Corriere della Sera 28/12/14
Andrea Nicastro
Occhi a mandorla, viso aguzzo da volpe,
il colonnello Sultan Ahmad Warasi incarna lo stereotipo dello spione.
E’ il responsabile dell’intelligence militare del 207esimo Corpo
d’Armata afghano ad Herat. Tentenna solo sui nomi di un paio di
governatori-ombra talebani, perché, si scusa, «quelli precedenti li
abbiamo eliminati qualche mese fa». Per il resto sfodera solo
certezze. «I talebani sono infiltrati ovunque. In città obbediscono
a Wali Mahmad spostato dal Mullah Omar da Uruzghan a qui. I
finanziamenti vengono da Pakistan, Iran, oppio e hashish. Il loro
numero cambia con le stagioni, ma in quest’area si aggira intorno
ai diecimila combattenti. Ora che gli italiani hanno smesso di
pattugliare e di aiutarci nelle attività ai check point facciamo più
fatica a contenerli perché ci mancano armi e attrezzature».
Rincara
la dose il tenente colonnello Jamal Abdul Naser Sidiqi: «Un mio
soldato è stato ucciso tre giorni fa perché gli si è inceppata
l’arma davanti a un talebano. Non abbiamo metal detector per
individuare le trappole esplosive né sistemi elettronici che possano
bloccare i telecomandi. Il fatto è che i loro attacchi costano meno
delle nostre difese. Su noi ufficiali hanno posto addirittura delle
taglie: seimila dollari per un colonnello morto, diecimila per un
comandante di kandak», battaglione. Come d’abitudine il colonnello
batte cassa, ma sono i numeri, in fondo, a dargli ragione.
L’«afghanizzazione» della guerra permette di risparmiare denaro
occidentale, ci sono meno occhi elettronici, meno dirigibili, meno
droni e meno intercettazioni per captare conversazioni sospette, ma
per l’esercito afghano le perdite sono cresciute del 40 per cento
rispetto al 2013. «La settimana scorsa sono stati uccisi tre
ufficiali afghani fuori servizio — conferma il comandante del
contingente italiano generale Maurizio Scardino — le killing
mission , gli omicidi mirati, sono un problema reale». Con ancora
meno supporto internazionale che accadrà?
Per dei militari,
«ritiro» è una parola tabù, assomiglia troppo a «sconfitta».
Preferiscono «ripiegamento» e nel caso afghano hanno tecnicamente
ragione. Non sono i talebani a cacciare la coalizione Nato, è la
politica. Siamo noi tax payer a non essere più disponibili a pagare
il conto. Dopo tredici anni di combattimenti, 3.500 morti occidentali
in divisa (54 italiani), la coalizione a guida americana ripiegherà
entro un anno su Kabul. Il piano è che nel 2017 se ne vada
dall’Afghanistan anche l’ultimo occidentale e, nel frattempo, si
faccia sostanzialmente solo addestramento.
Con i soldati Nato
anche le Ong umanitarie si stanno ritirando. Rapimenti e attacchi
suicidi arrivano ovunque, restare è un rischio. La politica ha
smesso di fingere che l’intervento internazionale abbia pacificato
il Paese. Il conto dei burqa per le strade non è più il termometro
sul rispetto dei diritti umani anche perché sono sempre meno i
luoghi che gli occidentali, in divisa o meno, riescono ad
osservare.
«Le priorità geostrategiche sono cambiate —
ammette l’ambasciatore a Kabul Luciano Pezzotti —. Ora abbiamo la
Libia e l’Isis di cui preoccuparci. Però sono convinto che
l’assistenza a Kabul continuerà. Egitto e Pakistan, ad esempio,
hanno forze armate sostenute dagli Stati Uniti, perché non anche
l’Afghanistan?». A tredici anni dall’invasione gli Stati Uniti
hanno speso, a seconda delle stime, da 700 a 1.500 miliardi di
dollari. Tre, quattro miliardi l’anno potrebbero evitare un caos
post ritiro stile iracheno. Forse.
L’Italia si sta dimostrando
tra gli alleati americani più fedeli. Per tutto il 2015 abbiamo
deciso di lasciare più uomini persino dei britannici: 500 di media
contro 200, per una spesa complessiva di 160 milioni. I vantaggi dei
nuovi ordini sono almeno due. Primo, uscendo poco da Camp Arena si
rischiano meno imboscate. Secondo, c’è finalmente acqua calda per
tutti perché dove vivevano 4 mila soldati ce ne saranno appena 750,
quanto basta, con l’aiuto di 500 spagnoli, per difendersi.
Gli
svantaggi sono invece evidenti nelle battute di chi sa di dover
restare fino a ottobre quando è previsto che gli ultimi 70 militari
lascino Herat per Kabul. «Finirà come a Saigon, scapperemo dai
tetti con i talebani al piano terra». Esagerato, ma non
troppo.
«Fino a che rimarranno i Mangusta — dice Agostino
Iacicco, capitano pilota dei nostri elicotteri d’attacco — avremo
un deterrente importante». Poi bisognerà inventarsi qualcosa.
Soprattutto per superare l’estate, la tradizionale stagione dei
combattimenti. Spaventa l’idea di lasciare i soldati afghani a
guardarci le spalle quando l’ultimo aereo prenderà il volo. Già
ora gli italiani girano per la base con la pistola nella fondina. Il
timore è di «green-on-blue», verde su blu, cioè che qualche
soldato afghano si metta a sparare sui colleghi occidentali come è
successo già decine di volte con quasi 150 vittime compreso un
generale americano.
E gli afghani? Come si preparano al ritiro
Nato? Il mese scorso il vecchio mujaheddin Ismail Khan ha organizzato
ad Herat un raduno con un migliaio di ex combattenti. «Dobbiamo
organizzarci — li ha arringati —. Senza gli stranieri, l’esercito
afghano è inefficiente. I talebani arriveranno per tagliarci la
gola. Riprendiamo le armi».
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