di rabbia sociale e politica con il quale il governo e il Pd renziano devono fare i conti nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Un gioco al massacro tra il populismo berlusconiano e il populismo grillino. Il terreno peggiore, per costruire e tenere in piedi il cantiere delle riforme.

Mega-attico

Bertone si difende “Papa Francesco è informato ristrutturazione a mie spese. L’appartamento mi è stato concesso in uso Strumentale confrontarlo con le presunte ristrettezze del pontefice”

MARCO ANSALDO

Come diceva il Santo Pontefice Giovanni XXIII “non mi fermo a raccogliere le pietre che sono scagliate contro di me”». Non si ferma, ma si difende il cardinale Tarcisio Bertone, dopo le critiche piovutegli addosso per il maxi appartamento che presto andrà ad abitare. Un attico grande svariate centinaia di metri quadrati, completo di terrazzo, a Palazzo San Carlo, in Vaticano, di fianco a Casa Santa Marta dove, in un bilocale di 70 metri, risiede invece Papa Francesco.
L’ex segretario di Stato, sostituito sei mesi fa dal Pontefice, ha inviato una lettera ai settimanali diocesani di Vercelli e Genova, dove fu arcivescovo. «Nei giorni scorsi — scrive — alcuni media hanno parlato in maniera malevola a proposito dell’appartamento che abiterò in Vaticano e, per rincarare la gogna mediatica, “l’informatore” ne ha raddoppiata la metratura. È stato detto che il Papa si sarebbe infuriato con me per tanta opulenza. Addirittura è stato messo a confronto lo spazio del “mio” appartamento con la presunta ristrettezza della residenza del Papa. Sono grato e commosso per la telefonata affettuosa che ho ricevuto da Papa Francesco il 23 aprile scorso per dirmi la sua solidarietà e il suo disappunto per gli attacchi rivoltimi a proposito dell’appartamento, del quale era informato fin dal giorno in cui mi è stato attribuito. L’appartamento spazioso, come è normalmente delle residenze del Vaticano, e ristrutturato (a mie spese), mi è concesso in uso e dopo di me ne usufruirà qualcun altro».
Il messaggio è stato diffuso il 27 aprile, giorno della canonizzazione dei due Papi Roncalli e Wojtyla. Dunque ben una settimana dopo che, principalmente sul Quotidiano nazionale e su Repubblica, apparisse la notizia della mega residenza del cardinale. L’unione degli appartamenti in uso all’ex capo della Gendarmeria, Camillo Cibin, e a monsignor Bruno Bertagna, tutti e due deceduti, viene data attorno ai 700 metri. Ora, in attesa eventualmente di una planimetria chiarificatrice, l’ex segretario di Stato parla della metà. Data per buona la sua parola per un appartamento di “soli” 350 metri quadrati, si tratta comunque di una metratura 5 volte superiore a quella dell’attuale Pontefice, che vive nella casa a fianco, al secondo piano, e non in un attico. In più, c’è da calcolare il terrazzo. Terminati infatti i quattro mesi di ristrutturazione dell’appartamento, sono ora in corso quelli della parte esterna, come rivelano le attuali impalcature. Piuttosto singolare poi la frase del cardinale circa «la presunta ristrettezza della residenza del Papa». Che cosa vuol dire, Bertone: che Francesco non vive in realtà in 70 metri? E perché quella ristrettezza sarebbe solo «presunta »? È una frecciata nei confronti del Pontefice?
Infine, la telefonata ricevuta da parte del Papa il 23 aprile precederebbe di un solo giorno un tweet di Francesco, collegato secondo la stessa agenzia Ansa in Vaticano con «le polemiche sui maxi-appartamenti dei cardinali» che «non hanno lasciato indifferente Papa Francesco, che ha voluto dire la sua con un preciso, e quanto mai significativo, richiamo alla sobrietà ». Ha scritto infatti Bergoglio: «Uno stile di vita sobrio fa bene a noi e ci permette di condividere meglio con chi ha bisogno».
Commenta da Genova, dove la lettera di Bertone è stata pubblicata sul settimanale cattolico Il Cittadino, don Paolo Farinella, biblista, parroco nel centro storico, da sempre impegnato nel sociale: «Bertone deve vergognarsi. È solo un uomo di potere. Fossi il Papa lo farei dimettere subito da cardinale. Non si può, noi viviamo a contatto con la gente che muore di fame, Bertone è senza ritegno. Uno schifo, col Papa che vive in 70 metri quadri».

Card. Bertone... ci senti?

"Uno stile di vita sobrio fa bene a noi e ci permette di condividere meglio con chi a bisogno".

Papa Francesco

parlare chiaro

"Fare veloci è l'unico modo per dare un segnale di credibilità in Europa. Faremo tutti gli sforzi fino all'ultimo giorno per trovare un punto comune, altrimenti sono pronto a fare un passo indietro. A tutti i costi io non ci sto, o così o vado a casa". 

Matteo Renzi all'assemblea dei senatori Pd

La strategia di Renzi tra due follie

Stefano Menichini 
Europa  

Berlusconi e Grillo attaccano, provocano, estremizzano. Una parte di elettori andrà loro dietro. Il Pd non può limitarsi alla "solita" parte razionale e logica, il premier dovrà mettere un po' della sua follia. E della critica all'Europa
Qual è il rischio di una campagna elettorale nella quale giocano solo tre protagonisti, e due di loro si comportano come matti scatenati, determinati a occupare il centro della scena con provocazioni ed esagerazioni continue? Ovvio. Il rischio è che il terzo, ancorché non sia davvero una personalità incolore, finisca fuori quadro, schiacciato nella parte che meno gli si addice (visto che ovviamente stiamo parlando di Matteo Renzi): quella dell’uomo di Palazzo, impegnato nelle mediazioni per portare a casa le riforme, costretto al rispetto delle buone relazioni internazionali, limitato nella propaganda dal proprio ruolo, dalle responsabilità, dal timore di rompere il delicato equilibrio fra partiti in parlamento. Alla fine saremmo sempre lì, allo schema che spesso ha condannato la sinistra nei suoi scontri elettorali con Berlusconi: razionalità contro emotività; logica contro improvvisazione; responsabilità contro follia. Con l’aggravante che adesso di folli, improvvisatori e irrazionali ce ne sono due. E che nessuno può essere sicuro di quale sia l’umore degli italiani: oggi su Europa ci occupiamo di quanto l’attacco alla Germania da parte di Forza Italia e Cinquestelle abbia qualcosa di scientifico, nel suo insinuarsi nelle pieghe profonde dell’atavico sentimento italiano verso i tedeschi. Può darsi – anzi, è sicuro – che Berlusconi e Grillo trovino orecchie disposte a recepire il loro messaggio distruttivo. Certo, è improbabile che si tratti di cittadini che sarebbero mai disposti a votare Pd. Berlusconi e Grillo si contendono un’area limitrofa del mercato elettorale. E c’è nel Pd chi pensa che tutto sommato non sarebbe male se Forza Italia si riprendesse un po’ della sua gente dispersa. Ma la cosa veramente importante è che Renzi riesca a giocare due ruoli. Quello della responsabilità insieme a quello dell’orgoglio del risveglio nazionale contro l’Europa fredda e arcigna della tecnocrazia. Un risveglio fatto di cambiamenti concreti, non di battute allucinanti, revanscismi antistorici o minacce apodittiche. Razionalità, dunque, insieme a emotività. Follia sana contrapposta a follia nera. Un messaggio positivo (contro due avversari che puntano tutto sulla negatività) ma non piattamente rassicurante. Nella speranza che l’Italia abbia in maggioranza un sentimento migliore di quello al quale si appellano Grillo e Berlusconi.

