Corriere della Sera 21/12/14
Guido Santevecchi
Per scrivere «famiglia», in mandarino
si usa un carattere che mette un maiale sotto un tetto. Uno dei 12
segni dello zodiaco cinese è il maiale, associato a diligenza e
generosità, prosperità, fertilità e virilità. Gli esempi aiutano
a capire quanta importanza abbia questo animale nella civiltà
dell’Impero di Mezzo. Piacevano anche a Mao Zedong i suini, li
chiamava «la fabbrica di fertilizzante su quattro zampe», perché
ancora ai suoi tempi non c’era casa di campagna che non ne
allevasse almeno uno: venivano nutriti con gli avanzi e producevano
letame organico, il migliore per concimare i campi. All’epoca di
Mao il maiale era simbolo di una ricchezza sognata e i cinesi
potevano permettersi di mangiare la sua carne solo in rare
occasioni.
Alla fine degli anni 70, con l’apertura
all’economia di mercato, le cose sono cambiate. Oggi in Cina ci
sono allevamenti giganteschi, da 100 mila suini l’uno, i cinesi
producono e consumano 500 milioni di maiali l’anno, metà del
mercato mondiale. E qui nasce il problema, tanto serio che l’
Economist ha adottato il suino come protagonista di un lungo articolo
sull’ascesa della Cina, sulla sua industrializzazione accelerata,
sui pericoli che rappresenta per l’equilibrio del pianeta. Titolo:
«The empire of the pig».
Prima del boom economico i cinesi
avevano una dieta a base di verdure, la carne di suino si usava con
parsimonia, per insaporire i piatti. Oggi il consumo medio pro capite
è di 39 chili all’anno. La tradizione del porco che riciclava gli
avanzi e restituiva letame utile per coltivare i campi è stata
schiacciata da un’industria enorme.
Fino agli anni 80 il 95
per cento della produzione veniva da contadini che ne tenevano in
media non più di cinque a testa; oggi imprese statali e
multinazionali hanno allevamenti da 100 mila capi nei quali gli
animali sono fatti ingrassare al chiuso, spesso non vedono mai la
luce del sole.
La carne di maiale è talmente importante per
l’economia cinese che il suo prezzo è determinante nel calcolo
dell’inflazione, quest’anno per esempio è sceso del 3,8% e lo
Stato è intervenuto con sussidi agli allevatori. Il governo ha anche
costituito una riserva strategica, come si fa con il petrolio: carne
surgelata e animali vivi pronti per essere immessi sul mercato se il
prezzo sale troppo.
Con allevamenti così grandi e bestie
ammassate per l’ingrasso, il pericolo di malattie è ricorrente,
così si usano in modo massiccio antibiotici e ormoni. E questo
cocktail di medicine non fa bene alla salute dei consumatori cinesi
né all’ecosistema. Ogni maiale produce 5 chili di letame al
giorno, che non è più il fertilizzante mitizzato da Mao, ma
composto inquinante per la terra e le falde acquifere. Nonostante le
cure spregiudicate, le morie sono frequenti: per disfarsi delle
carcasse si usano spesso i fiumi. L’anno scorso i resti di 20 mila
maiali sono discesi lungo il corso dello Huangpu, fino alle porte di
Shanghai. Fu uno scandalo nazionale.
Ma il mezzo miliardo di
suini cinesi sono un problema serio per tutta l’agricoltura
mondiale. Per ottenere un chilo di carne di porco servono sei chili
di mangime. Non si possono più nutrire con i soli scarti alimentari,
così per approvvigionarsi di soia e mais le industrie della Cina si
rivolgono al mercato internazionale. Con esiti devastanti: il Brasile
ha convertito alla soia 25 milioni di ettari di terra, spianando
anche foresta amazzonica. Pechino ha anche acquistato 5 milioni di
ettari di terreno in Paesi in via di Sviluppo. Forse l’ Economist
non esagera con il suo titolo «L’impero del maiale».
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