Corriere della Sera 27/12/14
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Il 13 settembre dello scorso anno uno
degli scafisti sorpresi a trasportare esseri umani nelle acque del
Mediterraneo ricevette una chiamata dall’Egitto. L’avevano appena
bloccato dopo il trasbordo di 199 migranti dalla nave più grande a
una più piccola, per farli arrivare clandestinamente in Italia. La
motovedetta della Guardia di Finanza lo stava scortando verso il
porto di Catania, a bordo della «nave madre» senza nazionalità e
con il nome cancellato, quando il telefonino del «capitano»
squillò. Era il suo capo, che dall’Egitto chiedeva notizie e dava
indicazioni per limitare i danni.
«Quando ti hanno fermato che
cosa ti hanno detto?», chiese. «Hanno detto che volevano vedere i
documenti», rispose il capitano. «Ma voi siete scappati?»: «Non
abbiamo fatto niente per farli insospettire...».
Il destino
della nave e del capitano dipendeva dalle dichiarazioni dei migranti:
«Se qualcuno ha testimoniato non ci lasciano andare — spiegò
ancora il capitano —. Vedi per un avvocato e sistema tutto».
L’altro lo rassicurò: «L’avvocato ti arriverà direttamente,
gli sto mandando dei soldi». Due ore dopo il capo richiamò e
ordinò: «Vi possono far fare il confronto, ti prego fai
attenzione... Ti scongiuro, tu e i ragazzi non li conoscete... Voi
siete venuti con il coso dalla Siria...». In realtà arrivavano
dall’Egitto, e loro erano scafisti, non migranti. Sfruttatori della
disperazione altrui, non vittime della propria. Ma la linea difensiva
doveva essere netta: «Dovete negare che li conoscete, così non
succederà un grosso problema per voi e per loro».
La terza
telefonata giunse dopo un’altra ora: «L’avvocato dovrebbe essere
all’interno del porto, gli ho trasferito i soldi da due
ore».
Queste conversazioni furono intercettate perché quello
sbarco era già il terzo in poche settimane sulle coste della Sicilia
orientale, e gli investigatori del Servizio centrale operativo della
polizia avevano messo sotto controllo alcuni numeri indicati dai
migranti. Così poterono ascoltare il colloquio tra il «capitano» e
il suo referente dall’altra parte del mare, l’organizzatore delle
traversate sulla rotta Alessandria-Siracusa, o Catania. Una persona
rimasta sconosciuta fino a poco tempo fa, quando i poliziotti e la
Procura di Catania sono riusciti ad attribuirgli nome, cognome,
indirizzo grazie alla collaborazione delle autorità del Cairo.
Si
chiama Ahmed Mohamed Farrag Hanafi, ha compiuto 32 anni a luglio, e
ufficialmente risiede nel governatorato di Kafr El Sheik, nel Nord
del Paese. Da pochi giorni è ricercato in Egitto e altrove per i
reati di associazione per delinquere finalizzata all’ingresso
illegale in Italia di profughi siriani ed egiziani. Per gli
inquirenti italiani e per quelli della sua nazione di appartenenza è
il principale trafficante di uomini sulla direttrice alternativa a
quella che dalla Libia porta a Lampedusa. Responsabile dei tre
sbarchi dello scorso anno (almeno 360 tra uomini, donne e bambini) su
cui sono scattate le indagini, e forse di molti altri, «poiché —
scrive il giudice nell’ordine di arresto trasmesso per rogatoria in
Egitto — si ha motivo di ritenere che nemmeno i reiterati arresti
di scafisti, i sequestri di ben due “navi madri” e l’arresto
del relativo equipaggio (tra cui quello del capitano intercettato al
telefono con lui, ndr ) e di alcuni basisti operanti in territorio
nazionale abbiano impedito alla stessa associazione di continuare a
lucrare, ignominiosamente, sui cosiddetti “viaggi della speranza”».
E ancora: «Le modalità e le circostanze dei fatti-reato comprovano
la spiccata pericolosità criminale di Hanafi e consentono di
ritenere probabile, già nell’immediato futuro, la reiterazione di
analoghi comportamenti delittuosi».
Le modalità operative
dell’organizzazione sono sempre le stesse, ricostruite dagli
investigatori grazie alle testimonianze dei profughi e ai riscontri
(intercettazioni comprese): «I migranti, nei loro Paesi di origine,
contattano il cosiddetto “mediatore” a cui versano un anticipo
del totale del costo del viaggio (fra i 3.000 e i 4.000 euro, ndr ).
Il saldo della somma pattuita viene versato all’arrivo nel luogo di
destinazione da familiari o conoscenti; le persone intenzionate a
espatriare illegalmente vengono poi raggruppate nei punti di raccolta
sulle coste egiziane da dove, a piccoli nuclei, vengono imbarcate su
natanti di più ridotte dimensioni manovrati da “scafisti”
(pagati poco più di 1.000 euro a viaggio, ndr ) che, raggiunto il
mare aperto, incrociano altre imbarcazioni più grandi (pescherecci)
ove vengono trasbordati. La navigazione, a questo punto, avviene
sulla cosiddetta “nave madre”, che traina la piccola imbarcazione
di origine , detta anche “barchino” o “nave figlia”. Giunti
in alto mare, a tot miglia marine in direzione delle coste siracusane
o delle province limitrofe, ma comunque sempre in acque
internazionali, i migranti vengono nuovamente trasbordati
sull’imbarcazione trainata dove ai comandi si rimettono gli
“scafisti” che, utilizzando il Gps e inserendo le coordinate
fornite, tramite un telefono satellitare, da complici sulla terra
ferma, puntano verso le coste siracusane, ove avviene lo sbarco. Una
volta sbarcati, gli scafisti non rintracciati dalle forze dell’ordine
vengono assistiti in luoghi sicuri e fatti ripartire dopo qualche
giorno dai referenti dell’organizzazione, anche in vista di un
possibile reimpiego. Qualora rintracciati dalle forze di polizia,
l’organizzazione tramite le proprie “sentinelle” si occupa di
assicurarne l’assistenza legale».
È esattamente ciò che
Hanafi ha fatto in favore dello scafista bloccato a Catania il 13
settembre 2013, trovando l’avvocato «le cui spettanze
professionali venivano infine saldate dal cassiere
dell’organizzazione»; un po’ come accade con le associazioni
mafiose o camorristiche, nei confronti dei loro affiliati. Questo
elemento è diventato uno dei pilastri delle accuse nei suoi
confronti, trasformando Hanafi nel principale ricercato egiziano per
traffico di essere umani.
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