Perseverano

Riccardo Imberti
  
La notizia di un incontro a Roma per dare vita ad un'area riformista del PD desta più di una perplessità.
Innanzitutto, dopo una fin troppo lunga, ma necessaria, stagione di primarie e soprattutto dopo  la chiusura del congresso del PD sarebbe buona cosa, vista la campagna elettorale imminente, che ci si dedicasse con impegno e spirito di squadra ad una affermazione convincente alle elezioni europee e a quelle amministrative.  
La storia si ripete? Non sempre.
Che cosa si sarebbe potuto scatenare se dopo le primarie Bersani-Renzi, lo sconfitto avesse preferito pensare ad organizzare la propria corrente, anzichè (come ha fatto), girare l'Italia per sostenere le buone ragioni del partito democratico? Anche questi sono segnali inequivocabili della maturità e del senso di responsabilità di una classe dirigente, elementi che marcano le differenze tra chi ostinatamente, con la testa rivolta al passato, non intende assecondare e facilitare i processi di cambiamento necessari al nostro Paese.
Secondariamente, il Paese ha bisogno di messaggi chiari e di politiche efficaci.
Non è difficile comprendere che la situazione è tuttora molto critica e complessa e che solo dopo aver raggiunto alcuni obiettivi ci sarà tempo per discutere e meglio definire i compiti, i ruoli e le responsabilità dentro il partito democratico.
C'è una parte del partito che si è messo contro tutti i provvedimenti dal governo Renzi, dal decreto lavoro alla riforma del Senato, alla nuova legge elettorale. Non si vuole negare che alcune modifiche ai progetti di legge presentati siano necessarie, non tutto ciò che propone Renzi è da prendere a scatola chiusa. Sarebbe bene tuttavia che ciò avvenisse con spirito di collaborazione e con metodo costruttivo. Appunto come in una squadra all'attacco. Purtroppo, invece, forse per il lungo periodo in Parlamento, alcuni esponenti del partito democratico sono impegnati prevalentemente in operazioni di disturbo e non hanno ancora realizzato che la maggioranza al governo è espressione della stessa squadra.
Pare emergere, in maniera sempre più evidente, una pericolosa saldatura tra vecchi e nuovi conservatorismi. Se questa situazione permane è evidente il tentativo di azzoppare non solo il premier ma la stessa forza del partito democratico. Senza dimenticare che il ritorno alle urne resta una possibilità tutt'altro che remota.  


 

lunedì 28 aprile 2014

Notiziona....Così parlò Ciriaco De Mita

Un De Mita è per sempre, come il diamante della pubblicità. Benvenuti a Nusco, 914 metri sul livello del mare, 4800 abitanti immersi nelle brume dell’Irpinia profonda. Qui la storia si è fermata agli anni ruggenti della Prima Repubblica, quando Silvio Berlusconi pensava solo ai danè, Beppe Grillo faceva ridere in tv e Tangentopoli era lontana. E “la storia sono io, non il vecchio, né il nuovo. Io sono la storia” . 

