venerdì 31 ottobre 2014

Delrio: "Attacchi infantili. II nostro esecutivo ha colpito i poteri forti"

Intervista a Graziano Delrio di Goffredo De Marchis - La Repubblica 30 ottobre 2014 

«Aggrapparsi alla dichiarazione di un imprenditore è, nel migliore dei casi, infantile». E nel peggiore? «Rivela una vecchia logica del sospetto e dell`insinuazione». Il sottosegretario a Palazzo Chigi Graziano Delrio risponde a Susanna Camusso. Nell`intervista a Repubblica la leader della Cgil ha accusato il governo Renzi di essere nato grazie ai poteri forti, come dimostrerebbe una dichiarazione di Marchionne. «Ma se la Cgil guardasse solo ai fatti capirebbe che è esattamente il contrario. Noi abbiamo tassato le rendite finanziarie e le banche. Andate a chiedere se certi manager e certi banchieri sono contenti di questo governo». Delrio si dice «amareggiato, molto dispiaciuto» per gli scontri sotto il ministero dello Sviluppo economico. «La ricostruzione dei fatti sarà trasparente. Non gettiamo la croce addosso a nessuno finché non sarà chiara la di- namica dell`episodio. Quello che mi sento di dire è che gli operai stavano facendo il loro mestiere difendendo il posto di lavoro. E i poliziotti facevano il loro. Anche gli agenti sono dei lavoratori». 

Lei considera infantile l`atteggiamento della Camusso. Ma c`è l`attenuante del clima: il premier dice che con i sindacati non tratta, alla Leopolda parlano solo imprenditori e finanzieri. Non è così? 
«Renzi è al governo perché ha vinto le primarie. È stato messo li non dal Palazzo ma dalla gente. Si è assunto la responsabilità del paese per dare una spinta forte e legittimata politicamente come chiedevano tutti. Evidentemente qualcuno ha la memoria corta. Quanto alla Leopolda era piena di gente comune. Io ho coordinato un tavolo dove c`erano i rappresentanti di tante cooperative sociali».
II governo pensa, come Pina Picierno, che la Cgil sia un`organizzazione di tessere false?
«No. La Picierno ha sbagliato a dire quelle cose. Noi rispettiamo molto i sindacati e rispettiamo la divisione dei ruoli. Se un sindacato è rappresentativo o meno lo dicono i lavoratori non il governo».
Però non volete ascoltare le obiezioni di piazza San Giovanni sulla legge di stabilità e sul Jobs Act.
«Non abbiamo alcuna ossessione antisindacale. Usiamo lo stesso metodo con tutti. Con le organizzazioni dei lavoratori e con i rappresentanti degli enti locali, dalla regioni ai sindaci che abbiamo incontrato ieri. Chiediamo di fare delle considerazione generali, poi di inviarci delle proposte o delle osservazioni più puntuali e se meritano un ripensamento da parte nostra le accettiamo».
E la Camusso non vi ha fatto delle osservazioni precise?
«Ha detto che non serve a nulla la decontribuzione per i neo assunti a tempo indeterminato e che il taglio dell`Irap non avrà alcun effetto sull`occupazione. Quindi noi che dovremmo fare? Dire che abbiamo scherzato? Abbiamo presentato un atto formale con 18 miliardi di tasse in meno e ridiscutiamo i pilastri di questa manovra?».
Non c`è libertà di critica?
«Certo che c`è, ma se la Cgil ha dei dubbi dimostri con un`analisi economica seria come sì fa a raggiungere gli stessi obiettivi. Gli altri sindacati hanno mosso critiche più puntuali. Ci chiedono: siete sicuri che il taglio ai patronati non comporti costi maggiori per la gente? Oppure: sui fondi previdenziali è giusta la strada di una penalizzazione fiscale? Su questo rifletteremo ancora».
Si può portare il Paese fuori dalla crisi attaccando quasi tutti come fa Renzi?
«Non vogliamo dividere il Paese. Vogliamo che esca dal suo status attuale con una disoccupazione giovanile fuori misura e una crescita negativa che dura da anni. Qualche decisione può dare fastidio, può smuovere un equilibrio consolidato. Ma qual è il Paese che abbiamo trovato, chi lo ha portato fin qua? Non c `è stato il coraggio di riformare gli enti locali, la pubblica amministrazione, la giustizia e non è questo è il motivo per cui l`Italia è in queste condizioni? La mancanza di decisione ha conseguenze peggiori del non scegliere».
Non si può decidere in un altro clima?
«Quando la Germania ha fatto la riforma del mercato del lavoro, il sindacato ha contribuito assumendosi una responsabilità enorme. Hanno avuto il coraggio di dialogare anche sui lavori poco pagati in nome dell`occupazione. Noi teniamo le porte aperte a tutti, ma non possiamo tenerle aperte all`immobilismo».
Evitare la sciopero generale non sarebbe un segnale distensivo da parte vostra?
«L`ambizione del governo è stringere un patto sociale con i sindacati sul modello di altri grandi paesi. La Germania di cui parlavamo prima per esempio. Siamo pronti a fare tutti gli sforzi necessari come è avvenuto sull`Electrolux in condizioni difficili e alla fine il risultato è venuto. E com`era possibile fare anche a Terni. Naturalmente, la Cgil ha tutto il diritto di farei suoi scioperi e compito di tutti è abbassare i toni. Se lo sciopero non c`è però, meglio. Significherebbe che si è trovata un`intesa».
È vero che il Jobs Act non sarà modificato di una virgola alla Camera?
«Noi siamo molto soddisfatti del testo attuale. E il problema dei tempi esiste. Renzi ha sempre detto che bisogna presentarsi a inizio anno con le riforme fatte. Quindi ci può stare tutto, vedranno i deputati e Poletti, ma non che il governo non rispetti i limiti di tempo, con i decreti delegati pronti».
Se mettete la fiducia e un gruppo di deputati Pd non la vota ve ne farete una ragione come dice Renzi?
«La fiducia è una cosa molto seria. Si aprirebbe un problema politico grave».

Israele riapre la spianata delle moschee a Gerusalemme Est

Il luogo sacro era stato chiuso in seguito all’uccisione di un palestinese sospettato di aver sparato a Yehuda Glick, un attivista israeliano di estrema destra.

