Corriere della Sera 27/12/14
Dario Di Vico
Una cosa va detta subito: al di là
delle opposte valutazioni politiche di queste ore il Jobs act non
appare come «la» riforma del lavoro, casomai ne è il primo atto. E
non solo perché mancano almeno altri importanti decreti attuativi ma
perché le amnesie che il governo ha mostrato su altri due capitoli
(le partite Iva e Garanzia Giovani) dimostrano che Matteo Renzi e i
suoi non hanno ancora maturato una visione complessiva dei mutamenti
che stanno attraversando l’economia e dei riflessi immediati che
hanno sul lavoro moderno.
Il cammino è lungo, bisogna operare in
corsa e nel mondo politico-sindacale non c’è quella serenità di
giudizio di cui ci sarebbe bisogno ma nonostante tutto ciò si può
fare sicuramente di più.
In materia di pensioni la legge
Fornero era stata più radicale e aveva spiazzato il sindacato, sul
Jobs act abbiamo assistito a una guerriglia parlamentare e a uno
sciopero generale che sono serviti entrambi a poco e hanno solo
contribuito ad aumentare la confusione. Il risultato comunque è che
grazie a un «mezzo strappo» le imprese hanno più strumenti di
prima per gestire le assunzioni e creare i presupposti di una loro
politica del lavoro attenta alla redditività, ma al tempo stesso
capace di fare dei propri dipendenti un elemento del successo
aziendale. Non sto raccontando favole: càpita già così in molte
nostre imprese (oserei dire le migliori) e sono diverse le
multinazionali che mostrano di credere nel lavoro italiano.
Il
2015 che si sta per aprire è cruciale per il nostro sistema
industriale, da una parte siamo chiamati a triplicare il numero delle
nostre imprese che esportano stabilmente, dall’altra sul mercato
interno dovremo trovare il modo di aggregare le piccole imprese,
rafforzare la specializzazione dei distretti, integrare le filiere,
riprendere una riflessione sulla qualità di un terziario troppo
spesso considerato residuale.
Personalmente non credo che il
governo abbia con il Jobs act fotocopiato i documenti della
Confindustria, anzi penso che l’elaborazione sulla flexsecurity sia
partita da alcuni esponenti riformisti come gli Ichino, i Sacconi, i
Boeri e poi sia riuscita ad aprire una breccia in un campo
industriale che si era attardato a ragionare solo o prevalentemente
in termini di costo del lavoro.
Ma ora la parola deve passare
alle imprese, non perché — come ha detto qualche ministro —
«sono caduti gli alibi» ma semplicemente perché senza nuove idee,
progetti, soluzioni innovative di business l’occupazione non potrà
crescere.
Nel frattempo però il cantiere della riforma del
lavoro non può chiudere. La vicenda delle partite Iva non è
limitata alle sole emergenze degli esosi contributi previdenziali e
di un regime dei minimi fiscali che non incentiva a crescere, occorre
una riflessione più ampia sul contributo che il lavoro autonomo
moderno può dare allo sviluppo.
In molte professioni cadono i
muri tra occupazione dipendente e freelance, le nuove imprese quasi
sempre partono da un professore universitario, da un neoingegnere o
da una giovane biologa.
Vogliamo coinvolgerli nella rinascita del
Paese o lasciarli emigrare?
L’ultimo impegno riguarda i
giovani disoccupati. Il premier Matteo Renzi nelle sue numerose
interviste non ha mai pronunciato l’espressione «Garanzia
Giovani». Non deve essere casuale.
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