Il patto tra palestinesi in un Medio Oriente che fa a meno dell’America

Guido Moltedo 
Europa  

L'intesa tra al Fatah e Hamas ha un paio di precedenti negativi ma questa volta il quadro mediorientale è diverso. Gli Stati Uniti contano meno e i principali player della regione si stanno riposizionando
Dicono, israeliani e americani, che l’intesa raggiunta mercoledì scorso tra l’ala politica laica e l’ala politica religiosa del movimento palestinese li ha colti di sorpresa. Crederci, che siano stati spiazzati, è difficile. Se è così, è semmai la loro ingenuità politica che sorprende. Chiedersi se sia vero che non l’avessero previsto, che non l’avessero previsto neppure i servizi segreti israeliani, come hanno detto i loro capi a Haaretz, è comunque secondario. La principale domanda riguarda la consistenza reale e la durata dell’intesa. Al Fatah, partito guida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, e Hamas non comunicano tra loro dal 2007, quando la fazione islamista assunse il controllo di Gaza con un violento colpo di mano, costringendo all’esilio i dirigenti dell’Olp e sbattendo in prigione quelli di loro che erano rimasti nella Striscia. Nel 2011, al Cairo, ci fu un tentativo di riconciliazione. Fallito. Nel 2102 ce ne fu un altro a Doha. Anch’esso fallito. I contenuti delle due intese finite male erano grosso modo gli stessi del protocollo concordato a Gaza nei giorni scorsi. Tra questi la costituzione di un governo “tecnico” a termine, per il tempo necessario, alcuni mesi, per preparare nuove elezioni politiche.
In realtà, il richiamo ai due precedenti insuccessi è fuorviante, non implica che anche questa volta il “patto di unità” si debba rivelare un miraggio, con grande beffa per i palestinesi di Gaza, Cigiordania e dei campi libanesi e giordani scesi in strada a festeggiare entusiasti l’accordo siglato nella residenza di Ismail Haniyeh, il capo del governo di Gaza. Il conflitto israelo-palestinese e gli equilibri interni alla realtà politica palestinese vanno sempre visti in relazione con lo scenario mediorientale più ampio, in un continuo gioco di influenza reciproca. Rispetto al 2011 e al 2012 la situazione mediorientale è cambiata. Vale la pena osservare che nella regione c’è un nuovo muoversi delle cose, c’è un intrecciarsi di situazioni che costituisce il retroscena dell’intesa e al tempo stesso ne indica i possibili sviluppi. Tutto fa pensare che questa volta il quadro complessivo renda più plausibile la tenuta del “patto”. In ogni caso, è probabile che si sia di fronte a un nuovo capitolo della vicenda palestinese, con al centro anche la definizione della leadership futura.
Restando all’ambito dell’accordo, va innanzitutto tenuto presente il ruolo dell’Egitto. È stato giustamente notato che uno degli artefici dell’incontro di Gaza e membro influente dell’ufficio politico di Hamas, Mousa Abu Marzouk, residente al Cairo, ha avuto il beneplacito dell’uomo forte egiziano, Abdel Fattah al Sisi per prendervi parte. Come si sa i Fratelli Musulmani e gli stessi dirigenti di Hamas in Egitto – i due movimenti sono legati tra loro – sono sottoposti a una dura repressione da parte del regime di al Sisi. Nei giorni scorsi, inoltre, lo stesso al Sisi aveva avuto un colloquio con Mohammad Dahlan, personaggio di grande potere tra i palestinesi di Cisgiordania. 52 anni, conosciuto anche come Abu Fadi, a lungo responsabile dei servizi segreti palestinesi, è in aperta rotta di collisione con Abu Mazen e la sua cerchia, che accusa d’incapacità debolezza, corruzione e nepotismo. Ricambiato con accuse di collaborazione con Israele e perfino di essere dietro la morte di Arafat, fino all’espulsione da al Fatah. Dahlan è popolare anche nei campi palestinesi in Giordania e in Libano, ha buone relazioni con gli Emirati Arabi, dove vive in esilio, e con l’Egitto, che vede in lui, data la sua popolarità anche a Gaza, un contrappeso al potere di Hamas. Di recente sua moglie, Jalila, in visita nella Striscia, ha annunciato in un’intervista a al Monitor l’intenzione di Dahlan di candidarsi alle presidenziali, o nelle liste di al Fatah o come indipendente.
L’unico in grado di tener testa a Dahlan, anzi di sconfiggerlo, per ammissione stessa di Jalila, sarebbe Marwan Barghouti, il Mandela palestinese nelle carceri israeliane dal 15 aprile 2002. Nonostante i dodici anni trascorsi in galera, Barghouti è il politico più popolare in Palestina e, secondo tutti i sondaggi, batterebbe sia Abu Abbas sia Ismail Haniyeh in un’eventuale corsa presidenziale. È considerato l’unico in grado di negoziare un accordo con Israele, farlo accettare al suo popolo, unire le fazioni palestinesi e avviare un processo di “verità e riconciliazione” in un paese indipendente. Ma gli israeliani saranno abbastanza lungimiranti da consentirgli di tornare libero e attivo?
Egitto, Israele, Turchia nella partita
Come si vede, Egitto e Israele, direttamente o indirettamente, possono influire su quanto accade nel perimetro del potere palestinese. E non sono i soli. La Turchia, l’altro grande player regionale, ha lavorato negli ultimi anni per avere voce in capitolo in Medio Oriente, sostenendo i Fratelli Musulmani e Hamas, mentre, nel frattempo, si adoperava per il crollo del regime di Assad. Gli eventi sono andati nella direzione opposta rispetto a quella auspicata da Recep Tayyip Erdogan. Ma il premier turco non ha smesso di “fare politica” nella regione. Con Israele sembra esserci volontà di tornare a relazioni normali, riprendendo la trattativa sul risarcimento da parte israeliana delle famiglie delle vittime del raid contro gli attivisti turchi di Mavi Marmara, un episodio che aveva portato alla rottura tra i due paesi. Intanto Ankara non ha fatto mancare il suo pieno sostegno al “patto di unità” tra palestinesi.
Su un altro versante, quello iraniano, si registrano importanti novità, sia sul fronte della questione nucleare sia su quello dei rapporti con i sauditi e dunque con il mondo sunnita. Il governo di Hassan Rouhani procede lungo il suo percorso riformista, tenendo fede agli impegni assunti sul nucleare (anche, tra l’altro, facendo fuori dalla squadra dei negoziatori quelli che remano contro) e, attraverso l’ayatollah Hasheni Rafsanjiani, ha aperto un’inedita linea di dialogo con Riyadh. L’Iran è stato uno dei sostenitori di Hamas, ma lo scoppio del conflitto in Siria, ha messo in discussione la relazione tra il regime sciita e il movimento sunnita.
Il declino americano nel puzzle mediorientale
I diversi pezzi del mosaico mediorientale, tutti per aria dopo la guerra in Iraq, peraltro non chiusa, e con il conflitto in corso in Siria, si stanno riposizionando, e in questo fermento si ripropone la questione palestinese, con i suoi complessi intrecci con i diversi centri di potere nell’area. Il fermento nella regione è anche legato all’evidente e crescente disinvestimento americano in Medio Oriente, dettato sia dalla crisi economica sia dal restringimento delle spese militari sia dalla crescente capacità energetica dell’America, diventato paese esportatore e non più strategicamente dipendente dal petrolio mediorientale. C’è un evidente scollamento perfino nella relazione speciale tra Usa e Israele, come testimonia – su un altro scacchiere – la neutralità israeliana sulla questione ucraina.
L’insuccesso dei tentativi di John Kerry, tesi a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, va visto anche in quest’ottica. L’America non è più considerata, da Israele stessa, un giocatore decisivo in Medio Oriente. Anche la riluttanza a immischiarsi nel conflitto siriano è stata vista come un sintomo inequivocabile, è considerata la spia di questa nuova fase di crescente disimpegno. Ed è un bene. Forse è davvero l’inizio di un periodo nel quale i paesi, i popoli, i governi della regione si assumano pienamente la responsabilità del destino loro e della regione, cercando la via del dialogo, dopo una lunga e travagliata storia di conflitti che hanno impoverito tutti. Lo stesso patto di unità tra i palestinesi è un segno in quella direzione.
Il 24 aprile scorso, festeggiando i suoi novant’anni, l’icona della sinistra israeliana, Uri Avneri, si è detto ottimista sul futuro del suo paese e della regione. Parlando con Haaretz, ha detto: “Avverrà un miracolo. Potrebbe avvenire in modo duro, forse preceduto da una catastrofe. La coscienza dell’opinione pubblica israeliana deve attraversare un cambiamento. Come quello che accadde quando Sadat scese dell’aeroplano (arrivando in Israele nel 1977). Questa è l’essenza del miracolo. Prima o poi i due popoli dovranno andare d’accordo”.

domenica 27 aprile 2014

Scalfari...basta la parola

Ho scritto qualche tempo fa che verrà il tempo in cui Scalfari metterà un pistolotto sul domenicale di Repubblica per contestare la data di nascita di Matteo Renzi. Quello che non pensavo è che scadesse così in basso. Scrive su Repubblica di domenica: "L'attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio come per l'altro è stato Dell'Utri." 
Non sa più che scrivere....e io non ho parole... ricordo solo un particolare: in politica  non ci ha mai azzeccato ma non se n'è mai accorto e persevera.

