In occasione del conferimento della
laurea honoris causa in «Comunicazione sociale e di impresa»
all'Università degli studi di Milano
don Luigi Ciotti
Non
chiamateci preti di strada. Siamo preti e basta. Ogni ulteriore
qualifica - preti antimafia, preti antidroga, ecc… - è di troppo.
Dire poi “preti di strada” non ha senso perché il Vangelo e la
strada sono inseparabili. Nella parola prete è implicita la parola
strada! «Preparate la strada del Signore» dice il Vangelo di Marco.
La strada è incontro con Dio e incontro con le persone, è la
saldatura di terra e cielo. Vivere il Vangelo non vuol dire soltanto
insegnare e osservare la dottrina. Vuol dire prima di tutto
incontrare e accogliere, avendo come unico criterio i bisogni e le
speranze delle persone. Io lo intendo così il Vangelo, e non posso
che gioire del fatto che papa Francesco abbia voluto caratterizzare
la “sua” Chiesa come una Chiesa in cammino, sulla strada, diretta
nei luoghi più poveri e dimenticati, poveri di risorse ma anche
poveri di senso, le periferie geografiche e quelle dell’anima.
«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere
uscita per le strade – ha scritto nella Evangelii Guadium – che
una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle
proprie sicurezze».
La strada maestra
Ma la strada è anche un incessante
cammino di crescita, di formazione. Quando mi ordinò prete e affidò
come parrocchia la strada, Padre Michele Pellegrino aggiunse: «ci
andrai a imparare, non a insegnare!». Come aveva ragione! La strada
mi è stata maestra di vita, mi ha tenuto coi piedi per terra, mi ha
protetto dal pericolo di sentirmi “arrivato”. Mi ha insegnato
l’umiltà, il non dare nulla per scontato e il non giudicare mai,
mi ha reso solidale con le umane debolezze e contraddizioni, a
partire dalle mie. Sulla strada siamo piccole persone di fronte al
grande mistero della vita.
Un prosciutto utile alla causa…
Con Gino e Virginio ci conosciamo da
tempo. Gino lo ricordo nei primissimi anni 70, da poco diventato
cappellano del Beccaria. C’incontrammo perché a Torino, col Gruppo
Abele, avevamo realizzato delle iniziative al Ferrante Aporti, il
carcere minorile, per creare un ponte fra il carcere e la città, tra
cui una tenda allestita davanti alla stazione di Porta Nuova. Sui
cartelli, sul materiale distribuito, c’era questa frase:
delinquenti e disadattati non si nasce, si diventa”. Gino Rigoldi
voleva capire, informarsi, documentarsi, era uno di quei preti che il
Vangelo lo calavano concretamente nella storia, nei problemi del
tempo. Poi ricordo un altro episodio, pochi anni dopo. Ero in Emilia,
in un posto famoso per i suoi prosciutti, e proprio dei prosciutti mi
regalarono alla fine di un incontro. Mi ricordai che Gino stava
cercando risorse per aprire la prima comunità. Beh allora – come
adesso… – di risorse economiche ce n’erano poche, ci si doveva
inventare di tutto per realizzare e mandare avanti i nostri progetti,
e io pensai che anche un prosciutto per l’amico Gino sarebbe stato
utile alla causa. C’è sempre stato questo spirito di condivisione
e collaborazione, fra noi!
Solidarietà ma anche diritti!
Lo stesso vale per don Virginio
Colmegna, con cui ho condiviso e condivido tante cose. La nostra
amicizia è iniziata negli anni ’80 . L’arrivo a Milano di Carlo
Maria Martini come Arcivescovo aveva creato un forte fermento e
promosso iniziative importanti come la Cooperativa Lotta contro
l’emarginazione, nella quale don Virginio si spendeva con
generosità. Fu quello il nostro primo contatto. Poi c’è stata
l’esperienza nel Cnca – il coordinamento nazionale delle comunità
di accoglienza – l’impegno perché la solidarietà non diventi un
alibi al vuoto dei diritti; le attività con la Caritas, di cui è
stato direttore a Milano negli anni 90; tanti progetti tra il Gruppo
Abele e la Casa della carità e la speranza, sentita da entrambi
fortemente, di una Chiesa povera per i poveri, una Chiesa che vive il
Vangelo nella sua intransigenza etica e nella sua ricchezza
spirituale. Insomma non ci siamo mai persi di vista. La chiave del
“noi”
La chiave del “noi”
Il “noi”, del resto, è la chiave
del cambiamento. “Noi” non solo predicato ma praticato, vissuto.
