FEDERICO FUBINI
La Repubblica 29 dicembre 2014
«Viviamo in un mondo in cui non è
precario tanto il lavoratore, sono precari i mercati dell’impresa:
per questo il Jobs Act può diventare un elemento di crescita».
Gianfelice Rocca, 66 anni, laurea in Fisica alla Statale di Milano e
perfezionamento a Harvard, presidente di Assolombarda, guida una
delle poche famiglie industriali italiane con una presa globale.
Techint, il gruppo che presiede, ha ricavi per 25 miliardi di dollari
da attività su cinque continenti: siderurgia, impianti per
l’industria estrattiva, produzione di greggio e gas, ingegneria,
sanità. È questa sua visuale che lo spinge a indicare un doppio
rischio per l’Italia: «Scilla e Cariddi – dice - Da un lato
l’asfissia economica e la deriva populista, dall’altro la rottura
dell’euro. Ma c’è uno spazio intermedio per ricostruire quella
fiducia che può diventare il nostro petrolio bianco. Il governo si
muove bene, ora serve precisione nell’esecuzione».
Non è dura crederci ancora dopo un
altro anno di recessione, di nuovo agli ultimi posti delle
graduatorie di crescita?
«In Italia c’è un problema di
competitività, è chiaro, ma non tanto nel manifatturiero. Abbiamo
il quarto surplus di bilancia commerciale al mondo, difficile
sostenere che in un Paese così l’industria non sia competitive.
Abbiamo perso molti punti con l’ingresso nel sistema dell’euro,
che è tutt’altro che ottimale. Per decenni il nostro Paese ha
avuto bisogno di svalutazioni per crescere. Nell’euro questo
naturalmente è impossibile e, in caso di una crisi in certi Paesi
dell’area, non disponiamo degli strumenti degli Stati Uniti: lì le
migrazioni interne sono venti volte superiori e l’intervento
pubblico pesa fino al 30% dei bilanci degli Stati, mentre il bilancio
europeo è l’1% del Pil».
Non sosterrà anche lei che le colpe
della più lunga recessione italiana sono da cercare tutte fuori dal
Paese?
«Ovviamente no. È come se l’euro e
la crisi finanziaria avessero messo le nostre debolezze - il debito,
l’inefficienza dei servizi e della macchina legale e amministrativa
- sotto una lente d’ingrandimento. Ciò ha provocato un’enorme
crisi di fiducia. Oggi in Italia mancano consumi per 25 miliardi a
trimestre e investimenti per 30 miliardi a trimestre. E non sono
rimpiazzabili da alcunché, se proprio non dal ritrovare fiducia. Non
si può lavorare solo sull’export: noi esportiamo in Germania per
circa 50 miliardi l’anno, quindi anche una crescita del 10% della
domanda tedesca porterebbe appena altri 5 miliardi. Purtroppo questa
spirale di sfiducia si autoalimenta, con una politica di bilancio
europea che porta a temere il futuro, e la richiesta ai Paesi in
difficoltà di aumentare le tasse».
Lei descrive una tempesta perfetta.
«Lo è. Da un lato c’è il rischio
di asfissia e populismo, dall’altro la rottura dell’euro. Però a
mio parere esiste uno spazio intermedio, sul quale l’Italia può
lavorare. Possiamo farlo se il Paese prende in mano se stesso e le
imprese fanno strada nel recupero del costo del lavoro per unità di
prodotto».
Le retribuzioni in Italia non sono già
più basse che in Germania?
«In termini assoluti sì, ma la produttività complessiva in Germania è talmente più alta che per
ciascuna unità di prodotto alla fine lì il lavoro costa meno.
Dall’avvio dell’euro, la perdita dell’Italia sulla Germania su
questo parametro equivale a una svalutazione a favore della Germania
del 20-30%. Per questo servono riforme abilitanti, che liberino le
energie. Servono riforme a partire dalla struttura
amministrativo-legale del Paese. Dobbiamo semplificare. Oggi è tutto
troppo complesso, il codice fiscale e quello del lavoro sono di
tremila pagine. Eppure l’incertezza del fisco e del diritto sono
vastissime, come si è visto con l’Ilva».
Trova che il governo si muova nella
direzione giusta?
«Noi imprenditori non siamo giudici,
siamo attori. Ma mi pare che questo governo stia riposizionando il
dibattito politico nel rapporto con i sindacati, gli organi
intermedi, la stessa Confindustria. Questo è estremamente positivo».
Per creare fiducia basta riposizionare
il dibattito?
«Naturalmente poi c’è la questione
dell’esecuzione e della precisione degli interventi. Questa è
un’avventura con margini di incertezza elevati, perseguita gettando
il cuore oltre l’ostacolo, pensando che l’economia seguirà il
posizionamento politico. È un’avventura unica, però a questo
punto necessarissima. Per esempio, per chiudere l’enorme ritardo di
produttività nei servizi dobbiamo alzare il tasso di
digitalizzazione e arrivare a piattaforme digitali delle
amministrazioni che dialoghino fra loro»
Il Jobs Act va nel senso
che lei auspica?
«La risposta a un mondo così
complesso è facilitare la flessibilità e il trasferimento del
lavoratore da azienda a azienda, da luogo a luogo. Il resto è
illusorio: le aziende non sono più in grado di avere un mercato
sicuro e continuativo. Fra Jobs Act, assicurazione sull’impiego,
semplificazione, concorrenza nei servizi e digitalizzazione, possiamo
trarre una spinta competitiva molto forte».
Quanto tempo ha l’Italia?
«L’Italia ha in pancia un potenziale
enorme. Ma per tirarlo fuori non c’è più molto tempo:
dodici-diciotto mesi in cui dobbiamo approfittare del sostegno della
Bce e della spinta dal crollo del petrolio. Altrimenti sarà
durissima».
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