Riccardo Imberti

Tafazzi sempre di casa

Pubblicato il 26 aprile 2014, da Politica Italiana
Paolo Giarretta 

Neppure Renzi riesce a cambiare le cattive abitudini della politica italiana e a far superare l’istinto tafazzista della sinistra? Abbiamo avuto Prodi e l’abbiamo buttato, abbiamo avuto Veltroni e l’abbiamo buttato e ora anche Renzi è alle prese con l’eterno fare e disfare, con l’idea dell’immobilismo?
Sono solo piccole crepe ma intanto già hanno effetto sui sondaggi ed è cessata la crescita del PD. Io penso perché sta tornando una immagine del solito partito, che decide una cosa e poi non la mantiene, che apre infinite discussioni, fatte anche di buoni motivi, ma poi di protagonismi individuali, di rese dei conti interne. Vedo con preoccupazione che una parte dei nostri gruppi parlamentari non ha ancora capito quanto sia cambiato il mondo e quanto sia in pericolo la tenuta democratica del paese. Pensano sempre che vi sia tempo, che si possa spaccare il capello in quattro, non capiscono che un paese sfiduciato ha bisogno di risultati immediati. Magari imperfetti ma tangibili.
Nonostante le inconcludenze nella vita parlamentare, l’incapacità di fare una opposizione costruttiva, la deriva padronale, il M5S conserva un elevato consenso tra i cittadini italiani. Unendo elettori di sinistra e di destra. Un populismo a 360 gradi. Renzi sta provando, e ci sta riuscendo, a reintrodurre una fiducia tra popolo e istituzioni, per fare le cose e non limitarsi a sputare su tutto e su tutti. Ma sembra che non vi sia piena consapevolezza in tutti di quanto deteriorato sia il rapporto.
Prendiamo la questione del Senato. Intendiamoci: nel merito esistono diversi modelli nelle democrazie europee, senati elettivi e senati con elezioni di secondo grado e non è che gli uni siano meno democratici degli altri. Non è una eresia proporre come ha fatto il Governo un Senato eletto da “grandi elettori” ed è sostenibile che possa esistere un Senato con i compiti ridotti ma essenziali per il buon funzionamento della democrazia parlamentare che conserva un rapporto di mandato elettorale con il popolo, magari prevedendo le elezioni contestualmente a quelle dei consigli regionali.
Il punto è un altro. E’ che dietro queste posizioni si manifestano due resistenze. Quella politica che non vuole che Renzi abbia successo. Comprensibile in Berlusconi: partito in caduta verticale, comprende che il successo di Renzi sulle riforme lo rafforzerebbe ancora di più. Non comprensibile e politicamente criminale la resistenza interna, di chi non comprende l’occasione unica che offre Renzi al PD: riaprire la fiducia, ridare al partito quella centralità nell’opinione pubblica che già aveva avuto con Veltroni e che è stata buttata via per ostinati conservatorismi.
Poi c’è un’altra resistenza, più nascosta ma comunque robusta. Quella delle grandi burocrazie dello Stato che Renzi ha incominciato ad attaccare. Che ho conosciuto bene e che trovano sempre in Parlamento delle alleanze. Grandi burocrati che sussurrano all’orecchio dei senatori che bisogna difendere la dignità del Senato e che trovano sempre orecchi pronti ad ascoltare, più pronti ad ascoltare il palazzo che il paese. Purtroppo anche in casa nostra. Ricordo molto bene nell’ultima legislatura la sordità di nostri senatori (non a caso firmatari ora del ddl Chiti) sul tema della riduzione dei costi del Senato, della creazione di servizi unificati tra Camera e Senato, ecc. La letteraccia che ricevetti proprio da Vannino Chiti perché avevo osato sostenere che i costi per le segreterie particolari delle Presidenze e vicepresidenze del Senato erano vergognosi.
Questa è la battaglia in corso e mi meraviglio che non la si voglia capire, che si pensi appunto che ci sia ancora spazio per i giochi della mala politica: temporeggiare, sgambettare, conservare.
Bisogna ora prendere una iniziativa: si facciano le mediazioni necessarie (Renzi lo sa e ha dimostrato di possedere anche questa abilità) ma al giudizio degli elettori del 25 maggio occorre portare risultati. Gli ottanta euro ci sono ora occorre dimostrare che la politica è capace di riformarsi.

sabato 26 aprile 2014

A piedi nel blu

Massimo Gramellini
La Stampa 26/04/2014
 
In assenza di Laura Boldrini, impegnata a cantare «Bella Ciao» altrove, toccava al vicepresidente Roberto Giachetti rappresentare la Camera dei Deputati alle cerimonie romane del Venticinque Aprile. Giachetti è un Pannella serio, un digiunatore intemerato allergico alla cravatta e all’etichetta. Pur avendo diritto all’autoblù, vi ha rinunciato per poter scorrazzare con la sua moto privata, e nemmeno celeste, fino all’Altare della Patria.  

Giunto all’altezza della Bocca della Verità, è stato fermato a un posto di blocco da due vigili urbani. Giachetti si è tolto il casco e ha spiegato di essere uno degli invitati, come tale autorizzato a rombare nella zona momentaneamente preclusa al traffico. Ma i vigili gli hanno risposto che per motivi di sicurezza l’accesso al cuore politico della Capitale era consentito soltanto alle autoblù.  
Giachetti ha subito colto l’ironia dell’intera vicenda: tutti pronti a tuonare contro i simboli del potere, poi appena qualcuno vi rinuncia viene trattato da intruso. Invece i pizzardoni non l’hanno colta. Il loro ruolo li dispensa dall’essere ironici. Devono (dovrebbero) far rispettare le regole. Persino quando, come in questo caso, le regole sono in palese ritardo rispetto alla sensibilità dei cittadini. Alla fine il buon Giachetti ha parcheggiato la sua moto non blu accanto alla Bocca mozza-bugiardi e ha raggiunto Napolitano a piedi, dopo una vasta camminata archeologica. Siamo orgogliosi di lui. Però anche dei vigili. Hanno fatto tutti la cosa giusta: ogni tanto capita, il Venticinque Aprile.

....domani quattro papi.....mai successo!


Perché non mi sono candidato.

Il 23 sera è passato, la consegna ufficiale delle liste è passata, i nomi sono sui giornali. Quindi saprete che non sono candidato nella lista Insieme per Coccaglio...

[il resto sul blog di Filippo Filippini]

