martedì 2 dicembre 2014

La tregua è apparente Ma solo i due civatiani diranno no al Jobs act.


Corriere della Sera 02/12/14
Monica Guerzoni
Per dire che il mondo va cambiato e non solo interpretato, Renzi ha citato Marx. Ma non ha convinto la sinistra del suo partito. La tregua è apparente, la minoranza pd non rinuncia a criticare il leader. E adesso che il patto del Nazareno è incrinato, l’opposizione interna chiede di riscrivere le regole del gioco. Fassina, Cuperlo, Bindi e compagni vogliono che i nominati spariscano del tutto dalla legge elettorale e chiedono modifiche alla riforma del Senato, che invece Palazzo Chigi considera blindata. E se domani i dissidenti voteranno il Jobs act a Palazzo Madama, sarà solo per non far cadere il governo.

A sera, quando la direzione nazionale vota l’ordine del giorno pensato dal Nazareno per ricompattare il partito sulle riforme, l’ala dura si smarca. Gli esponenti della sinistra lasciano la sala all’ultimo piano, mentre due civatiani votano contro. Ancora uno strappo, per marcare la distanza dalle politiche del premier. «Riunione surreale — commenta Alfredo D’Attorre —. Per lanciare un messaggio a Berlusconi ci viene proposto di votare le riforme come le vuole Berlusconi. È una contraddizione». Ancora una volta la minoranza di Area riformista si divide, con i membri del parlamentino vicini a Speranza che votano a favore. Il leader assiste seccato alla scena in cui Cuperlo, Zoggia, D’Attorre, Pollastrini, Agostini, Fassina, Boccia e Miotto escono alla spicciolata, inseguiti dai commenti velenosi dei renziani che li accusano di sabotare le riforme. Ma i dissidenti assicurano che l’intento è costruttivo: migliorare l’Italicum e salvare la Costituzione.

La sinistra boccia una analisi del voto che giudica «consolatoria», accusando il segretario di «minimizzare». Per Cuperlo «il divorzio dalle urne di un numero così alto di elettori non è un accidente secondario» slegato dalle scelte di governo. Ma il punto nevralgico è la legge elettorale. Fassina invoca il «superamento pieno delle liste bloccate» e sprona Renzi a «chiarire il quadro politico», visto che i rapporti con Berlusconi sono cambiati: «Che senso ha un odg sui tempi delle riforme quando non è chiaro il contesto politico?». E se Renzi ha detto che l’astensionismo non nasce dal Jobs act, l’ex viceministro attacca: «Larga parte del nostro mondo non vede nella delega un avanzamento su diritti e tutele».

I civatiani Mineo e Ricchiuti non voteranno il provvedimento, sottraendo (pochi) ma preziosi voti al governo. Il dissenso non dovrebbe andare oltre. Casson sembra orientato a votare e Tocci ha firmato il documento con cui 7 bersaniani hanno chiesto di poter discutere dei nodi ancora aperti, per non lacerare il Pd. Civati teme che sia il preludio a un sì e polemizza con le altre anime della minoranza. Ma il senatore Fornaro, che ha promosso il documento e si appresta a scriverne un altro assieme a Cecilia Guerra, aspetta il pronunciamento del governo: «Saremo responsabili anche in caso di fiducia, però non si abusi della nostra responsabilità». E Boccia teme che gli «effetti distorsivi del Jobs act provochino conflitti sociali». L’ultimo affondo è l’ordine del giorno di Zoggia per «promuovere una diffusa campagna d’ascolto» della base: il primo passo verso una conferenza programmatica in cui si discuta di statuto e natura del Pd. Il presidente Orfini ha disinnescato la miccia, accogliendo l’ordine del giorno. Civati non ha firmato e ironizza: «È un documento troppo duro».




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