In occasione del conferimento della laurea honoris causa in «Comunicazione sociale e di impresa» all'Università degli studi di Milano
don Gino Rigoldi
Voglio all’inizio di questa mia
lezione ringraziare il Rettore, il Consiglio di Facoltà, e tutti
coloro che hanno promosso la nostra laurea honoris causa. Per me, e
credo anche per gli altri due colleghi, è un grande onore ricevere
una laurea da questa nostra prestigiosa università milanese. La
“scienza della comunicazione” in particolare è stata, fin
dall’inizio del mio lavoro sociale e della mia predicazione come
sacerdote, un’intenzione importante ed una cura molto ricercata e
concreta. Ogni persona che svolga un lavoro educativo ha bisogno di
curare le sue modalità di comunicazione, perché sono lo strumento
di ingresso nella relazione. Agli inizi degli anni ’70 nel Carcere
minorile “Beccaria” incontravo mediamente ogni anno mille giovani
maschi e femmine provenienti quasi esclusivamente dal Sud Italia;
dagli anni novanta è iniziato l’ingresso massiccio nel carcere
minorile dei minori stranieri portatori di altra cultura, di altra
religione e di altra lingua.
Questi giovani avevano certamente bisogno di essere ascoltati e
capiti e poi aiutati a comprendere i problemi che avevano creato e le
difficoltà che avrebbero incontrato fuori dal carcere. Occorreva
avere attenzione, cura e linguaggio. Mi è parso giusto dunque
confrontarmi, studiare, andare ad imparare le regole e le risorse
della comunicazione. Senza una buona relazione, nei rapporti con i
giovani ma anche con gli adulti è come parlare dietro una porta
chiusa. Se non si apre la porta non si fa nulla. Non ho potuto
frequentare qualche facoltà di “Scienze della comunicazione” e
allora ho cercato ed ho trovato una ottima formatrice alla
comunicazione, una importante giornalista della Rai della quale ora
purtroppo non ricordo il nome.
Mi ricordo bene però le due regole fondamentali che ci insegnò:
“Si parla in pubblico quando si ha qualcosa da dire e si sa cosa si
vuole dire” e la seconda: “gli altri, le persone alle quali voi
parlate, hanno un difetto: esistono. Esistono con la loro cultura i
loro giudizi ed i loro pregiudizi, i loro interessi e così via”.
Se volete comunicare dovete parlare a chi avete davanti. Due regole
necessarie e fondamentali da non dimenticare mai. Esistono certamente
molte modalità e molte intenzioni nella comunicazione. La modalità
che io ho scelto, che ho cercato di imparare e che voglio praticare è
quella di una comunicazione in funzione della relazione, siano i miei
interlocutori giovani o adulti, italiani o stranieri.
Permettetemi di soffermarmi su questo termine, “relazione”,
che ritengo una delle parole più importanti per la nostra vita
privata, sociale, laica o cristiana ma non per questo riconosciuta,
proposta e fatta diventare regola nelle quotidiane pratiche
individuali e sociali, centro della educazione nella famiglia e nelle
scuole. L’antropologia, la cultura, la fede nella relazione si
fonda sulla convinzione che ogni essere umano è uguale a me e
titolare di una dignità e di diritti sacri ed inalienabili. Per un
cristiano ogni uomo o donna è figlia o figlio di Dio come me.
La conseguenza e la coerenza legata a queste convinzioni è che
con questa persona, con la quale condivido la comunità sociale o
religiosa, la professione, la città, posso legare rapporti,
progettualità, fare comunità, vivere insieme il lavoro e la
cultura, la politica o la fede. Il pregiudizio, la convinzione
preliminare è che con ogni persona è possibile costruire rapporti,
collaborazioni, amicizia. Ogni relazione, come ogni rapporto umano ha
bisogno di onestà e di trasparenza, non è aliena dal conflitto ma
ha come impegno e come desiderio quello di creare legami che possono
andare dalla compagnia, all’amicizia, all’amore. Questa è
un’arte, secondo me l’arte per una vita bella e buona. Ma è
anche una scelta ed una disciplina, come è scelta, disciplina e
processo ogni forma amore.