Non c’è da piangere per Europa

Stefano Menichini 
Europa  
Portiamo per l'ultima volta le copie del quotidiano in edicola. Ci dispiace, ma non bisogna drammatizzare: Europa continua a vivere sulla rete, vogliamo stringere un altro patto con chi ci aiuterà e con i lettori. Come nel 2003, anzi meglio.
Nella mia stanza di vicedirettore, nei primi anni di Europa, tenevo appesa al muro una frase di Bill Clinton che secondo me contiene l’essenza dell’azione politica, possibilmente della vita: «Battiamo la destra divertendoci, oppure cambiamo mestiere».
Erano anni duri per la sinistra in Italia, i primi del duemila. Oggi la missione di battere la destra pare meno impellente, più che altro grazie alla destra medesima. Né saprei dire se negli undici anni di giornalismo politico in via Ripetta ci siamo poi fatti queste matte risate. Feste e festicciole alla prima occasione, sì. Battute e sdrammatizzazioni, anche queste garantite, soprattutto grazie a quel maestro di ironia e di autoironia – oltre che di tante altre cose – che è stato Federico Orlando.
Una cosa è certa: non ci piangeremo addosso oggi consegnando per l’ultima volta le copie di Europa ai distributori e alle edicole.
Malinconia dentro, tanta. La mia la coltivo anche per conto di Federico, per non esser riuscito del tutto ad assolvere alla promessa che gli avevamo fatto. Ma è un languore quasi dolce, scorrendo le prime pagine di questi anni e le foto di un po’ di momenti trascorsi insieme, immagini che abbiamo pensato di raccogliere in questo ultimo numero. Il languore di chi lascia una casa dove ha abitato, non per scomparire ma per andare a stare altrove (che poi è tutto figurato: il nostro altrove si chiama nel linguaggio della modernità “piattaforma editoriale”, insomma si portano gli ultimi mobili dalla carta al digitale, ma sempre nello stesso portone di via Ripetta 142 entriamo, per ora).
Questo è il punto, qui sta la promessa fatta a Federico e tradita a metà. Più anziani e più giovani, tutti preferiremmo (come avrebbe voluto lui) continuare a sporcarci le mani con l’inchiostro del nostro giornale, la mattina. Ma la durezza dei conti si sposa con le opportunità della tecnologia, sicché completiamo la conversione digitale già avviata due anni fa: andiamo tutti là dove stanno, ormai a decine di migliaia, i nostri lettori.
Lo facciamo senza piagnistei, ma con una determinazione a questo punto feroce: si va avanti, non si arretra più. Europa non muore oggi, ha buoni motivi, buoni amici e buone idee per proseguire (magari, chissà, per riapparire un giorno in edicola sotto mutata veste). Con il lavoro e un po’ di ragione politica abbiamo ripagato la fiducia di chi volle far nascere il giornale: i leader della Margherita che intravedrete nelle foto, due dei quali leggete anche qui.
Quel ciclo si chiude definitivamente con la liquidazione. Ci batteremo per aprirne un altro e per stilare un altro patto: con chi vorrà investire sulla testata, col Pd che vuole aiutarci (dopo che noi abbiamo parecchio aiutato lui), soprattutto con i lettori, tanti di più adesso di quelli che ci accolsero in edicola la mattina del 12 febbraio 2003.

Ci vuole un casco di protezione

Stefano Menichini 
Europa    
Gli avversari di Renzi sono riusciti a far sorgere un dubbio, lui deve smentirlo: il suo scontro è con gli apparati di potere, non con il mondo del lavoro, tanto più sotto i colpi della crisi.
Matteo Renzi non si fermerà, né rallenterà, né devierà dal proprio tragitto. Chi lo pensa, o insiste a chiederglielo, continua più che altro a non capire l’essenza del personaggio, che prevede aggiustamenti tattici e cambi di velocità ma sempre in un crescendo coerente con la concezione di una politica che non ammette la conservazione dell’esistente (buono, mediocre o cattivo che sia).
Detto questo, il premier si trova a dover perfezionare il messaggio. Perché, complici anche i dati di cronaca, per qualche momento è balenata l’immagine di una locomotiva Italia spinta a grande velocità dal capotreno mentre dietro alcuni vagoni oscillano pericolosamente e si avverte la possibilità di un deragliamento sociale.
La rassicurazione non è una tonalità comunicativa consueta per Renzi, che la assimila a perdita di dinamicità, freno rispetto alla sollecitazione a rimettersi in moto assumendo dei rischi.
L’incontro di ieri a palazzo Chigi con Landini e i suoi metalmeccanici aveva uno scopo immediato: rimediare a una giornata nera per l’immagine del governo, sanare una ferita. Operazione compiuta, anche grazie alla maturità del leader della Fiom. Conteneva però anche un messaggio più generale, non correzione ma completamento dell’aggressivo discorso della Leopolda: in Italia non c’è da piegare alcun ceto sociale né categoria, non c’è nessuno nel mondo del lavoro che deve pagare per lo sforzo collettivo di ripartire.
Renzi deve spiegarlo meglio, perché i suoi avversari politici sono riusciti a sollevare un dubbio in proposito: lo scontro è con gli apparati di potere, in ogni luogo e a ogni livello; nel sindacato come nel padronato; nel privato come nel pubblico; nelle professioni corporative come nell’amministrazione. Non coi lavoratori d’ogni genere, i quali a seconda dei casi possono aspettarsi di avere ridotte le tutele ed eventualmente i privilegi, ma non di essere scritti sulla lavagna dei cattivi di palazzo Chigi.
Lo slogan del governo antipopolare è grezzo, anacronistico, inverosimile se indirizzato a Renzi e Padoan. Ma non sarà neutralizzato da slogan opposti. Ci vuole applicazione ravvicinata, come fatto ieri per la vertenza Ast. E bisogna rafforzare gli strumenti di protezione variamente presenti nel Jobs Act e nella legge di stabilità: non tutti possono permettersi, come i ternani dalla testa dura, di battersi per il lavoro sotto una gragnuola di colpi.

DESTRA SMARRITA 
BIPOLARISMO ADDIO.


Corriere della Sera 30/10/14
corriere.it
Siamo tentati dal bipartitismo, ma intanto in Italia rischiamo l’estinzione del bipolarismo. La logica bipolare poggia infatti su due pilastri: ma se il pilastro della destra si sgretola, il sistema diventa monco, asimmetrico, squilibrato. Con la robusta spallata renziana, il dibattito politico sembra essere occupato esclusivamente dallo scontro tra le «due sinistre», perché la destra di governo non c’è più, è silente, marginale, cupa, risucchiata nella rassegnazione minoritaria. Anche le ultime elezioni europee hanno assistito al duello tra Renzi e Grillo. Nel frattempo la destra di governo, che solo sei anni fa totalizzava circa il 45% dei voti, è diventata una somma di sigle, percentualmente tutt’altro che trascurabile: ma tanti frammenti non fanno un intero.


E oggi tutti sanno che, in caso di elezioni, non ci sarebbe partita. Il risultato finale sarebbe scontato. La democrazia dell’alternanza diventerebbe un pallido ricordo.

È crollata la destra di governo. L’umore di destra è ancora vivo. La nuova Lega di Salvini è capace di portare una consistente fetta di popolo in piazza. Ma è la destra protestataria che si alimenta di rabbia e sofferenza sociale, forte e radicata come quella francese di Le Pen (padre), non la destra di governo che compete per la conquista della maggioranza, come avviene nel resto dell’Europa, talvolta perdendo, talvolta vincendo, tuttavia sempre competitiva.

La destra italiana si aggrappa al carisma residuo di Berlusconi, ma non sa più parlare al suo «blocco sociale». Agganciandosi alla locomotiva renziana, spera di intestarsi una titolarità e una nuova rispettabilità «costituente» nella sfera delle riforme istituzionali, ma senza portare qualcosa di «suo», senza convinzione, senza entusiasmo, o per non dare un dispiacere a un leader che sembra amare più il giovane rottamatore della parte avversa che Forza Italia. La destra italiana non ha più un’idea forte, qualcosa che convinca chi l’ha votata in passato a rinnovare la sua fiducia e chi si affaccia per la prima volta alla politica a scommettere insieme per il futuro. L’esercito delle partite Iva, la piccola e media impresa, i commercianti, i liberi professionisti, il vasto ceto medio che per vent’anni ha trovato nella destra la sua casa è frastornato, deluso. Magari, galvanizzato dalla protesta antitasse, è tentato da Salvini, anche se il furore contro gli immigrati e gli inni del capo della Lega al Gulag della Corea del Nord lo tengono a debita distanza. Magari non escluderebbe la carta Grillo, anche se il leader dei Cinque Stelle appare appannato, sbiadito, confuso. Oppure c’è la tentazione Renzi: ma innamorarsi del leader dello schieramento avversario certifica la fine di una storia politica, una diaspora infinita, la cancellazione di un intero ciclo politico. Senza considerare i Comuni e le Regioni: persi uno ad uno con percentuali avvilenti, come si è visto a Reggio Calabria nei giorni scorsi.