C’è autentico “noi” dove si accantonano egoismi e
individualismi, dove gli altri – il bene comune – diventano la
bussola e lo scopo della nostra esistenza. Nel mio piccolo è stato
il principio che mi ha ispirato e al quale ho cercato di restare
fedele. L’impegno con gli altri e per gli altri, per costruire su
questa terra un po’ di giustizia, di uguaglianza, di dignità. Di
conseguenza di libertà, perché la libertà è l’insieme di queste
cose. Le stagioni della mia vita sono state segnate da esperienze
collettive come il Gruppo Abele e Libera, dall’idea che l’incontro
delle diversità, fuori e dentro i nostri contesti, fosse la chiave
per crescere, per non accomodarsi nelle certezze, per lasciare un
segno.
No al “gigantismo”
L’esperienza del Cnca lo dimostra. Il
Cnca nasce nell’ottobre del 1980 a Torino, a Villa Lascaris.
Avremmo potuto, come altri all’epoca, lasciarci tentare dalla
strada del gigantismo, ingrandirci ciascuno per suo conto aprendo
realtà e succursali in tutta Italia, e invece come Gruppo Abele
abbiamo scelto la strada della collaborazione e della condivisione,
nel rispetto dei ruoli, delle competenze, delle storie e dei
contesti. Mi piace chiamarla l’etica del servizio: ti metti al
servizio di un progetto, non metti il progetto al tuo servizio.
Una rivoluzione dei comportamenti
Lo stesso è valso per la Lila, negli
anni tragici dell’aids (ma attenzione i dati ci dicono che il
numero dei contagi è ancora altissimo. Abbiamo abbassato la guardia
dell’educazione e della prevenzione!). E lo stesso vale per Libera.
La libertà dalle mafie – un problema secolare del nostro Paese,
radicato in certi usi e costumi, nel nostro essere cittadini
occasionali, a intermittenza – non poteva essere affrontato solo
con generici appelli alla legalità. Occorreva una rivoluzione delle
coscienze e dei comportamenti, un impegno caratterizzato da
continuità, condivisione, corresponsabilità.
Essere al servizio del servizio
Ma “noi” significa anche coscienza
dei propri limiti, sapere che senza gli altri non si va da nessuna
parte. Significa lasciar da parte i personalismi, la presunzione di
essere indispensabili. Significa stimolare il coinvolgimento, la
responsabilità, e al momento giusto cedere il testimone: siamo al
servizio del servizio.
L’etica della comunicazione
Coscienza dei limiti che provo forte
anche in questo momento, in quest’aula, dove mi viene data laurea,
a me che dico di me stesso che l’unica laurea che posso vantare è
in “scienze confuse”… Però due considerazioni su questa laurea
in “comunicazione pubblica” credo di poterle fare. La prima è
che la comunicazione è una cosa importante anche per noi che ci
occupiamo di problemi sociali, ma è pur sempre un mezzo, non un
fine. Oggi c’è una grande enfasi sul comunicare – legittimata
dalla potenza degli strumenti a disposizione – spesso però
direttamente proporzionale alla povertà dei contenuti. La seconda, è
che il fine della comunicazione sono le persone. Non però le persone
come potenziali clienti, consumatori o proseliti. Le persone come
domande di sapere, come bisogni inespressi, come diritti non
tutelati. Come soggetti di dignità e di libertà. Qui sta l’etica
della comunicazione e qui sta anche il futuro della nostra
democrazia.
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