Quadrare il cerchio, la sfida di Francesco

Franco Cardini 
Europa  

Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere le voci critiche; mostrare la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio
Per i cattolici, la canonizzazione è un procedimento giuridico e un atto di fede. Dichiarare qualcuno santo vuol dire proclamare la certezza che egli, sia pure con gli errori e le debolezze di qualunque essere umano, ha «vissuto in modo eroico le virtù cristiane»: e che di tale pratica di virtù ha dato prove concrete, che hanno lasciato il segno.
Tale realtà va sottoposta a una vera e propria verifica processuale, con accurata escussione di prove e di testimoni.
Gli Atti di una canonizzazione, preceduta da fasi di verifica preliminare (al termine di ciascuna delle quali il candidato santo viene proclamato “Venerabile”, “Servo di Dio”, “Beato”), riempiono di solito spessi volumi. Al termine di questo laborioso processo, che può essere anche molto lungo (Francesco d’Assisi venne proclamato santo solo due anni dopo la morte; per far santa Giovanna d’Arco, fatta ardere viva da un tribunale inquisitoriale come eretica, c’è voluto quasi mezzo millennio), nessuno che si dica cattolico può dubitare che chi sia stato canonizzato sia davvero “santo”, cioè viva spiritualmente in eterna grazia di Dio (“in Paradiso”, come si usa dire). La canonizzazione dei santi è uno degli in verità pochissimi casi nei quali la Chiesa proclama la propria infallibilità come speciale prerogativa concessale da Dio.
In altri termini, la canonizzazione è un fatto rigorosamente interno alla Chiesa cattolica, che si può intendere solo iuxta propria principia. Obiettare che tale o tale santo avrebbe motivi storici o di altro tipo per non sembrare poi troppo esemplare, è cosa tanto vana quanto inutile. Durante il processo di canonizzazione, chiunque può addurre prove – e, se è cattolico, avendone deve farlo – che possano inficiare il processo; il farlo dopo non ha senso, in quanto la sentenza garantita dall’infallibilità è per sua natura inappellabile; il sollevar dubbi alla luce di altre valutazioni o di princìpi che non sono quelli della Chiesa significa mischiare elementi culturalmente eterogeni fra loro.
Ciò premesso, non ha senso continuar a chiederci, ora che le causa di canonizzazione di Angelo Roncalli e di Karol Wojtyła sono concluse, se l’uno o l’altro dei due pontefici abbia davvero meritato la gloria degli altari o se si sia trattato di una scelta pregiudiziale e unilaterale da parte della Chiesa. La prima domanda, sarebbe ingenua; la seconda, tautologica.
Ha invece senso, eccome, chiedersi che cosa queste due canonizzazioni contemporanee significano in questo particolare momento della vita della Chiesa, dal momento che si tratta di due papi entrambi molto amati e popolari, entrambi fortemente carismatici, molto diversi però fra loro non tanto e non solo sotto il profilo caratteriale, bensì anche sotto quello della loro funzione nella storia della Chiesa.
Giovanni XXIII, un papa dotato di una vasta esperienza diplomatica – era stato nunzio in due situazioni difficili, nella Turchia kemalista e nella Francia di Vichy – è il pontefice “progressista” che ha “aperto la Chiesa al mondo” con il concilio Vaticano II, correndo il rischio di quello che Jacques Maritain definì «l’inginocchiarsi della chiesa dinanzi al mondo», cioè dinanzi alla Modernità laica e agnostica, cercando con essa il colloquio.
Giovanni Paolo II, un operaio che aveva lottato contro il nazismo e un vescovo che si era impegnato in un difficile braccio di ferro con le autorità comuniste della sua Polonia, aveva fama di essere “socialmente avanzato” ma non “progressista” (il che non è la stessa cosa). Appena arrivato al soglio pontificio, avviò una politica segnata da tratti gerarchicamente e liturgicamente tradizionalisti, avversò in America latina la “teologia della Liberazione” e sembrò frenare per più versi l’applicazione dei decreti del Vaticano II.
Papa Francesco è a sua volta giunto al soglio pontificio cinto dalla fama di avere decise simpatie tradizionaliste, quindi ispirate a cautela nei confronti di quelle che – del resto alcuni decenni fa – sembravano le “innovazioni” conciliari; ma era noto anche per un’apertura sociale che non solo ha confermato, ma che è addirittura diventata, specie nei confronti degli “ultimi della terra”, il sigillo del suo pontificato vòlto tutto, e con grande decisione, alla moralizzazione della vita dei vertici ecclesiali da un lato e alla lotta contro quella che splendidamente egli stesso ha definito “la globalizzazione dell’indifferenza” dall’altro.
L’elezione di papa Francesco è avvenuta in un contesto che lasciava intravedere una forte spaccatura verticale all’interno dell’alta gerarchia della Chiesa; ma proprio per questo un papato “debole”, attendista, non avrebbe fatto che peggiorare la situazione. Papa Bergoglio ha obbligato la gerarchia e i fedeli a scegliere, a dichiarare da che parte ciascun cattolico vuole stare. Ma egli si è anche impegnato a dimostrare che questa non è la Chiesa che lui ha voluto, bensì la Chiesa tout court, come dev’essere e come non può essere altrimenti. Per questo, le due canonizzazioni complementari di due papi che nella visione comune sono considerati “ai due estremi opposti” della testimonianza cattolica e della funzione pontificia gli erano indispensabili.
È una sfida, che somiglia molto alla quadratura di un cerchio. Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere (e non semplicemente ordinare che tacciano) le voci critiche nei confronti di esso; mostrare una Chiesa di adesso, la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio e al tempo stesso fedele a una tradizione quasi bimillenaria che indica la strada del confronto con “il mondo”, ma non dell’acquiescenza nei confronti del suo spirito. Si è detto spesso, in questi mesi, che l’unico modo per legittimare una simile quadratura del cerchio sarebbe la richiesta di una nuova esplicita verifica e di un nuovo impegno della gerarchia su una strada chiaramente, limpidamente, indicata e accettata.
Un nuovo concilio. Che si prospetta d’altronde anche come un luogo nel quale istanze inconciliabili potrebbero affiorare. Un’occasione imperdibile e un inevitabile rischio. Questa appare, oggi, la sfida di questo gesuita arrivato “quasi dalla fine del mondo”, che ha ridotto al minimo i segni di solennità e di autorità del suo ufficio e che, in un mondo segnato come non mai dalla barbarie della sperequazione sociale e dallo spettacolo intollerabile del confronto tra l’opulenza dei pochissimi e la miseria dei troppi, ingiuste entrambe, ha scelto di chiamarsi come un Povero di otto secoli fa.

venerdì 25 aprile 2014

Caro Matteo #machitelofafare?