Quando trionfava Berlusconi, almeno la sinistra compensava i suoi dolori con il governo delle grandi città e delle Regioni centrali. Alla destra un tempo di governo non resta nemmeno questo contrappeso. Quando Berlusconi stravinceva, la sinistra aveva i sindacati, le cooperative, gli intellettuali, l’ establishment dei grand commis di Stato. Ma la destra non ha niente di tutto questo.

La crisi drammatica in cui versa Forza Italia non riguarda solo Forza Italia, ma il nostro sistema politico. La cosa migliore del bipolarismo è la democrazia dell’alternanza: la paura per chi governa di perdere il potere, di veder prevalere lo schieramento avverso, di essere battuto alle elezioni e tornarsene a casa. Una destra ripiegata in se stessa, rinchiusa nella sua fortezza, attenta a captare ogni variazione nello stato umorale del Re, paralizzata nell’attesa che al suo leader venga restituita piena agibilità politica, frastornata dalla rivoluzione generazionale che ha elettrizzato gli avversari guidati da Renzi, una destra così è destinata alla sconfitta, alla testimonianza, all’autoperpetuazione del proprio apparato.

Senza slanci, senza nemmeno, forse, la voglia di vincere. Accontentandosi di sperare che la legislatura non finisca presto e che almeno, visti i numeri dell’attuale Parlamento, la destra abbia almeno voce in capitolo nell’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Un colpo duro alla democrazia dell’alternanza, se la destra non pensasse seriamente alla propria autoriforma. Un esito amaro per chi, vent’anni fa , predicava il futuro radioso di una «rivoluzione liberale».

Diffamazione, sì in Senato 
Multe più salate ma il carcere è abolito.


Corriere della Sera 30/10/14
Alessandra Arachi
Il Senato ieri mattina ha detto sì alla legge sulla diffamazione, cancellando la pena del carcere per i giornalisti condannati. Rimangono in piedi, tuttavia, multe piuttosto salate, che arrivano anche fino a 50 mila euro in caso di consapevolezza del falso da parte del giornalista.

Il testo di legge, a distanza di un anno, tornerà all’approvazione dell’aula di Montecitorio, proprio perché è stato modificato: a Palazzo Madama ieri mattina ha ottenuto 170 sì e soltanto 10 no, ma ben 47 astenuti.

Un testo che, volendo, potrebbe subire modifiche alla Camera, ma che intanto prevede modalità più severe per le procedure di rettifica e varrà anche per le testate online.

Il nuovo testo prevede che la rettifica dovrà essere pubblicata gratuitamente, senza commento, senza risposte e senza titolo, con un format ben preciso dove viene indicato che si tratta, appunto di una rettifica di un dato articolo, con i riferimenti al titolo, alla data e all’autore.

Vengono precisati nella legge anche i soggetti che hanno titolo a veder pubblicata la rettifica, ovvero coloro «di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti, o pensieri, o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità».

Abolito il carcere per i giornalisti (il caso era stato sollevato da Alessandro Sallusti per un articolo pubblicato a suo tempo sul quotidiano Libero ), rimangono in piedi le sanzioni pecuniarie fino a 10 mila euro se c’è l’attribuzione di un fatto determinato e fino a 50 mila euro se c’è la consapevolezza della falsità del fatto.

Nella legge c’è anche un’apertura per il diritto all’oblio su Internet: recependo una sentenza della Corte di cassazione del 2012 si stabilisce che l’interessato può chiedere l’eliminazione dai siti Internet e dai motori di ricerca dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione della legge. In caso di rifiuto, un cittadino può rivolgersi ad un giudice per ottenere la rimozione di immagini e di dati.

Preoccupate le reazioni che arrivano dai sindacati dei giornalisti. Tutti concordi nell’approvare l’abolizione del carcere, sono altrettanto tutti d’accordo nel temere le sanzioni pecuniarie così salate, quelle che la Fnsi, Federazione nazionale della stampa, definisce «il bavaglino» per i giornalisti, commentando così: «Pare proprio che non ci sia verso per fare una legge che fino in fondo sorregga la libertà di stampa, il diritto dei cittadini alla piena informazione senza condizionamenti impropri».

Per l’Unci, l’Unione cronisti italiani, «il testo del Senato non è toccasana e va migliorato», mentre per Enzo Jacopino, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti «il Senato ha perso la grande occasione di tutelare il diritto dei cittadini ad avere un’informazione libera, rispettosa della verità e delle persone».




IL PASSATO CHE NON DEVE TORNARE.


Corriere della Sera 30/10/14
corriere.it
Dell’uso dei manganelli d’un tempo avremmo fatto volentieri a meno. La vertenza degli operai dell’Ast per evitare il drastico ridimensionamento dello stabilimento di Terni si presenta ancor più complessa di altre perché oltre agli orientamenti liquidatori dei proprietari tedeschi — nei confronti di un impianto considerato eccellente per gli standard del settore — si paga il prezzo di regole europee non più al passo con i tempi. In uno scenario di business ormai contrassegnato dall’ascesa delle potenze siderurgiche asiatiche, l’Antitrust di Bruxelles ha impedito la vendita dello stabilimento ai finlandesi dell’Outokumpu per evitare che assumessero una posizione dominante e così la fabbrica umbra è tornata a far parte del gruppo Thyssen che la considera residuale.

Mentre dunque c’è da affrontare questa crisi, e forse da aprire una contestazione con la Commissione Ue appena insediatasi, ieri la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine ha occupato quasi totalmente la scena e abbiamo passato la giornata non più a discutere di politica industriale bensì di attribuzione di colpe al ministro competente, al questore o al singolo poliziotto. I metalmeccanici di Genova, appena informati dell’accaduto, hanno addirittura indetto uno sciopero per domani.


Ha senso tutto ciò o forse è necessario un bagno di realtà? È utile infilare la vertenza Ast nel tritacarne delle polemiche tra Palazzo Chigi e i sindacati? In un caso altrettanto spinoso, come quello della svedese Electrolux che inizialmente voleva lasciare l’Italia, governo e organizzazioni sindacali di categoria hanno lavorato nella stessa direzione e un risultato comunque lo si è ottenuto.

È chiaro che, pur evitando di confondere ordine pubblico e politica industriale, non si può dimenticare come l’iniziativa del premier Matteo Renzi stia scardinando vecchi equilibri e che questa pressione stia generando una contrapposizione ruvida. Al punto che sono stati evocati come suoi mandanti morali e materiali, in successione, Margaret Thatcher e Sergio Marchionne. In omaggio al principio à la guerre comme à la guerre nella battaglia mediatica non si va tanto per il sottile ma è lecito chiedersi a cosa serva tutto ciò e quale sia il legame tra comunicazione e soluzione dei problemi reali. Prendiamo lo sciopero generale che verrà indetto tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre e che, forse, solo un’incauta anticipazione di Nichi Vendola ha contribuito a ritardare.

