Non potrà bastare neanche un ampio voto di maggioranza. Il gruppo
dirigente allargato deve lanciare un messaggio di feroce determinazione:
vogliamo rispondere agli italiani degli impegni assunti. Senza
inciampare sulle votazioni per il Quirinale.
Non si ricordano assemblee nazionali del Pd ove si
siano verificati memorabili eventi politici. L’unica forse fu quella del
20 settembre 2013, quando il disperato e vano tentativo di bersaniani e
lettiani di fermare le imminenti primarie valse da preannuncio non solo
e non tanto della vittoria renziana, quanto dello sfaldamento dei suoi
disorientati oppositori.
Sarebbe molto grave se l’assemblea democratica di oggi finisse nel dimenticatoio dei molti altri appuntamenti superflui.
Dovrebbe essere evidente a tutti che il Pd corre temerariamente sul
filo del rischio che Renzi vide già nelle prime ore dopo la vittoria
delle europee: se ad aspettative e a responsabilità così grandi come
quelle suscitate allora fosse seguita una delusione, si sarebbe bruciata
non solo una leadership personale ma la sorte di tutto il partito.
Da allora, la sistematica opera di logoramento ai danni di Renzi da
parte dei suoi oppositori non ha conosciuto pause. In queste settimane
su Jobs Act, legge elettorale e riforma del bicameralismo ci sono state
scelte parlamentari che c’entrano poco con l’asserita volontà di
“migliorare i testi” e anzi spesso la contraddicono: c’è un disegno
politico evidente, che sarebbe anche legittimo se non fosse negato, e se
non calpestasse alcune regole base della convivenza in uno stesso
partito.
Certo, il segretario-premier ha compiuto i suoi errori. Il paese ha
assistito, nel perdurare di una crisi sociale angosciante, a uno scontro
tra governo e sindacati come non se ne ricordavano: era inevitabile che
accadesse ed è stato anzi tardivo, ma poteva svolgersi con modalità
meno ansiogene per una comunità già molto insicura.
Scandali e inchieste hanno colpito duramente, tra le retroguardie dei
vecchi gruppi dirigenti ma non solo, e agli occhi dei cittadini Renzi
fatica a tenere le distanze da un sottobosco che avrebbe dovuto
estirpare e invece è ancora folto.
Per dirla in una frase: da che sembrava che fosse diventato la
soluzione, il Pd è tornato a essere un problema per l’Italia, come gli è
capitato spesso in passato per responsabilità degli stessi vecchi
gruppi dirigenti che ora tentano il colpo di coda.
Cosa grave, visto che parliamo, più che del partito che governa ormai
quasi ogni angolo del paese, dell’unico vero partito rimasto in piedi.
Né l’ottimismo nelle proprie possibilità né la noncuranza verso gli
avversari possono più bastare a Renzi. Il quale deve dare – oggi – il
segnale forte di una totale ripresa di controllo. E il segnale non potrà
venire solo dai numeri della prevista votazione finale nell’assemblea.
Il segretario deve prosciugare tutta l’acqua, ondivaga se non
stagnante, che continua a esserci tra sé e i suoi oppositori dichiarati.
Una minoranza ci deve essere, corrisponde del resto a dubbi e
resistenze che sono reali nello stesso Pd e che meritano di essere
rappresentati. Ma deve esserci a maggior ragione, soprattutto, una vera
maggioranza. Convinta e compatta non solo sulle scelte contingenti,
quanto sulla prospettiva: la radicalità delle riforme, la tenuta di
governo e legislatura, il sostegno pieno alla leadership che ha reso
possibile questa insperata (e non del tutto, e non da tutti, meritata)
stagione di egemonia democratica sulla vita politica italiana.
Tutti sappiamo, e scriviamo, dell’ostacolo che frena l’irruenza
renziana: il voto a camere riunite sul successore di Napolitano, forse
già verso la fine di gennaio.
Il premier ha mostrato più volte una notevole perizia tattica, che
gli avversari avevano sottovalutato. Potrebbe non bastare, in un
parlamento dove nessun leader, a cominciare da Berlusconi e Grillo,
controlla i propri gruppi. Sulla fedeltà di deputati e senatori
democratici non c’è da farsi molte illusioni.
E allora fin da subito Renzi potrebbe rendere chiaro che certo la
partita del Quirinale verrà giocata con ogni accortezza, perseguendo
maggioranze le più ampie possibili e uscendone con la personalità
migliore nel solco di quell’idea dell’Italia e della democrazia di cui
s’è fatto campione Giorgio Napolitano; ma che si tratta in ogni caso di
una parentesi, per quanto importante, e che non sarà nel segreto di
quelle cabine che si deciderà il destino della stagione renziana.
Da qui a quella scadenza, nel corso di quella scadenza, e dopo quella
scadenza, il gruppo dirigente del Pd nel suo recente ampliato perimetro
deve dare all’esterno e all’interno, a cominciare dall’assemblea
odierna, un messaggio di determinazione feroce su un punto cardine della
democrazia, che non consiste solo nel confronto tra politici ma
soprattutto nel diritto e dovere di completare la propria agenda e di
sottoporne i risultati agli elettori.
Né le ricorrenti e ambigue minacce di scissione, né l’opera
distruttiva di dirigenti sconfitti, superati ma non rassegnati, possono
stravolgere gli impegni che il Pd aveva preso con gli italiani.
Dopo di che, se i pilastri che sostengono la maggioranza per le riforme istituzionali cederanno altrove – cioè dentro Forza Italia – il bilancio del lavoro svolto verrà presentato agli elettori in anticipo, con l’ammissione di un fallimento che ovviamente coinvolgerà Renzi e il suo gruppo dirigente, ma del quale essi potranno dire con buoni argomenti di non essere responsabili.
Dopo di che, se i pilastri che sostengono la maggioranza per le riforme istituzionali cederanno altrove – cioè dentro Forza Italia – il bilancio del lavoro svolto verrà presentato agli elettori in anticipo, con l’ammissione di un fallimento che ovviamente coinvolgerà Renzi e il suo gruppo dirigente, ma del quale essi potranno dire con buoni argomenti di non essere responsabili.
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