Roberto Giachetti
Foto articolo
Roma, 24-04-2014
Caro Matteo,
da quando è nato il Partito democratico sono quasi sempre stato in minoranza, ho combattuto a viso aperto le mie battaglie all’interno del gruppo parlamentare e di fronte alle scelte della maggioranza mi sono sempre adeguato con la lealtà che è dovuta nella vita democratica interna. Non di rado quelle scelte che ho contrastato da dentro sono state la causa di clamorose sconfitte politiche ed elettorali ma non sono mai scappato, non mi sono mai sottratto alla responsabilità collettiva, assumendole come sconfitte anche mie pur avendole energicamente avversate all’interno del Gruppo.
Quello che sta accadendo oggi tra noi, in particolare ma non solo sul tema delle riforme istituzionali, è davvero inconcepibile nella vita democratica della nostra comunità parlamentare. Tutto si ribalta e quelli che ieri erano maggioranza e pretendevano fedeltà alle decisioni prese, oggi, con una disinvoltura ed una leggerezza assai preoccupanti, rivendicano il loro diritto non a dissentire - ci mancherebbe altro - ma ad interdire le scelte che con i medesimi riti democratici in una condizione nuova e, per fortuna, diversa, si assumono formalmente. Ho sentito addirittura rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza sulle riforme istituzionali.
Si sta gravemente alterando il metodo e si sta mettendo seriamente a rischio la volontà di coloro che oggi sono il partito: i partecipanti alle primarie. Un costante tentativo di guastare, di indebolire, di annacquare quelle riforme e quei cambiamenti che in Italia non si sono fatti per vent’anni, spesso per responsabilità primaria di chi oggi fa interdizione, e che molti vogliono ancora rinviare magari sostituendoli con quelle fumose chiacchiere che ci accompagnano da decenni. Questa azione interna al partito si salda con il vasto esercito transpartitico di vecchi e novelli conservatori che avvertono ogni possibile cambiamento e riforma come il più grande rischio alla loro sopravvivenza politica.
Bada bene: parliamo di ceto politico non di elettorato, perché credo che tu meglio di me sappia (lo dicono tutti i sondaggi) quanto l’elettorato chieda riforme e quanto apprezzi lo sforzo che stiamo tentando di fare, contro le infinite resistenze diffuse in ogni dove dell’attuale potere politico e non solo. Allora ti domando sinceramente: chi te lo fa fare? Perché continuare? Al netto delle naturali e scontate critiche che ovviamente vengono rivolte a chi governa da chi si oppone, ho la sensazione che vi sia un palese accanimento contro a prescindere, una convergente azione dentro e fuori il partito che punta a far saltare ogni cosa a priori giocando sulla manifesta fragilità dell’assetto politico sul quale si basa l’azione del governo.
A questa fisiologica attività di contrasto che si organizza in ogni dove, in politica e nei cosiddetti poteri forti, nel partito e fuori, tanto più accanita quanto è manifesto e diffuso l’apprezzamento dell’elettorato per l’azione del Governo, non si può far fronte sostanzialmente a mani nude, senza poter contare su una forte e leale tenuta della maggioranza. 
E allora torno: chi te lo fa fare? Se consentito: chi ce lo fa fare? Non rischiamo solo di perdere tempo, tempo di cui il nostro Paese non dispone più? Facciamolo un bel referendum, caro Matteo. Chiamiamo gli elettori a decidere se tutto quello che si è fatto e, soprattutto, quello che si vorrebbe fare, è davvero così inutile, dannoso, deleterio per i nostri cittadini. Spostiamo il dibattito nell’Italia vera, andiamo ad elezioni. Una legge elettorale tutto sommato c’è, ci sono pure le preferenze che, di sicuro (ce lo hanno spiegato loro!), aiuteranno a verificare la consistenza di tante scelte politiche; andiamo a votare subito e facciamo le cose che abbiamo in mente in un nuovo contesto politico.
Certo con questa legge elettorale bisognerà fare un’altra maggioranza di coalizione ma sono sicuro che i rapporti di forza saranno molto migliori per il PD e poi almeno avrai il diritto e la possibilità di guidare un governo con un gruppo parlamentare coeso e leale. Pensaci Matteo: chi te lo fa fare? Facciamo saltare il tavolo di questo ceto politico e ascoltiamo gli elettori!

Se fosse Renzi a far saltare il tavolo

Stefano Menichini 
Europa  

Dietro all'opposizione alla riforma del senato si vede ormai chiaro un disegno di ridimensionamento del premier. Questo potrebbe spingere lui a rifiutare compromessi al ribasso, e a scatenare un'offensiva anche all'interno del Pd.
Tutti nel mondo politico si chiedono quale possa essere il punto di compromesso che Matteo Renzi potrebbe considerare accettabile per far passare almeno un avanzo della sua riforma del senato. Rischia di essere la domanda sbagliata. A meno che il premier non cambi idea rispetto a una convinzione riproposta con forza da mesi, forse dovremmo interrogarci sul conflitto politico – quanto distruttivo, contro quali obiettivi – che Renzi potrebbe scatenare una volta che la strada di palazzo Madama si confermasse per lui impraticabile.
Sapevamo fin dal giorno del patto del Nazareno che le riforme costituzionali sarebbero state molto più difficili del varo della legge elettorale, e che la fedeltà di Berlusconi alla parola data sarebbe stata spesso oscillante. Era evidente nei giorni del battesimo parlamentare del governo Renzi che l’aula del senato, da lui certo non blandita, si sarebbe rivelata ostile e resistente. E si è capito da tanto tempo che all’interno del Partito democratico c’è chi non considera affatto prioritaria la salute della famosa “ditta”, non apprezza i livelli di consenso al quale Renzi la sta conducendo, non ha alcuna intenzione di prendere atto dell’opinione degli elettori delle primarie e – in conclusione – più di ogni altro obiettivo persegue quello del ridimensionamento del segretario del partito e presidente del consiglio.
Noi stessi su Europa abbiamo più volte sottolineato la necessità che su tutti i testi di riforma istituzionale, compreso l’Italicum, fosse giusto soffermarsi, ragionare, emendare, aggiustare, riequilibrare. È vero che le istituzioni devono funzionare secondo una logica unitaria, con pesi e contrappesi ben calcolati, con tutte le clausole di garanzia necessarie, e nei progetti presentati dal governo non tutto era convincente sotto questi aspetti.
A questo punto del conflitto aperto da una minoranza del Pd appoggiata dalle forze d’opposizione (non stupisce affatto l’asse che da Grillo arriva a Berlusconi passando da alcuni senatori dem) c’è l’impressione che non si tratti più di interventi nel merito delle riforme. Sostanzialmente, i senatori (spalleggiati con comprensibile entusiasmo e interessata dedizione dalla tecnostruttura di palazzo Madama) vogliono azzoppare fin dal primo passaggio la riforma che doveva abolire il bicameralismo, banalmente salvando il bicameralismo medesimo, cioè l’essenza di ciò che Renzi propone di abrogare forte di un vasto consenso popolare, specifici deliberati del suo partito e molti anni di dibattito tra esperti. Berlusconi e Grillo prendono al volo l’occasione di ferire un avversario elettorale che si sta rivelando micidiale per entrambi.
Non ci sono i numeri in parlamento per fare altrimenti, dicono gli stessi che si stanno dando da fare per comporre numeri favorevoli. Può darsi. Renzi non può rischiare una bocciatura in piena campagna elettorale europea, dunque l’iter della legge rimarrà aperto. Ma credo che stia valutando la convenienza di alzare il tono dello scontro. Imperniare una parte consistente del proprio appello agli elettori sulla denuncia di resistenze, ostruzionismi, conservatorismi. Creare un clima per cui i voti che prenderà il 25 maggio saranno poi rovesciati sugli oppositori, innanzi tutto quelli interni. E c’è chi gli suggerisce (ieri Roberto Giachetti) di passare poi rapidamente a trasformare questo clima in aperta battaglia elettorale, in autunno.
Questo scenario scandalizza molti (di nuovo, nel Pd). Come se opporsi a una linea assunta dal partito e dai gruppi fosse legittimo, e cercare di piegare questa opposizione con una dura minaccia politica fosse invece illegittimo. È un destino, per Matteo Renzi, che contro di lui non debbano mai valere le regole di fair-play che invece da lui si pretendono.
Staremo a vedere. La soluzione migliore rimane, di gran lunga, un compromesso ben scritto che si ponga al di qua dei paletti posti dal governo, a cominciare dal no all’elezione dei senatori. Se la campagna elettorale si rivelasse un momento inadatto all’approvazione di un buon testo, l’essenziale dal punto di vista di Renzi sarebbe ricevere dal senato un segnale politico comunque chiaro, inequivoco e irrevocabile.
In caso contrario, se la resistenza rivelasse il vero volto dell’ostilità verso di lui, il leader del Pd e presidente del consiglio tornerebbe ad avere mani libere. E nessuno potrebbe poi lamentarsi dei colpi politici dati e presi.