La parola d’ordine su cui la Cgil punterà tutte le sue carte per far riuscire l’astensione dal lavoro è la richiesta dell’adozione di una tassa patrimoniale. Non è certo la prima volta che se ne parla negli ultimi anni e non è un caso che alla fine non sia stata mai adottata. Il motivo è semplice: con altissima probabilità la nuova imposta non finirebbe per colpire le grandi ricchezze bensì una parte consistente del ceto medio, già ampiamente tosato dalle imposizioni sulla forma di patrimonio più diffusa (la proprietà della casa). E allora ha senso proporre uno sciopero generale, per di più della sola Cgil, con l’obiettivo di far salire ancora la pressione fiscale? Si pensa davvero che si possa uscire dall’impasse riproponendo la vecchia e fallimentare ricetta del «tassa e spendi»? È questa la vera discussione da fare, il resto è solo vento per le bandiere.

mercoledì 29 ottobre 2014

Corsico, Roberto Baggio inaugura il centro buddhista

A Corsico, paese alle porte di Milano, è stato inaugurato uno dei più grandi centri culturali buddhisti d'Europa. A festeggiarne l'apertura un migliaio di persone, con istituzioni e rappresentanti di tutte le comunità religiose.

Brasile, Dilma presidente a dispetto dei media

Paolo Manzo 
Europa  
La vera sfida del secondo mandato di Rousseff sarà quella di migliorare le sue capacità di articolazione politica per riunire attorno a sé una coalizione parlamentare in grado di fare ripartire il paese
A leggere la stampa internazionale non sembra che la presidente uscente Dilma Rousseff – candidata del Pt, il partito dei lavoratori fondato da Luiz Inácio Lula da Silva – domenica scorsa abbia vinto l’elezione più combattuta della storia verde-oro, né che la maggioranza dei suoi concittadini le abbia dato fiducia per governare il Brasile sino al 2018. Quasi tutti i grandi media si sono infatti preoccupati di sottolineare elementi “residuali”.
Come ad esempio “lo stretto margine della vittoria” – 3,5 milioni e mezzo di voti non giustificano titoli come “paese spaccato” – o gli aspetti negativi del Brasile targato Pt – la cui vittoria è anche del Partito democratico di Renzi che Dilma l’ha sempre appoggiata.
Con la vittoria di Rousseff su Aécio Neves, il preferito di Wall Street, candidato del Psdb, partito che di socialdemocratico ha oramai solo il nome, The Economist e Financial Times, Le Monde e Cnn – per non dire dei media brasiliani quasi tutti schierati contro Dilma – hanno così scoperto (dei veri Sherlock Holmes) che in Brasile c’è molta corruzione, mancano le ferrovie e, dulcis in fundo, l’economia è “ferma”.
Se questo è il panorama descritto, come spiegare allora l’ennesima vittoria di Dilma, la quarta di fila alla presidenza del Pt? La maggior parte dei “grandi media” ha fatto ricorso a spiegazioni etnico/geografiche ma, anche qui spiace dirlo, hanno preso “lucciole per lanterne”.
Il primo mito da sfatare è infatti che a garantire la vittoria della Rousseff sarebbe stato il Nord-est del paese, la regione meno sviluppata, e dove maggiore è l’impatto dei programmi sociali petisti. In realtà Aécio ha perso perché nel Minas Gerais, da lui governato dal 2003 al 2010, la maggioranza degli elettori, chissà memore della corruzione del suo esecutivo, gli ha preferito Dilma. Se ad esempio avesse ottenuto lo stesso risultato di Fernando Henrique Cardoso a Minas nel 1994, oggi Neves sarebbe presidente del Brasile.
Per i grandi media la vittoria del Pt è dovuta così ad un motivo principale: avere incluso nella società brasiliana oltre 50 milioni di poveri che sino al 2003 erano dei paria, avendo concesso loro micro-crediti tramite la Caixa Economica Federale, luce elettrica con il programma “Luce per Tutti” e case popolari grazie al progetto “Minha Casa Minha Vida”. Per non dire poi del Borsa Famiglia, visto da alcuni come la causa di tutti i mali solo perché dà alle persone con redditi inferiori a 321 reais (circa 100 euro), la possibilità di uscire dalla miseria più nera.
“Voto di scambio” ha scritto chi vede come il fumo negli occhi qualsiasi politica sociale di redistribuzione dei redditi, facendo finta che prima del Pt il Brasile fosse la Svizzera e la compravendita dei voti non ci fosse.
Altri hanno addirittura alluso alla presunta scarsa affidabilità del voto elettronico – se avesse vinto Aécio lo avrebbero fatto? – sottolineando il vantaggio minimo di Rousseff su Neves.
Ridicolo e paradossale perché è stato invece molto positivo che la vittoria di Dilma sia stata “solo” di 3,5 milioni di voti e non di 10. Il motivo? Semplice, questo minor vantaggio contiene un monito chiaro rivolto alla presidente affinché cambi registro, cominciando ad unire come faceva Lula invece di dividere. La vera sfida del secondo mandato di Rousseff sarà quella di migliorare le sue capacità di articolazione politica per riunire attorno a sé una coalizione parlamentare in grado di fare ripartire un paese dalle enormi potenzialità ma, oggi, quasi “fermo” come il Brasile. Il resto sono solo i desiderata di chi a mezzo stampa avrebbe voluto vedere vincere Aécio, il cocco di Wall Street.

«Renzi ha rottamato il fiscal compact».


Corriere della Sera 29/10/14
corriere.it
Professor Guarino, che cosa è davvero cambiato con lo scambio di lettere tra Italia e Unione Europea?

«Renzi, in parte in modo del tutto inconsapevole, ha centrato obiettivi davvero straordinari».


Quali ad esempio?

«Sono parecchi. Mi fermerò solo sui più semplici. Il primo gennaio 1999, data in cui avrebbe dovuto essere immesso sul mercato l’euro come previsto dal Trattato di Maastricht, è stata lanciata, con lo stesso nome, una moneta soggetta a una disciplina di segno opposto. Con il regolamento 1466/97, atto che non avrebbe avuto alcuna capacità di modificare un Trattato, la Commissione ha imposto agli Stati membri l’obiettivo del pareggio del bilancio al posto di quello della “crescita sostenibile” . Agli Stati il cui bilancio già registrasse un passivo si è prescritto, senza che gli Stati potessero sottrarvisi, di realizzare il pareggio a medio termine seguendo un percorso che la stessa Commissione avrebbe assegnato separatamente a ciascuno Stato. Il pareggio imposto a Stati in disavanzo equivale di fatto a una capacità di indebitamento pari allo 0%. Renzi ha ottenuto che, ai fini della valutazione della posizione di bilancio italiano, si assumesse come valore di riferimento non lo 0%, ma il 3% indicato nel protocollo numero 5 del TUE (Maastricht). Implicitamente, ma inequivocabilmente, la Commissione ha riconosciuto che la norma in vigore non è quella del regolamento, ma quella dei Trattati. L’imposizione del rigore a partire dal gennaio 1999 ha costituito un atto illegale. Di conseguenza l’Unione ne deve rispondere, e per essa i presidenti della Commissione a partire dal gennaio 1999 in poi. Barroso è il principale responsabile avendo presieduto la Commissione per due mandati consecutivi. In punto di fatto Renzi ha rottamato i regolamenti e il cosiddetto Fiscal compact».


