Corriere della Sera 23/12/14
corriere.it
La Curia vista da Casa Santa Marta non
dev’essere un bello spettacolo: non ancora, almeno. L’antropologia
ecclesiastica che il Papa ha evocato ieri ha qualcosa di inquietante.
Le parole usate sono state sorprendenti, nella loro durezza e a
tratti perfino crudezza. Che Francesco sia costretto a parlare così
alla «sua» burocrazia a quasi due anni dall’inizio del
pontificato segnala una miscela di amarezza e di fastidio. E conferma
la difficoltà a cambiare la mentalità curiale. Le «15 malattie»
elencate davanti ai porporati «romani» suonano come atto d’accusa
contro un modo di essere del Vaticano.
Espressioni come
«alzheimer spirituale», o «terrorismo delle chiacchiere», per
quanto simili ad altre già usate in passato, danno l’idea di una
sfida ancora in atto; e tutt’altro che chiusa.
Francesco
stravince in popolarità nel mondo. Si conferma un primattore nella
diplomazia internazionale, come attesta la mediazione su Cuba tra il
presidente Usa, Barack Obama, e Raùl Castro. Ma dentro le Sacre
Mura, appena fuori dalle pareti rassicuranti e familiari della sua
residenza spartana, sembra percepire un mondo che, se non ostile,
comunque gli appare ancora in buona parte estraneo. E non gli piace.
Viene da chiedersi che cosa sia, o non sia accaduto in questi ultimi
tempi per indurre il papa argentino ad una denuncia così
radicale.
Si può rintracciare qualche indizio qui e là quando
allude ai protagonismi da prima pagina, alle ipocrisie di chi parla
dietro le spalle, o ai «traslochi» che farebbero pensare al recente
spostamento del cardinale Tarcisio Bertone nel suo chiacchierato
appartamento proprio accanto a Casa Santa Marta. Forse un accenno a
qualche parola di troppo del cardinale George Pell, «ministro
dell’Economia» vaticana, redarguito dal settimanale dei gesuiti
statunitensi America per aver straparlato di soldi in nero della
Santa Sede?
Si tratta di tracce riduttive. I toni sono talmente
forti da far pensare ad una insoddisfazione di fondo per le
resistenze che incontra la sua riforma della Curia.
Eppure, dopo
quasi due anni e molti gesti rivoluzionari, sostituzioni, creazione
di commissioni ad hoc, Francesco dovrebbe sentire di avere plasmato
la Città del Vaticano almeno un po’ a sua immagine e somiglianza.
E invece no. È come se per venti mesi avesse annusato la Roma
papalina, arrivando alla conclusione che non è riuscito a
«convertirla».
Ritorna l’eco amara della frase di un
argentino che durante il recente Sinodo confidava: «Qui rischia di
non cambiare quasi niente». Oppure, le voci su cardinali di Curia
che consigliano agli avversari di Bergoglio tentati di lasciare Roma:
«Aspetta, questa fase passerà presto». O ancora, il timore di
lasciare le riforme a metà, che il papa confessa alle persone
vicine.
In realtà, un amico venuto dall’Argentina che lo ha
incontrato di recente, lo ha visto determinato ad andare avanti più
di prima. «Non credo che si dimetterà mai», spiega. «Ma se lo
decidesse, sarà quando riterrà che le sue riforme sono
irreversibili». Il problema è che continuano ad apparire in bilico.
L’Osservatore Romano , il quotidiano della Santa Sede, ieri ha
titolato sull’«Esame di coscienza» chiesto da Francesco; e
commentato che «la Curia romana ha di fronte a tutta la Chiesa un
dovere speciale di esemplarità». A scorrere le parole papali, si
indovinano invece soprattutto cattivi esempi. E qualcuno insinua il
dubbio che Casa Santa Marta sia una scelta a doppio
taglio.
Simbolicamente, è stata ed è la rottura con l’ambiente
mefitico che ha portato alle dimissioni di Benedetto XVI nel febbraio
del 2013. Ma la «corte parallela» che al di là e contro la volontà
di Francesco tende a formarsi quotidianamente, lo aiuta o a volte
finisce per isolarlo? È una domanda terribile, che qualcuno si
comincia a porre senza trovare risposte convincenti. Certo, colpisce
ascoltare cardinali schierati apertamente con Francesco, che dopo il
discorso di auguri abrasivo di ieri ammettono di essere «stupiti»;
di cogliere in quanto ha detto Francesco un allarme superiore alla
realtà di Curia.
Probabilmente, esiste uno iato tra quanto il
Conclave e lo stesso pontefice si aspettavano con la sua elezione, e
i risultati raggiunti finora. Si intuisce tutta la difficoltà di
conciliare la sua idea di una «Chiesa in uscita» con la realtà
vaticana di una Chiesa tendenzialmente sulla difensiva, trincerata in
antiche certezze: per quanto smentite dalla storia recente. La
prospettiva che di questo passo aumentino le distanze tra il papa
latinoamericano e una parte delle gerarchie, proprio mentre cresce la
sintonia tra Francesco e le folle, non va sottovalutata.
Rimane
da capire se strigliate come quella di ieri siano un pungolo per
accelerare il cambiamento e piegare le resistenze; oppure possano
diventare un alibi per chi le combatte e cerca di usare le parole
papali con l’obiettivo di affinare e predicare la strategia del
«guarda e aspetta». Nella convinzione, non importa se sbagliata o
no, che i «quindici peccati» additati da Bergoglio siano, in gran
parte, esagerati. Da gestire e, al massimo, da correggere come
debolezze umane ineliminabili nella Roma papalina.
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