L'8 dicembre 2013 la vittoria alle primarie del Pd. Le sensazioni
di dodici mesi velocissimi, le prospettive del premier-segretario
Nell’ultimo, bellissimo, romanzo di Ian McEwan, La ballata di Adam Henry,
la protagonista si chiama Fiona Maye e fa il giudice. Lei è chiamata a
decidere con grande rapidità su controversie delicatissime spesso
inerenti a dilemmi di carattere morale. Tipo: è giusto o non è giusto
rispettare la religione di un minorenne – Testimone di Geova – che
rifiutando la trasfusione di sangue rischia la vita? Oppure, è giusto
separare due gemellini, sacrificando la vita di uno per la vita
dell’altro? Fiona Maye ha poche ore per emanare il verdetto. Il suo
cervello galoppa. È una vita di corsa. Fino all’ultimo respiro.
La velocità, già. McEwan fa capire senza dirlo che è questo il tratto
del tempo nostro, nel quale tutti noi decidiamo cose più o meno
importanti in poco tempo, è la condizione della vita privata e di quella
pubblica.
Decenni di politica lenta, sonnacchiosa, o anche, nella versione
buona, di pensieri lunghi e riunioni interminabili, sono stati
sbaraccati. Così che gli ultimi tre anni sembrano dieci: l’evento della
settimana scorsa è bruciato, consegnato ai bauli della memoria, per chi
ce l’ha, e giornali e talk show e opinion makers devono inventarsi
qualcos’altro. La velocità, già: secondo quanto osservato acutamente in
uno dei suoi ultimi scritti dal nostro caro Federico Orlando, che ne
aveva viste non poche, è esattamente la velocità l’arma con la quale
Matteo Renzi “evita” la reazione dell’avversario, perché non gli concede
il tempo per la contromossa: lui è già passato ad altro. Si è scansato,
come Cassius Clay con Sonny Liston, che era più grosso di lui e
brancolava alla ricerca dell’avversario, senza beccarlo mai.
E dunque anche per questo è complicato fare un articolo su questi
dodici mesi che ci separano dalla conquista della segreteria del Pd da
parte dell’allora sindaco di Firenze. Quel giorno delle primarie dell’8
dicembre 2013, quando sbaragliò Cuperlo, Civati e Pittella, era ieri ma
pare molto di più.
La vicenda del premier-segretario verrà raccontata come un
susseguirsi di lampi, alcuni efficaci altri meno, un turbinio di mosse,
scelte, iniziative, viaggi, frasi, comparsate, attacchi e contrattacchi
che stordisce la nostra memoria e alla fine, dopo dodici mesi, lascia
intatta la percezione, sebbene la politica muti di continuo e proponga
sempre nuovi racconti, che sarà in questa fase molto difficile trovare
alternative a Matteo Renzi.
Dodici mesi difficili. Un lungo inverno italiano in cui non si vede
sbucare il sole dietro le montagne dei nostri problemi. Renzi ha preso
il Pd, e poi il governo (i due piani, come ha notato Civilità Cattolica,
appaiono intersecati), nella fase storica del grande scontento europeo e
italiano, e il suo reiterato ottimismo (molto raro in un leader della
sinistra italiana, sempre così inclini ad evocazioni catastrofiste) solo
lievemente appare in grado di correggere l’em>umor nero degli
italiani.
Il punto, oggi, è proprio questo. Istintivamente, gli elettori si
affidano ancora al governo Renzi, se non altro perché non c’è di meglio.
Ma quando ai sondaggisti rispondono che voterebbero Salvini vogliono
probabilmente segnalare al premier che serve un colpo d’ala.
Renzi lavora in un campo devastato com’è oggi quello della politica
italiana. Senza più partiti, senza nemmeno più i figli anomali dei
partiti. La destra è sghemba, i grillini troppo autoreferenziali, a
sinistra si suda senza sogni e solo rabbia. Il parlamento assomiglia a
una nave senza nocchiero in balia ora di questo ora di quel vento: le
vele si strappano e nella stiva poche risorse. Il suo partito, il Pd,
non è ancora vicino alla agognata trasformazione in partito moderno –
anzi: post-moderno – che i rottamatori agognavano. Il risultato è che
Renzi vince le elezioni nel vuoto, nel deserto dell’offerta politica.
Vince pur nella sfiducia montante, con la gente che si ritrae dalla
politica. E da questo punto di vista l’immondizia sotto le scale del
Campidoglio certo non aiuta.
Le riforme: si è cominciato. Forse si sono sottovalutate le
resistenze, come forse si è sottovalutata la forza animalesca di questa
crisi economica. Però sì, le riforme sono sul tavolo, alcune sono già
realtà. Bisognerebbe mettere un po’ d’ordine – la dannata velocità ha
fatto sì che venissero scaraventate in parlamento decine di proposte
tutte insieme, di qui l’ingorgo e la paralisi che hanno sparso l’acre
odore dell’”annuncite”– ma in fondo il tempo c’è e la determinazione
anche. Si è visto con la riforma del senato, per non parlare del Jobs
act.
Abbiamo osservato in quelle occasioni un premier duro. Che ha
“menato”, come si dice a Roma, e spesso a sinistra. Negli ultimi tempi è
apparso però anche un Renzi più duttile, “trattativista”: con sindacati
e imprenditori nel caso della positiva storia dell’Ast di Terni; con la
sinistra del Pd sul Jobs act. (E c’è da giurare che sarà così nel big
match del Quirinale).
Già, pensare all’anno trascorso rimanda inevitabilmente a immaginare
il futuro. Renzi ha sempre di fronte a sè un bivio. Lungo la prima
strada, la sensazione che molti hanno di una sua “solitudine” si dirada e
lui riesce a stabilire col popolo (o ri-stabilire) una “connessione
sentimentale” più forte. Magari costruendo le basi di una nuova Casa
democratica – una “Casa”, non l’ennesima “Cosa” –, un partito che
“poggi” sul Pd ma di fatto ne trascenda i confini attuali, un Partito
democratico non più “a vocazione” ma effettivamente maggioritario,
essendo chiaro che se la sinistra non dovesse farcela nemmeno stavolta
ben difficilmente conoscerà altre prove d’appello. È per questo che
molti “vivono” Renzi come l’ultima spiaggia.
Ma nessuno può ragionevolmente escludere – ecco la seconda strada – che il giovane “segretario fiorentino”, come lo chiamò Il Foglio, venga sconfitto da una Grande armée destrorsa
e, questa sì, genuinamente populista. Da una risacca più che moderata,
da un’onda anomala fomentata e diretta da chissà quale personaggio,
Salvini o qualcun altro. O che cadrà più semplicemente per i suoi
stessi errori.
Le incognite sono tante, e la strada di Matteo Renzi non è dunque
segnata. Come scrive Simone de Beauvoir, in un bellissimo e un po’
dimenticato romanzo di tanti anni fa dal titolo casualmente renziano – I Mandarini:
«Quanto a quello che accadrà più tardi, in fondo a questa lunga
preistoria, dobbiamo confessarci di non saperne niente. L’avvenire non è
sicuro: né quello prossimo né quello più lontano».
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