In qualche modo si riapre il capitolo della flessibilità...

« Il 3% non è un limite all’indebitamento, ma un semplice “valore di riferimento”. Il modo in cui tale valore va applicato è fissato negli articoli citati. Il 3%, come dispongono queste norme, può essere lecitamente superato in presenza di una forza maggiore cui lo Stato non sarebbe stato in grado di sottrarsi. È difficile ipotizzarsi un caso di forza maggiore più grave di quello che si è verificato a partire dal ‘99, quando è stata la stessa Commissione a imporre un vincolo dello 0%, che avrebbe costretto gli Stati non a crescita, ma a deperire. Al punto che oggi, dopo 15 anni, invece di crescere si ritrovano ridotti a condizioni che corrispondono più o meno a quelle di venti, trenta anni prima».


Adesso cosa bisognerebbe fare?

«Si deve stare sul chi va là. Tutte le burocrazie non cedono facilmente i poteri di cui si sono impossessate. L’osservazione vale in particolare per la burocrazia europea, la più costosa e che opera in assenza di un vero governo europeo. Non mancherà di cogliere qualsiasi occasione per ribaltare di nuovo la situazione a suo vantaggio. Se ne ha già una prova. Nel presentare la posizione assunta dalla Commissione nei confronti dell’Italia si afferma che l’approvazione della legge di bilancio è condizionata alla emanazione e alla applicazione sollecita ed effettiva di norme aventi a oggetto riforme “strutturali”. Il termine “strutture” è estraneo ai Trattati. In caso si accertasse l’esistenza di un disavanzo eccessivo, si potrebbe come massimo infliggere una sanzione pecuniaria di entità adeguata. L’ipotesi non si è mai verificata. La Francia, che versa attualmente in condizioni di maggiore precarietà, della eventualità di una sanzione sembra non preoccuparsi affatto».


Anche lei un renziano dell’ultima ora?

«Chiunque offra una chiave per uscire dalla gabbia europea, va apprezzato e aiutato. Solo quando saremo ritornati tutti all’aria aperta, potremo riallacciarci a vecchi valori e confrontarci con i principi che hanno accompagnato l’Europa nel suo lungo e storico glorioso passato. La Rottamazione del principio della parità del bilancio provocata da Renzi offre una occasione unica. Se non venisse colta, è improbabile che si ripresenti».

Uno sfregio respinto resta uno sfregio

Stefano Menichini 
Europa  
L'audizione al Quirinale conferma la statura di Napolitano e la sua distanza da ogni sospetto. Ma servirà lo stesso per proseguire nella campagna di delegittimazione da parte del fronte trasversale politico-giornalistico.
La testimonianza di Giorgio Napolitano s’è svolta nell’unico modo prevedibile: con grande disponibilità da parte del capo dello stato, il riconoscimento e la tutela che gli è dovuta da parte di giudici, procuratori e avvocati, e un sostanziale nulla di nuovo sul piano della ricostruzione processuale.
Quest’ultimo punto verrà fuori con evidenza solo quando i verbali saranno resi pubblici. Il prima possibile, secondo la sollecitazione del Quirinale. Comunque prima, si spera, di essere passati al Fatto quotidiano.
Già dai commenti del procuratore Teresi s’è capito che i teorici della trattativa tra mafia e Stato canteranno in ogni caso vittoria. A quanto pare, gli basta che ieri Napolitano abbia espresso valutazioni di mero buon senso sulla strategia stragista del ’92-’93. In realtà non c’era bisogno di essere ai vertici delle istituzioni, per cogliere da subito il carattere ricattatorio della svolta di Riina: era un’analisi che si poteva leggere su qualsiasi giornale. Viceversa, l’accusa (e sicuramente i suoi supporters a mezzo stampa) ricaveranno dall’ovvia constatazione fatta da Napolitano la conferma che intorno alle stragi si intrecciarono relazioni occulte tra cosche e vertici dello Stato.
Del resto i teoremi si reggono così, collegando fra loro dati oggettivi in modo che risultino frammenti di un disegno in realtà costruito totalmente ex post.
Per questo alla vigilia s’è parlato di sfregio tentato al capo dello stato: perché qualsiasi cosa egli avesse detto ieri – e ancor di più se si fosse rifiutato di rispondere a qualche domanda, come pure era legittimato a fare – si sarebbe trovato il modo di gettare un’ombra sul suo ruolo remoto e recente. Cioè esattamente ciò che accadrà da oggi nel circuito politico-giornalistico dei nemici dichiarati del presidente: è già partita la canea dei meno alfabetizzati tra i deputati grillini.
Che Napolitano abbia accettato di rispondere a ogni domanda, e che sia ora il più interessato a dare pubblicità alla deposizione, vale come conferma della statura della persona, del suo rispetto per la legge e della distanza da ogni sospetto.
Non che ce ne fosse bisogno. Lo sfregio però rimane, anche se solo tentato. Serve a ricordarci che è ancora attivo il partito trasversale di chi non vuole far uscire l’Italia dallo stato d’emergenza e dal clima di delegittimazione di tutto ciò che tiene insieme il paese.

UN PRECEDENTE ASSAI SPIACEVOLE.


Corriere della Sera 29/10/14
corriere.it
Ieri è entrato in scena il Precedente. Ossia un fatto istituzionale mai avvenuto prima, che però da qui in avanti potrà replicarsi all’infinito. È la grammatica delle democrazie, intessute di regole scritte e d’interpretazioni iscritte nella storia. E il Quirinale non fa certo eccezione. Anzi: ogni presidente è un precedente per chi viene dopo, ciascuno consegna al successore un capitale d’esperienze diverso da quello che lui stesso aveva ricevuto. Nel luglio 2012 Napolitano sollevò un conflitto contro i magistrati di Palermo, dinanzi ai quali ora ha accettato di deporre. In quell’occasione citò Luigi Einaudi, per ribadire l’esigenza che nessun precedente alteri il lascito del Colle. Esigenza giusta, ma al contempo errata. Per soddisfarla a pieno, dovremmo fermare l’orologio. 

Da qui la lezione che ci impartisce la vicenda. Napolitano avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare, come ha ammesso la stessa Corte di Palermo. Poteva farlo perché l’articolo 205 del codice di rito configura la sua testimonianza su base volontaria, escludendo qualsiasi mezzo coercitivo. Bastava dire no, e anche il diniego avrebbe offerto un precedente. Invece ha detto sì. E ha fatto bene: chi non ha nulla da nascondere non deve mai nascondersi. Ecco perché lascia un retrogusto amaro la decisione di tenere l’udienza a porte chiuse. Forse la diretta tv avrebbe compromesso il prestigio delle nostre istituzioni. O forse no: dopotutto nel 1998 la testimonianza di Bill Clinton sul caso Lewinsky si consumò a reti unificate. In ogni caso era possibile esplorare una via di mezzo, magari una trasmissione radiofonica, magari un resoconto dalla stampa accreditata.