La capacità di relazione è facilitata da un carattere più
aperto e disponibile, ma non diventa stile di vita se non è
identificata come un bene, un processo da decidere, riconoscere e poi
da curare, da accrescere, da proteggere, da purificare. Se parliamo
della relazione sotto il profilo specifico della fede, dobbiamo
affermare che la relazione è un atto di fede, una ubbidienza di fede
perché è una delle prime declinazioni della pratica concreta del
grande Comandamento dell’amore. Con la fede o senza la fede, una
importante capacità di comunicazione e di relazione è la prima
competenza che si deve richiedere ad ogni persona che svolga attività
educative. Io ritengo che le incompetenze relazionali siano la più
grande debolezza delle persone in generale, ed allora il lavoro per
acquisire buone capacità relazionali diventa un impegno per la
propria vita e per quello che si vuole realizzare, qualunque sia
l’età, la professione, la fede. Gli altri non sono né estranei,
né concorrenti, né nemici, ma potenziali alleati... Lo stile della
relazione lo riconosci perché propone ed ha fiducia di poter creare
legami.
Oggi, inquinati come siamo da relazioni opportuniste, ingannevoli
e perfino violente, c’è un gran bisogno di andare a “scuola di
relazioni” con una compagnia, una comunità capace di leggere i
pensieri e i sentimenti. La peggiore ignoranza che incontriamo e
viviamo è una grande “ignoranza in amore”. Occorre trovare il
modo di “liberare” la capacità di amore e perciò di relazione
che abbiamo dentro, che avvertiamo quando siamo consapevoli dei
bisogni della nostra persona, come la strada del benessere e della
creatività. La comunicazione della fede che offre Papa Francesco è
stata per me, e spero per molti cristiani e no, uno stimolo per
andare a rivedere la comunicazione che viene fatta dalla e dentro la
Chiesa cattolica. Si incontrano delle magnifiche notizie e dei
paradossi, che si spiegano nella storia ma che vanno rimossi.
Le cosiddette abitudini di devozione sono certamente un aiuto per
la vita ma talora diventano un potente narcotico. Due esempi, e per
me due vissuti, che ritengo necessario modificare: nel Vangelo Gesù
ci chiama amici, ci assicura il suo amore e quello del Padre. Ci dice
tralci della vite che è lui, mentre S. Paolo ci incoraggia a
chiamare Dio “papà”. Difficile capire come stia insieme il Padre
nostro con i vari “Signore pietà” o con il greco Kyrie eleison,
e con le frequentissime affermazioni della liturgia, ma anche dalla
cosiddetta devozione, che sottolineano le nostre povertà, indegnità,
peccati. Pensate anche solo al Confiteor: “ Per mia colpa, mia
colpa, mia grandissima colpa...” Ma credo che ancora più grave sia
la comunicazione del volto di Dio e di Gesù che passa attraverso il
sacramento della Riconciliazione. Un elenco standard di peccati
confessati da fedeli anche giovani: non essere andati a messa la
domenica, avere fatto sesso fuori dalle regole, aver pregato poco,
avere avuto dei litigi con qualcuno, avere detto qualche bugia. Mai
sentito qualcuno confessare di non avere pagato le tasse o di avere
trasgredito qualche legge civile.
L’immagine di Dio che si ricava da queste modalità, ancora oggi
“normali”, è quello di un Dio meschino, piagnucoloso, legato a
piccole cose, utili ma secondarie. Che fascino, che interesse può
suscitare un Dio così? Ma soprattutto, Gesù, il Fondatore, è
vissuto e morto per queste pur utili ma piccole cose? Non è venuto
per predicare la pace, la giustizia, l’uguaglianza tra le persone,
la condivisione dei beni, la risposta alo male con il bene, la cura
dei poveri, l’amore di Dio Padre? Non è per questo che è stato
amato ma anche ucciso? Secondo me farebbe la stessa fine anche oggi.
Come minimo non farebbe carriera. Ma il nostro compito è quello
della fedeltà, non degli interessi o delle opportunità, men che
meno del ripetere abitudini che non comunicano la verità del suo
volto. La comunicazione è un formidabile strumento di relazione, di
educazione e di verità. O, almeno, può esserlo e credo che oggi sia
più che mai necessario. Grazie per averci permesso di diventare
vostri colleghi.
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