giovedì 24 aprile 2014

L’Europa nostra patria: un rinnovato progetto di buona politica comune



Guido Formigoni

Rete 3C Costituzione Concilio Cittadinanza

  1. Il progetto di integrazione europea rimane l’unica possibile salvezza del Vecchio continente, nella stagione della globalizzazione e della crisi della politica moderna, a fronte del rischio di invecchiamento e di impoverimento della società europea, contemporaneamente a quello di marginalizzazione economica e politica internazionale dei vecchi Stati e dei popoli dell’Europa. Il progetto europeo ha salvato la pace di un continente che si era lacerato in un trentennio di «guerra civile» distruttiva e ha accompagnato lo sviluppo e l’avvicinamento dei diversi popoli europei. Appare assolutamente dirimente ricordarlo oggi, proprio a cent’anni dallo scoppio dell’«inutile strage» della prima guerra mondiale (come la definì Benedetto XV). Ora, questo progetto resta l’unica possibilità di futuro, in un mondo in cui giganti politici come Cina o Stati Uniti condizionano sempre di più la pretesa asettica libertà economica del mercato globale. In un mondo, per giunta, in cui la crisi economica divenuta stagnazione strutturale mostra che il rapporto tra politica, economia e finanza va profondamente mutato. La crisi ha caratteri drammatici e chiede «più politica», proprio in tempi di «antipolitica» dilagante. Perché questo salto in avanti della politica ci sia – e sia anche positivo – occorre verificarla continuamente e misurarla sugli obiettivi e sui metodi. A livello nazionale è ormai difficilissimo trovare modo di cambiare: a livello europeo si può invece intravedere uno spiraglio per l’innovazione.

  1. Questa fiducia si scontra con il paradosso dell’attuale crescita di sentimenti e posizioni antieuropee. Occorre a nostro parere prendere sul serio le obiezioni che circolano. Si parla di squilibri tra i diversi settori, di egemonia di alcuni Stati su altri, di eccesso di burocrazia, di una regolamentazione eccessiva, di carenza di democrazia, di vincoli eccessivi della moneta unica. E’ certo che l’attuale struttura dell’Unione sia riformabile, ma queste critiche sono in parte frutto di opinioni errate o almeno forzate: ad esempio, non si può criticare la tecnocrazia di Bruxelles quando sono spesso i governi nazionali a frenare; oppure non si può sostenere che ci sia l’egemonia di alcuni Stati se gli altri sono assenti o silenti nel processo decisionale; non è vero che l’Europa serva a sprecare soldi degli Stati virtuosi verso i lassisti del Mediterraneo, come non è vero che l’Europa è la causa dei mali di chi si trova con bilanci fuori controllo e alta disoccupazione: piuttosto c’è un interesse comune degli uni e degli altri a trovare formule di Europa forte; non si può pensare che la superiorità della legge europea su quella nazionale sia frutto di un caso perverso, quando è stata decisa proprio per salvare i governi democratici dal caos; non si può temere il «super-Stato» europeo quando in tempi di crisi tutti chiedono più tutele agli Stati; non si può credere al mantra dell’Europa subalterna alle banche, quando l’unica forma di regolamentazione efficace delle banche sta venendo dall’Europa; non si può pensare che sia possibile «uscire dall’euro» senza costi e rilanciare così l’economia nazionale, sottovalutando il dramma dell’isolamento e della distruzione di risparmi e ricchezza che questa scelta comporterebbe. Se queste polemiche appaiono quindi infondate, altre critiche possono essere più ragionevoli e addirittura necessarie, ma non portano a chiedere «meno Europa», quanto piuttosto «una diversa Europa», con istituzioni rappresentative e capaci di decidere, oltre che con più convinzione della solidarietà nell' interesse comune.

  1. L’Unione europea che oggi conosciamo è frutto di un cammino i cui promotori hanno sostenuto che un accrescimento progressivo delle competenze avrebbe portato quasi insensibilmente a una vera unione politica (era la tesi dei «funzionalisti»). L’ultimo passaggio è stata la moneta unica: cedere questo potere da parte degli Stati avrebbe di fatto realizzato una nuova sovranità europea. Oggi questa promessa non ci sembra credibile, perché siamo arrivati a un processo istituzionale molto elaborato, ma la volontà politica comune è lontana e l’Euro stesso soffre di questi limiti. Anche a questo proposito però c’è un paradosso: qualsiasi strada che appaia più democratica è bloccata dalle paure rispetto a processi di legittimazione complicati e incerti (i referendum su un «salto di qualità costituente» in alcuni paesi sarebbero difficili da vincere). Noi però continuiamo a credere che l’obiettivo finale dovrà essere una unione politica federale europea. Senza una coesione politica, l’Europa resterà sempre monca e incompleta: il problema arduo è come arrivarci. Per ora, in mancanza di alternative più credibili, sembra necessario utilizzare gli spiragli che esistono già nelle attuali istituzioni. Ad esempio, già le nuove regole del Trattato di Lisbona chiedono al Consiglio europeo (dei capi di governo) di indicare la presidenza della commissione «tenendo conto» del risultato elettorale delle elezioni del parlamento, il quale dovrà poi anche votare la commissione. Sono tutti passaggi democratici inediti, che vanno nella direzione dell’unione politica che vogliamo e quindi vanno valorizzati.

  1. Allora, prendiamo sul serio le elezioni di parlamento del 25 maggio. Non si tratta di un rito stanco per creare un’istituzione debole. La posta in gioco sullo sfondo di queste elezioni è invece alta e significativa. I risultati elettorali (quanti cittadini voteranno, quali forze politiche avranno la maggioranza) possono essere significativi almeno su tre fronti diversi.