Perché la qualità del precedente si misura dalla sua ragionevolezza. Dipende perciò dall’attitudine a comporre istanze contrapposte, forgiando un modello cui potrà attingersi in futuro. Specie quando ogni istanza rifletta un valore costituzionale, come succede in questo caso: l’autonomia della magistratura; il diritto di difesa, che vale pure per Riina; il riserbo sulle attività informali del capo dello Stato. Ma c’è ragionevolezza nel processo di Palermo?


A osservare l’aggressività dei pm, parrebbe di no; non a caso quel processo ha già innescato un conflitto fra poteri. A valutare talune decisioni del collegio giudicante, parrebbe di sì: per esempio la scelta di non ammettere in videoconferenza i boss mafiosi nel palazzo che rappresenta la Repubblica, bensì soltanto i loro difensori. E quanto è stato ragionevole l’esame testimoniale? Non lo sappiamo, bisogna attendere la diffusione del verbale. Nel frattempo girano versioni contrastanti, i presenti rilasciano interviste, le interviste inondano i tg. Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci.

lunedì 27 ottobre 2014

L'ULTIMA LETTERA DI REYHANEH JABBARI


“Madre, non piangere accuserò i giudici al tribunale di Dio e ora dona i miei occhi” 

L’ultima lettera, pubblicata su Huffington Post, che Reyahneh Jabbari, impiccata a 26 anni per aver ucciso il suo stupratore, ha scritto a sua madre Sholeh. 

Cara madre, 
oggi ho appreso che ora è il mio turno di affrontare la Qisas ( la legge del taglione del regime iraniano, ndr). Mi ferisce che tu stessa non mi abbia fatto sapere che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non credi avrei dovuto saperlo? Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà?
Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella orribile notte io avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che noi non siamo ricchi e potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita soffrendo e vergognandoti e qualche anno dopo saresti morta per questa sofferenza e sarebbe andata così.
Ma con quel maledetto colpo la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da qualche parte ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. E ora nella prigione-tomba di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti. Tu sai bene che la morte non è la fine della vita. Tu mi hai insegnato che si arriva in questo mondo per fare esperienza e imparare la lezione e che a ognuno che nasce viene messa una responsabilità sulle spalle. Ho imparato che a volte bisogna lottare.
Tu ci hai insegnato, quando andavamo a scuola, che si deve essere una signora di fronte alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto notavi il modo in cui ci comportavamo? La tua esperienza era sbagliata. Essere presentabile in tribunale mi ha fatto apparire come un’assassina a sangue freddo. Non ho versato lacrime. Non ho implorato. Non mi sono disperata, perché avevo fiducia nella legge. Ma sono stata accusata di rimanere indifferente di fronte ad un crimine. Lo sai, non uccidevo neanche le zanzare e gettavo via gli scarafaggi prendendoli dalle antenne e ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato come un comportamento mascolino e il giudice non si è neanche preoccupato di tenere in considerazione il fatto che all’epoca dell’incidente avevo le unghie lunghe e laccate. Quant’è ottimista colui che si aspetta giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai contestato il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, specialmente un pugile. E questo paese per il quale tu hai piantato l’amore in me, non mi ha mai voluto e nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo i termini più volgari. Quando ho perduto il mio ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni in isolamento.
Cara mamma, non piangere per ciò che stai sentendo. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia una vecchia agente zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non viene ricercata in quest’epoca. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e della visione e persino la bellezza di una voce dolce.
Le mie parole sono eterne e le affido tutte a qualcun altro, in modo che quando verrò giustiziata senza la tua presenza e senza che tu lo sappia, ti vengano consegnate. Ti lascio molto parole scritte a mano come mia eredità.
Però, prima della mia morte voglio qualcosa da te, qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo paese e da te. So che avrai bisogno di tempo per questo. Ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Mia dolce madre, l’unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via.
Il mondo non ci ama. Non ha voluto che si compisse il mio destino. E ora mi arrendo ad esso ed abbraccio la morte. Perché di fronte al tribunale di Dio io accuserò gli ispettori, accuserò il giudice e i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato mentre ero sveglia e non hanno smesso di minacciarmi. Nel tribunale del creatore accuserò tutti coloro che per ignoranza e con le loro bugie mi hanno fatto del male ed hanno calpestato i mie diritti e non hanno prestato attenzione al fatto che a volte ciò che sembra vero è molto diverso dalla realtà.
Cara Sholeh dal cuore tenero, nell’altro mondo siamo tu ed io gli accusatori e gli altri gli accusati. Vediamo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.
Reyahneh

Giustizia civile, fiducia sul decreto 
C’è anche il divorzio «fai da te».


Corriere della Sera 23/10/1
Virginia Piccolillo
Divorzio «fast» per le coppie senza figli, ma percorso facilitato anche per quelle che hanno figli minori o portatori di handicap, ma con l’assenso del procuratore della Repubblica. Sono queste le principali novità del maxiemendamento del governo sul processo civile, sul quale il governo ha posto la fiducia, causando nuove tensioni dopo quelle registrate sulla responsabilità civile dei magistrati. Stavolta in trincea c’è Forza Italia: «Il governo non ha alcun rispetto per il Senato», accusa Francesco Nitto Palma. Mentre l’Anm, che nei giorni scorsi ha criticato il testo, non commenta: «È una scelta politica».

Le coppie senza figli che intendono separarsi o divorziare trovano un accordo davanti all’avvocato e poi l’atto viene trasmesso all’ufficiale di stato civile, ma non senza un passaggio dal procuratore della Repubblica che, se non ravvisa irregolarità, concede il nulla osta. In presenza di figli minori, disabili o non autosufficienti economicamente, il provvedimento deve invece essere trasmesso entro dieci giorni al procuratore della Repubblica che lo autorizza se risponde all’interesse dei figli. In caso contrario lo stesso procuratore dovrà trasmettere l’atto entro 5 giorni al presidente del Tribunale, che a sua volta entro 30 giorni fisserà la comparizione delle parti. «Non c’è nessuna scelta di alterare il percorso con cui si arriva al divorzio», ha spiegato il ministro, ma di alleviare il peso della giurisdizione da atti amministrativi.

Nel provvedimento, vengono ripristinati i giudici di pace di Ostia e di Barra. Resta il taglio delle ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni e la definizione del periodo feriale per i tribunali, dal 1 al 31 agosto. «È il primo passo nella riforma della giustizia. Dopo 20 anni in cui si discute quasi sempre di penale viene affrontata partendo dal civile», ha rivendicato il ministro Orlando. Precisando che questa norma serve solo «a bonificare il campo» per la legge delega «che sarà incardinata al più presto».

Resta, nel testo, anche la negoziazione assistita. Prevede che le parti possano risolvere la controversia, esclusi i diritti indisponibili, di fronte ad avvocati. Il tentativo è obbligatorio, prima di andare dal giudice per il risarcimento danni da circolazione stradale e le domande di pagamento di somme entro i 50mila euro. Con tempi che non possono essere inferiori ad un mese e superiori a 4, prorogabili per non più di due mesi.

Per i procedimenti in Tribunale e in Corte d’Appello, tranne quelli sui diritti indisponibili, (lavoro, previdenza e assistenza sociale) è previsto anche l’arbitrato. Il giudice trasmette il fascicolo al presidente del Consiglio dell’Ordine forense circondariale per la nomina di uno o più arbitri individuati tra gli avvocati che seguiranno il procedimento. Il lodo ha valore di sentenza.

