ROBERTO MANIA
Il Corriere della Sera 29 dicembre 2014
«Stiamo ragionando su come rendere più
flessibile l’età del pensionamento. Ma serve cautela per gli
effetti sui conti pubblici e per non incrinare la credibilità che
l’Italia ha costruito proprio grazie alla riforma previdenziale »,
dice una fonte autorevole del governo. Dunque il capitolo delle
pensioni si sta riaprendo ed è in vari modi collegato a quello del
Jobs Act.
L’obiettivo è duplice: da una parte,
correggere le rigidità della riforma Fornero del 2011 sull’età
pensionabile per bloccare definitivamente il fenomeno degli esodati;
dall’altra consentire ai giovani di subentrare ai più anziani nei
posti di lavoro. Perché il mercato del lavoro si sta
cristallizzando. Lo certifica l’Istat nell’ultima rilevazione
(terzo trimestre del 2014) sugli occupati e disoccupati: «Continua
la forte riduzione su base annua delle persone ritirate dal lavoro o
non interessate a lavorare (—11,8 per cento, pari a — 429 mila
unità) che in quasi nove casi su dieci coinvolge i 55-64enni, anche
a motivo delle mancate uscite dall’occupazione generale
dall’inasprimento dei requisiti per accedere alla pen- sione». I
lavoratori maturi possono andare in quiescenza più tardi
(attualmente con un minimo di 20 anni di versamenti servono 66 anni e
3 mesi per gli uomini e 63 e 9 mesi per le donne) e per i più
giovani, tanto più in una fase così lunga di recessione, le
opportunità diventano sempre meno.
Il primo segnale della nuova strategia
del governo è arrivato con la legge di Stabilità: via le
penalizzazioni (cioè il taglio dell’assegno pensionistico) per chi
decide di andare in pensione dopo aver versato per 42 anni e un mese
i contributi all’Inps senza aver ancora compiuto i 62 anni di età.
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha chiesto però prudenza
ai ministri competenti. Nessuno osa pronunciare la parola pensioni.
Lo stesso premier ieri in un’intervista al Quotidiano nazionale ha
negato la possibilità di un nuovo intervento sulla previdenza. Per
quanto, questa volta, l’operazione non si tradurrebbe, salvo alcuni
casi, in tagli.
Il cantiere si è aperto. Si tratta di
ripristinare un minimo di criteri flessibili per andare in pensione,
soprattutto a tutela dei lavoratori più anziani che dovessero
perdere l’occupazione e che si troverebbero senza stipendio, senza
sostegno al reddito dopo un po’ e troppo lontani dalla pensione. Si
ragiona su alcune opzio- ni compatibili con l’impianto generale
della legge Fornero senza compromettere cioè i risparmi attesi (in
un decennio circa 80 miliardi di euro). Così riprende quota la
proposta di concedere ai lavoratori prossimi alla pensione (a 2-3
anni di distanza) che dovessero essere licenziati, un anticipo di una
quota dell’assegno pensionistico (pari a circa 700 euro al mese)
che verrebbe poi restituita in piccole rate una volta maturati i
requisiti per il pensionamento. Ipotesi che nel passato aveva
sostenuto anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti e che
costerebbe non più di 4-500 milioni l’anno.
Escluso, perché troppo costoso
(nell’ordine di 5 miliardi l’anno) l’introduzione di un
meccanismo generale di uscita anticipata con penalizzazioni, è
invece sul tavolo la proposta (che non dispiacerebbe all’Economia)
del consigliere economico di Palazzo Chigi Yoram Gutgeld di
consentire — come ha spiegato ieri in un’intervista a Repubblica
— di ricalcolare l’assegno pensionistico esclusivamente con il
metodo contributivo di quei lavoratori ultracinquantenni rimasti
senza lavoro. In cambio della certezza della pensione accetterebbero
una decurtazione significativa dell’importo.
Il governo ha anche allo studio un
intervento per superare alcune disparità che permangono nel calcolo
della pensione tra pubblici dipendenti e privati. La quota
retributiva, infatti, della pensione dei dipendenti pubblici (la
legge Fornero ha introdotto il contributivo pro-rata) è ancora
determinata sulla base dell’ultimo stipendio e non della media,
come nel privato, delle retribuzioni degli ultimi cinque anni. E qui,
il governo, dovrà vedersela con le resistenze che arrivano dagli
alti burocrati ministeriali che sono, appunto, dipendenti della
pubblica amministrazione.
C’è poi la parte che riguarda la
riforma della governance dell’Inps. Dopo la nomina di Tito Boeri a
presidente, il governo punta ad approvare in tempi rapidi (in
Parlamento c’è una sostanziale convergenza) la riforma del governo
dell’Istituto previdenziale. Verrebbe ripristinato il Consiglio di
amministrazione e ridimensionata la composizione del Consiglio di
indirizzo e vigilanza dove siedono i rappresentanti delle parti
sociali. Oltre a Boeri, nel futuro cda (tre i membri previsti) è
candidato a entrare l’economista Mauro Marè, sostenuto dal
ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, mentre la terza poltrona
dovrebbe essere destinata a una donna.
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