    1. Superare l’austerità. L’azione coraggiosa della Bce per ora ha salvato l’Euro, ma agendo al limite dei trattati. L’Euro finora ha funzionato soprattutto come vincolo di controllo per politiche di bilancio sane e stabili (partendo dai «parametri di Maastricht» fino all’ancor più rigido fiscal compact, che impone la riduzione progressiva dei debiti a chi supera il tetto del 60% sul Pil). Tali istanze hanno una loro giustificazione, ma se sono proseguite senza criterio in tempi di recessione, diventano strumenti di un circolo vizioso depressivo dell’economia. Se tutti tagliano la spesa pubblica, il reddito crolla e il debito, in rapporto al Pil, non può scendere. Occorre ora sperimentare tutte le caratteristiche dell’Euro come elemento di una forte sovranità europea. Proprio l’esistenza di una grande e solida moneta riconosciuta in tutto il mondo può dare spazio per politiche espansive (come hanno fatto, ciascuno a suo modo, Stati Uniti, Giappone e Cina). Occorre quindi costruire un’autonomia maggiore per l’Eurozona all’interno dell’Unione (il che è già una prospettiva aperta dal consiglio europeo alla fine 2013). E indirizzare coscientemente questa autonomia verso un vero e proprio new deal europeo. Il che significa accrescere il bilancio comune con altre risorse proprie, raccogliere maggiori finanziamenti sui mercati con gli Eurobond, tassare le transazioni finanziarie speculative (una Tobin tax europea non deprimerebbe l’economia reale e raccoglierebbe notevoli fondi, anche con aliquote minime). Lanciare quindi con queste risorse un piano di investimenti selettivi per una crescita sostenibile dell’economia del continente. Questa strategia deve diventare l’altra faccia del controllo di bilancio rafforzato e del fiscal compact. E’ interessante in questa direzione l’ “Iniziativa dei cittadini europei” (Ice) che è stata proposta da alcuni organismi della società civile: se essa raggiungerà un numero di firme sufficiente, potrà essere un fattore di pressione nelle istituzioni.

    1. Rilanciare il modello sociale europeo. Occorre affrontare in modo creativo la tendenza all’invecchiamento delle popolazione e gli effetti di una struttura economica meno flessibile rispetto ad altre parti del mondo. Se ci faremo bloccare, accettando semplicemente di regredire sul livello del Welfare, perderemo quell’originalità europea che storicamente ci è stata invidiata, che è sostanzialmente riuscita a «quadrare il cerchio» tra dinamicità economica e protezione sociale. Nella dinamica della globalizzazione, questo rilancio è impossibile su scala esclusivamente nazionale. Il Consiglio europeo di ottobre 2014 è già stato programmato su questi temi (e quindi anche la presidenza italiana del semestre prossimo potrà svolgere un ruolo importante nel prepararlo). L’Europa è stata troppo subalterna alla logica della finanziarizzazione e al ciclo politico neoliberista globale, mentre ha conosciuto anch’essa una divaricazione crescente dei redditi e dei patrimoni che è deleteria per l’economia e per la società. Oggi ha il compito di vincolare finalmente gli strumenti finanziari e riprendere il solco della sobrietà, della ponderazione, della concertazione, della solidarietà sociale, della integrazione ordinata degli stranieri. L’Europa sociale non può che prendere forma attraverso un’ampia consultazione delle realtà vive delle diverse società, concordando modelli il più possibili comuni e convergenti. Il Welfare non può infatti sopravvivere solo in alcuni Stati mentre altri fanno competizione riducendo i loro costi. La cittadinanza stessa e i diritti umani e civili – anche dei cittadini di nuova immigrazione – non possono sopportare condizioni troppo divaricate. Non neghiamo che si debbano ridiscutere i privilegi, ma la cosa più importante è investire coraggiosamente sul futuro: saranno i «paesi emergenti» ad avvicinarsi a noi (e non il contrario), se saremo in grado di presentare la credibilità e la sostenibilità di un sistema europeo di Welfare moderno.

    1. Affermare un nuovo protagonismo europeo nel mondo. L’Europa che in passato aveva unificato il mondo con lo slancio dell’economia e anche con la pressione imperialistica, oggi è di fronte al dilemma tra una crescente impotenza e la costruzione di un modello nuovo di «potenza civile». Per scioglierlo, occorre decisione e creatività. Si dovrebbe utilizzare sempre più nelle relazioni internazionali il modello cooperativo imparato dalle democrazie, attraverso la composizione degli interessi e non l’imposizione di forme egemoniche. Si tratta di un modello che non può che tornare a valorizzare la cornice dell’Onu, dopo il discredito degli ultimi anni. Occorre poi imparare dagli errori – si pensi alla storia dei Balcani nel decennio ’90, al Medio Oriente, alle vicende delle primavere arabe – e soprattutto superare le tentazioni dell’azione in ordine sparso da parte dei singoli Stati verso il mondo extra-europeo in una logica bilaterale perdente. Non ci sono più «grandi potenze» che possono ragionare come i vecchi paesi coloniali. Non basta cercare clientes, o limitarsi a esultare per le rivolte che facciano cadere regimi autoritari: per consolidare nuove democrazie occorre monitorare e accompagnare i processi, affiancarli con saggezza e sostegni economici, perché abbiano sbocchi positivi e fecondi. I casi aperti sono ancora molti, dal Mediterraneo all’Ucraina (in molte situazioni dove il nazionalismo è un pericolo da controllare). Ma tutto il mondo africano è ad esempio naturalmente portato a guardare all’Ue con una speranza che non va tradita.

  1. Resta infine aperto un problema culturale e comunicativo: l’Europa non è un dato di fatto, perché gli effetti del passato pluralistico sono ancora forti. Non c’è un unico popolo (demos) europeo consegnato dal passato, non c’è lingua comune né storia comune (anzi, la storia è spesso un elemento divisivo se non conosciuto con rigore e rielaborato appropriatamente nella memoria pubblica). L’Europa è irriducibilmente plurale e non può emergere unitariamente che come un progetto in cui le diversità si mettono assieme. Questo comporta anche sul piano religioso, che ci sta particolarmente a cuore, pensare l’Europa come frutto dell’eredità di grandi religioni, in primo luogo naturalmente il cristianesimo, ma anche come costruzione segnata intimamente dalla laicità. Intesa come metodo di convivenza alta e feconda, nella fraternità e nel dialogo, tra religioni, filosofie, convinzioni diverse. Da cattolici democratici, questo ci stimola a trovare modo di investire la fede nella ricerca comune di una approssimazione sempre più forte ai valori profondi dell’umanità europea e mondiale. L’Europa può quindi vivere solo come progetto, che si deve alimentare continuamente, formando un itinerario originale entro un progetto storico di pace e fratellanza. L’obiettivo comune sta nel futuro, ma deve essere raccontato come capace di creare identificazione e coinvolgimento nel presente. Per rilanciare l’Europa dobbiamo costruire una presentazione del progetto europeo che sia realistico nel suo procedere, sostenibile tecnicamente e al tempo stesso convincente in democrazia (cioè capace di costruire consenso). Occorre tutti portare il proprio contributo in questo cantiere aperto di nuova e buona politica.


20 aprile 2014