A chi la definisce una «privatizzazione» della Giustizia il ministro ha replicato: «La vera privatizzazione è quella che si viene a determinare nel momento in cui una causa dura 11, 12, 13 anni e inevitabilmente, soccombe la parte più debole».




Dilma Rousseff e Ignacio Lula

La candidata di sinistra ottiene il secondo mandato in uno dei voti più combattuti della storia recente del Brasile: 51,6 contro il 48,3 di Neves.

Brasile

Il Brasile sceglie ancora Dilma Rousseff: rieletta presidente. La candidata di sinistra ottiene il secondo mandato in uno dei voti più combattuti della storia recente del Brasile: 51,6 contro il 48,3 di Neves.

Questo è il tempo


Laura Venturi 

La storia politica è prima di tutto la storia di un’idea che nasce e si incarna, si confronta, combatte, si arricchisce e si precisa nel contrasto ma cresce e, anche se sconfitta, riprende la sua strada, ritorna e vince quando ha diritto di vincere per il consenso che matura e per la speranza che suscita. Mino Martinazzoli (1931-2011)
Il partito che vorrei è il partito che ho scelto come comunità di appartenenza, come luogo all’interno del quale confrontarmi, discutere, elaborare idee, prendere decisioni e assumere responsabilità.
Scegliere di appartenere ad un partito, e farlo a quarant’anni da “nativa democratica”, mi ha fatto capire fin dal primo giorno l’importanza di mantenere i piedi nel presente, lo sguardo proiettato al futuro ma il pensiero ben ancorato e consapevole del passato.
Esigenza molto difficile da realizzare in un partito che invece di fare sintesi delle passate esperienza le ha troppo spesso usate come trincee dietro le quali perpetrare antiche battaglie e mai sopiti rancori.
Eppure la vera sfida è rappresentata proprio dalla fusione delle diverse esperienze, conoscenze e percorsi per raggiungere un pensiero che sia contemporaneamente attuale ed innovativo ma anche portatore di un vissuto profondo.
Una fusione “calda” rispetto alla troppo spesso citata “fusione a freddo” avvenuta nel PD: una sintesi che vive e si nutre sulle storie personali delle donne e degli uomini che sono ancora disposti a investire un pezzo della loro vita e a mettere a disposizione un po’ del loro tempo per la costruzione di un progetto comune.
I partiti che hanno fatto la storia del nostro paese, e che hanno segnato la vita anche di coloro che non vi aderivano, erano a forte connotazione identitaria, non tanto e non solo rispetto ai leader ma rispetto alle idee e alla visione che portavano con sé.
Erano partiti che nascevano da un’idea di comunità di appartenenza anche se spesso gli iscritti erano rinchiusi in una visione del mondo fortemente caratterizzata dalla contrapposizione tra “noi” e “loro”.
Ricordo da bambina lo zio Primo (“primo” perché nato l’1 gennaio 1932), operaio, comunista, ateo come l’esempio di un “nemico-buono” il cui essere comunista non era solo una scelta ragionata ma un percorso naturale di appartenenza.
Questa visione di un mondo spezzato tra “noi” e “loro” ha segnato un tempo dominato dalla guerra fredda, da blocchi contrapposti e da un muro che divideva non solo la città di Berlino ma la vita di milioni di donne e di uomini.
Sono passati venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino e oltre vent’anni dalla fine del PCI e della DC, e oggi ci interroghiamo sulla “forma partito”, in un dibattito che porta al suo interno due estremi ai quali si colloca, da una parte, il “partito on-line” sul modello pentastellato, di fatto una piattaforma virtuale e, dall’altra, il “partito-ditta”, inteso come comunità di appartenenza e di destino.
In mezzo ci siamo noi, gli iscritti, i simpatizzanti, gli elettori e le tante cittadine e cittadini che sempre più spesso subiscono la tentazione di assistere allo “spettacolo della politica” seduti davanti allo schermo del televisore o del pc, lasciando ad altri l’onere delle scelte e delegando in questo modo la partecipazione attiva agli “eletti”.
Personalmente credo che la politica, intesa come l'arte di governare la società o, per usare le parole impegnative ma illuminanti di Paolo VI, come “la forma più alta della carità”, non possa prescindere dai luoghi, dai volti e dalle voci, dai simboli che servono a dare e a rinforzare il senso di appartenenza.
E soprattutto non possa prescindere dalla partecipazione attiva di donne e degli uomini che insieme si riconoscono in un progetto comune, da una crescita in cui si mescolano l’esperienza e la competenza dei “padri” all’energia e alla voglia di cambiamento dei “figli”, in un percorso di costruzione e condivisione, fatto anche di discussione e di critica ma sempre nel profondo rispetto delle altrui opinioni.
La discussione sulla forma partito non può perciò prescindere dalla necessità di ricominciare a formare e a selezionare classe dirigente, di individuare luoghi, metodi e percorsi per crescere insieme e per far crescere i giovani, con un “passaggio del testimone” dai padri ai figli che veda gli uni, i “padri”, capaci di gesti di umiltà e di responsabilità nel cedere il passo alle nuove generazioni ma che veda gli altri, i “figli”, capaci di far tesoro degli insegnamenti, di apprendere dal passato per elaborare nuove idee sul futuro.
Penso serva, prima ancora di una riflessione sulla forma partito, o meglio parallelamente, una seria riflessione su come creare (o ricreare?) delle vere “scuole di democrazia” nelle quali confrontarsi fuori dai recinti dei talk show, dei tweet e dei “mi piace” per tornare finalmente a discutere di Politica.
Il partito intorno al quale concentrare le nostre riflessioni e i nostri sforzi deve rimettere al centro le iscritte e gli iscritti, valorizzare le loro idee, competenze, esperienze, ascoltare i territori di provenienza e insieme a loro costruire percorsi di rinnovamento profondo che parta dagli ambiti locali per coinvolgere poi tutti i livelli in una ricostruzione dal basso, dalle fondamenta, dalle radici.
Dobbiamo ritrovare il senso di appartenenza a un comune destino se vogliamo contribuire a cambiare davvero l’Italia in modo radicale e profondo. E per fare questo serve una visione al tempo stesso caritatevole ma profondamente laica del bene comune, nel rispetto delle differenze e nella convinzione del diritto di tutti ad avere diritti, ad essere rappresentati e a sentirsi parte di una comunità.
Il partito nel quale desidero continuare a sentirmi a casa lo voglio simile a una quercia, con i rami proiettati verso il cielo, inteso come futuro, ma con le radici ben piantate nel terreno e da questo alimentate.
Conosco la tentazione del “partito-ninfea”, fiore affascinante e profumato, bello quanto però fragile proprio perché privo di profondità, tentazione sempre più strisciante in un tempo nel quale velocità e apparenza sembrano dominare su tutto, ma proprio in questa diversa visione tra superficie e apparenza, e tra radici e appartenenza, ci giochiamo non tanto e non solo l’idea di partito ma la stessa nostra idea di futuro.



