Il premier manda (in onda) un messaggio forte sulle leggi
anticorruzione. Il sindaco ha una prova d'appello, deve imporre una
svolta in Campidoglio. Il commissario deve rifondare un intero partito
senza riguardi per nessuno. Se falliscono, sarà davvero il bis di Mani
pulite, con tutto quello che accadde.
La domanda è più che legittima: ce la possono fare,
ognuno nel proprio ruolo, Renzi, Marino e Orfini? Questa bizzarra
compagnia di democratici – tre politici che più diversi fra loro sarebbe
stato difficile trovarli – si trova davanti una missione drammatica, in
un paese che come ha detto Raffaele Cantone torna a essere scosso da
una rabbia da Mani Pulite, un sentimento collettivo da non sottovalutare
se solo si pensa a quali conseguenze ebbe vent’anni fa sulla politica e
sulla vita nazionale.
Allora la sinistra pensò di cavarsela mentre tutto il sistema le
crollava intorno. Anzi, volle cavalcare l’onda dell’indignazione,
convinta che questa avrebbe travolto solo quello che l’allora era il
pentapartito. Calcolo clamorosamente sbagliato. Quando l’onda rifluì, il
paese era nelle mani di Berlusconi e Bossi, la sinistra si era
infettata di rancore, giustizialismo e antipolitica, e la corruzione
aspettava solo di prendere le misure alla Seconda repubblica. Come poi
fece.
Ieri il presidente del consiglio ha lanciato un messaggio tv,
anticipando misure che erano in parte già attese. È stata una mossa
dettata dall’urgenza di collocarsi agli occhi dei cittadini dalla parte
giusta, nel momento in cui amministratori del partito di cui Renzi è
leader figurano decisamente dalla parte sbagliata (e non solo a Roma).
Inoltre, Renzi deve essersi accorto che con le nuove norme sugli arresti
domiciliari, molti degli attuali coinvolti in Mafia Capitale non
avrebbero neanche rischiato il carcere: di qui l’aumento del massimo
della pena per il reato di corruzione.
Marino s’è meritato una prova d’appello. Il Comune di Roma non solo
non verrà commissariato ma riceverà dai nominati prefettizi una sorta di
bollinatura di garanzia su appalti e affidamenti. Ora però il sindaco
deve fare il lavoro politico: rimpasto di giunta, ampliamento della
maggioranza, forte ricambio ai vertici dirigenziali. Con scelte
eclatanti, di vera rottura.
Come quelle che spetteranno all’interno del Pd a Matteo Orfini. Il
quale, dei tre, disponde del potere discrezionale più ampio: dovrà
usarlo senza pietà, a costo di azzerare davvero il partito romano,
ovviamente ai vertici ma anche in una base di tesserati che è, a dir
poco, molto dubbia.
Orfini è agevolato nel proprio compito dal fatto che nessuna
componente del Pd di Roma può autoassolversi: appena “scesi in campo”,
perfino i renziani non hanno saputo fare di meglio che stringere
alleanze e costruire cordate con le correnti “storiche” rimaste quasi
intatte dai tempi dei Ds, della Margherita se non addirittura del Ppi,
rimpinguate dagli ingressi di blocchi di nuove adesioni marcate di volta
Udeur, Udc, Forza Italia.
Fra trasversalità e trasformismo, le pieghe di una coalizione
politica e di un partito si aprono a ogni tipo di contagio. Magari
giustificato ideologicamente, con gli affari che fiorivano anche
all’ombra dello storico rapporto preferenziale tra la sinistra romana –
anche quella a sinistra del Pd – e il mondo delle cooperative sociali.
Orfini non dovrà gettare fuori dal cesto delle mele marce: questo lo
stanno già facendo i magistrati, e poi la tesi delle mele marce è troppo
facile. Il Pd nella sua dimensione di governo diventerà davvero un
partito nuovo quando avrà sterilizzato le relazioni tra politica,
amministrazione e impresa; e quando, nella sua dimensione di partito,
avrà dato un ruolo ai nativi democratici contro i cascami delle
correnti, imposto criteri di turnazione frequente nei gruppi dirigenti e
apposto un filtro all’ingresso rivedendo l’intero meccanismo delle
primarie.
L’alternativa al successo del tentativo è già scritta e sappiamo che è
– legittimamente – in un angolo della mente di Renzi: lo scioglimento
del partito delle tessere, la riduzione del Pd a comitato elettorale
secondo il modello americano. Che non è certo la garanzia contro
l’influenza del malaffare, ma almeno asciuga l’acqua intorno ai piranha.
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