Leopolda-San Giovanni, un cruciale scontro politico. Non di civiltà

Stefano Menichini 
Europa  
È Renzi che rimarca la portata politica dello scontro che si aperto con la Cgil. Cerca il momento-Blair ma non gli converrà scivolare in battaglia identitaria. E nonostante le stupidaggini sulla sparizione del Pd, è proprio il partito la posta in palio, a quasi un anno dalle primarie.
Altri, al posto di Matteo Renzi, avrebbero fatto diversamente. Non sarebbe stato difficile. Mostrare verso la piazza della Cgil tutto il rispetto necessario, sottolineare l’autonomia reciproca tra sindacati e partiti, formulare qualche considerazione sull’importanza del Jobs Act e anche al limite dell’abolizione dell’articolo 18, lasciare o meno spiragli in vista del confronto tra governo e confederazioni che riprenderà oggi nella famosa sala Verde di palazzo Chigi. In breve: attutire per quanto possibile l’impatto del confronto a distanza tra San Giovanni e Leopolda, tirando diritto sulla riforma del mercato del lavoro senza rinfocolare le polemiche.
Non si può dire che Renzi abbia rinfocolato. Ma certo il suo modo di mostrare rispetto verso la piazza sindacale è stato davvero peculiare: l’ha caricata di significato e valore politico; ha marcato ogni differenza; ha enfatizzato la polarità tra Roma e Firenze; di più ancora, ha fissato a sabato 25 ottobre 2014 la data di inizio di un conflitto politico che, per sua ammissione anzi sollecitazione, potrebbe finire in qualsiasi modo, anche con una scissione del Pd e la nascita di nuove formazioni politiche.
Non è un’ipotesi probabile, almeno non finché la parabola elettorale di Renzi rimane ad alta quota, tant’è vero che tutti gli eventuali interessati si sono precipitati a escludere l’eventualità. Ma anche senza considerare l’esito estremo, nel mezzo rimane la volontà del segretario-premier di condurre lo scontro fino in fondo.
È evidente che Renzi si sente in pieno momento-Blair. Cioè vede l’occasione e avverte la necessità di suggellare, rendere evidente, plateale, se possibile definitiva la vittoria della sinistra modernizzatrice che ha in mente lui, contro la sinistra della tradizione che cerca di schiacciare sulle caricature dell’iPhone a gettone e della macchina fotografica digitale con il rullino. Che questa fosse l’intenzione s’era capito fin da quando l’abolizione dell’articolo 18 aveva ripreso importanza dopo esser stata a lungo definita irrilevante. A cose fatte, raccontando in futuro questa vicenda, gli storici la descriveranno probabilmente come una provocazione politica nella quale la sinistra sindacale e para-sindacale è caduta in pieno.
In questo momento i rapporti di forza sono definiti, la vittoria è a portata di mano di Renzi. Solo se però rimaniamo sul piano strettamente politico, e se misuriamo il consenso nel paese e all’interno del Pd sulle riforme economiche. Perché su un altro piano Renzi rischia qualcosa di più.
San Giovanni è stata una manifestazione contro la linea del governo sul tema del lavoro (non contro il governo, non contro tutte le cose che fa, e secondo diversi cronisti neanche contro Renzi, almeno in molti partecipanti), e su questo terreno forse perderà. Ma è stata anche – forse soprattutto – una manifestazione di identità. E qui il segretario-premier deve stare attento, o meglio deve decidere: quell’identità sarà residuale e minoritaria ma nel Pd la rispettano tutti, anche quelli che la sentono lontana. È un’identità costitutiva della sinistra italiana, anzi della sinistra europea. Contiene un’istanza di giustizia e di difesa dei derelitti che è del tutto sproporzionata alle capacità dell’apparato sindacale di incarnarla, e che però non può neanche accontentarsi di essere declamata nei collegamenti esterni dei talk show televisivi.
Nella sua giustificatissima battaglia contro i ritardi e le ossificazioni della sinistra tradizionale, Renzi deve stare attento a non risvegliare il conflitto identitario, perché naturalmente potrebbe vincere anche a questo livello, a costo però di mettere in discussione il Pd e il proprio più grande successo da segretario: aver reso questo partito una casa aperta e ospitale per molti, se non addirittura potenzialmente per tutti.
Le polemiche che provano a contrapporre gli imprenditori del palco della Leopolda agli operai cassintegrati sono paccottiglia propagandistica, una roba da estremismo anni ’70 che denuncia solo un drammatico impoverimento di cultura politica. Gli italiani sono molto oltre tutto ciò, e su queste miserie Renzi fa bene a marciare con gli scarponi chiodati. Oltre tutto, è stato proprio un manager, Andrea Guerra, resuscitando peraltro il termine “padroni”, a ricordare quanta colpa abbiano questi ultimi nella crisi del paese: insomma, a meno di non volerla ridurre alle personalissime opinioni di Davide Serra, la Leopolda ha le carte in regola per dirsi dalla parte delle vittime della recessione. Con la differenza, cruciale rispetto ai tic della sinistra, di non dare mai spazio al vittimismo ma di voler illuminare le strade di un riscatto anche individuale, conquistato grazie a merito e creatività.
Questa capacità di interpretare la sofferenza dandole una prospettiva di emancipazione concreta, non delegata alle ideologie, è una forza della presenza di Renzi sulla scena. Per questo lui non avrà alcun interesse a farsi risucchiare in una resa dei conti identitaria, e terrà lo scontro con la ricomposta diarchia Camusso-Landini sul piano dell’efficacia delle misure del governo.
L’ultima annotazione da fare a proposito dell’impatto del sabato romano-fiorentino riguarda il Pd.
È davvero bizzarro che tanti abbiano raccontato e commentato il confronto a distanza come un unico evento nel quale sprofondava e spariva il Partito democratico. Evidentemente lo spin proposto alla vigilia da Rosy Bindi ha trovato degli adepti convinti, e hanno fatto breccia le tante chiacchiere sul partito della Nazione che resuscita il centrismo, o sull’assenza di bandiere da una parte o dall’altra (incredibile, c’è ancora un giornalismo che si appassiona per queste cose).
In realtà in questo fine settimana è accaduto esattamente il contrario, come s’è capito nel passaggio più clamoroso (e applaudito) del discorso conclusivo a Firenze. È stato di nuovo messo il Pd, questo Pd, come posta in palio.
Il discorso di Firenze ha ricordato che prima e oltre dell’opinione liquida degli italiani, Matteo Renzi ha conquistato il partito. E che se lo tiene stretto. Chiede ai leopoldini più trasversali di entrarci. Di fare la tessera. Di imitare Andrea Romano e Gennaro Migliore. Sicché la bordata più micidiale che tira ai suoi avversari non è generica, ma molto mirata: non permetteremo al vecchio gruppo dirigente di riprendersi un partito del 40 per cento per riportarlo al 25.
Attenzione allora, perché chi vuole contrastare Renzi ricade nell’errore che gli è già stato fatale: lo tratta da estraneo e usurpatore, senza capire che invece ormai lui è l’incarnazione più forte proprio dell’orgoglio di bandiera, anche quando le bandiere non ci sono. Sicché alla fine sono i sedicenti partitisti a ritagliarsi quel ruolo anti-partito che da sempre suscita tra i militanti fastidio, insofferenza, condanna.
Tra poco sarà trascorso un anno dalle primarie che consegnarono il Pd a Matteo Renzi. Sembra un secolo fa, pare di vivere in un altro paese, invece sono passati meno di dodici mesi. E a quanto pare c’è ancora chi non ha capito bene che cosa sia successo.