In occasione del conferimento della
laurea honoris causa in comunicazione pubblica e d’impresa
all’Università degli Studi di Milano
don Virginio Colmegna
Ringrazio il
Senato Accademico e il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche
dell’Università degli Studi di Milano. Sono davvero onorato di
ricevere questa laurea honoris causa in comunicazione pubblica e
d’impresa da parte di una così importante università della mia
città, dove ogni giorno cerco di impegnarmi, insieme a tanti
collaboratori e volontari, nell’impresa di condividere un cammino
con i più fragili e poveri. Provo in questo momento contentezza e
gratitudine. Per l’amicizia che ci lega, sono certo di interpretare
anche i sentimenti di Luigi e di Gino se vi dico che sento questo
vostro riconoscimento come un’opportunità per ripensare al senso
profondo dell’essere chiamati “preti di strada”.
Siamo preti che vivono con una forte
motivazione evangelica il partire dalla strada come scelta di vita,
che non si stancano di comunicare che l’incontro con i poveri non è
una relazione dove li si utilizza per esercitare bontà ma, come dice
il Papa, essi sono una “categoria teologica”. Da lì passa quel
Gesù che desideriamo incontrare ed attendere. Lì riscopriamo, nella
profondità di una ricerca spirituale, quella cura appassionata che
gli uomini tutti, senza eccezioni, possono scambiarsi tra di loro per
essere più felici. Ci anima una domanda di felicità, una profonda
esigenza di felicità!
Per questo viviamo la strada che non è
il luogo speciale dei più eroici, degli attivisti originali, ma è
la condivisione di un cammino di ospitalità con chi è più
vulnerabile, fragile e senza diritti; ci dà la possibilità di
comunicare a tutti che il punto di partenza, per rendere possibile
una visione di umanità fraterna e solidale, è la giustizia, è la
difesa della dignità di ogni persona. Comunicare, dunque, è
condividere: la parola deriva dal latino cum munis, “mettere
insieme”, e l’etimologia ci rivela la sua caratteristica di
espressione sociale: la comunicazione è mettere un valore al
servizio di qualcuno che è altro da noi, farlo diventare patrimonio
comune per costruire una discussione, un sapere, una cultura.
Il Cardinale Carlo Maria Martini, uno
dei miei maestri, nel suo modo di comunicare utilizzava il metodo che
a me piace definire dell’icona. Traduceva un concetto, spesso non
semplice, in un’immagine efficace, in modo che tutti riuscissero a
capire, ad esempio, il senso profondo del fare operoso che
caratterizza la dinamica della carità evangelica. È stato un arguto
anticipatore quando nel 1991 scrisse per la Diocesi una lettera sulla
comunicazione, paragonando i media ad un lembo del mantello del
Maestro che, in un famoso brano evangelico, la donna ammalata tocca e
subito guarisce, prima ancora che Gesù se ne accorga e le rivolga la
parola. Non c’è sonoro in questa scena, c’è lo zoom su quella
mano che sfiora il mantello e rifiorisce. Ecco un esempio di
comunicazione efficace, profonda, salvifica, che avviene attraverso
un mezzo semplice, povero, ma non insignificante.
Un po’ di quel mantello vorremmo
essere anche noi della Casa della carità che, dalla periferia di
Crescenzago, dove è nato l’amico Gino, parliamo con Milano, con le
parrocchie della Diocesi, con le realtà della società civile, con
le istituzioni e con i più “sprovveduti”, termine usato proprio
dal Cardinal Martini quando annunciò ai Milanesi il dono della Casa
della carità perché, disse, “provvedesse agli sprovveduti”.
Sono questi sprovveduti, poveri di diritti, che ogni giorno bussano
alle nostre porte in via Brambilla, in fondo a via Padova. Da questo
angolo di Milano, modesto e semplice, da dieci anni ci sforziamo di
tessere un dialogo continuo con le diverse culture, i diversi saperi
e le diverse religioni, con le università e i luoghi delle arti, con
il territorio, attraverso le sue associazioni di quartiere, e con la
città, attraverso le sue risorse sociali.
Ho gioito quando ho sentito per la
prima volta Papa Francesco indicare a tutti la strada: “Partire
dalle periferie esistenziali e sociali”. Per me, per noi, per tanti
credenti e non credenti, cristiani o di altre religioni, questo è un
suggerimento prezioso, perché oggi sono le periferie urbane ed
esistenziali il punto strategico da cui guardare se si vuole cambiare
questa società e renderla più giusta. Ecco, allora, che comunicare
non è solo condividere, è scegliere il punto migliore da cui
guardare la realtà per capirla e condividerla.
È questo “sguardo” che il Cardinal
Martini ci ha chiesto di tenere sulla città. Del Cardinal Martini
ricordo un’altra icona, forse la più bella, presa dalla Bibbia,
dal libro della Genesi (cap. 18), dove si racconta di Abramo che
accoglie tre uomini apparsi all’improvviso sotto il sole dell’ora
più torrida del giorno e, dopo aver subito ceduto loro il suo posto
all’ombra delle querce di Mamre, corre a preparare insieme alla
moglie Sara un pranzo con tutto ciò che ha in casa affinché possano
godere di un’ospitalità degna e conviviale.
È un’immagine che resta impressa:
quell’Abramo già anziano, che potrebbe starsene tranquillo a
riposare all’ombra, che potrebbe sbrigarsela offrendo un riparo ai
tre ospiti e che, invece, si dà freneticamente da fare per
accogliere al meglio i tre viandanti, cedendo loro il posto migliore
all’ombra, correndo a preparare da bere e mangiare. È la sintesi
perfetta dell’idea di un’ospitalità generosa, disinteressata,
desiderosa di dare all’altro tutto ciò che si può dare, senza
chiedere all’altro chi è, cosa vuole, cosa è venuto a fare.
Un’ospitalità che sorprende e stupisce, che genera futuro e non ha
nulla a che fare con il buonismo assistenzialista. Questa icona ci
dice che non c’è comunicazione senza sorprese e senza emozione:
questa emozione però non si muoverebbe se Abramo non sapesse
scorgere il suo Signore nell’uomo che domanda ospitalità, che ci
interroga, ci inquieta, non ci rassicura. Non si possono “usare”
i poveri per rafforzare la propria identità: chi è povero dei
diritti e privato dell’umanità interpella la responsabilità di
tutti noi.
Comunicare è rendere le complessità
comprensibili. Comunicare è stabilire un contatto con gli altri.
Comunicare è abbattere divisioni. Ecco perché la Casa della carità
per noi è un soggetto che comunica. Parafrasando il pensiero del
filosofo tedesco Jurgen Habermas nella sua Teoria dell’agire
comunicativo, la Casa della carità è un insieme di dire e di fare,
dunque è un soggetto che comunica. Lo è in quanto luogo dove si
svolgono azioni che parlano e in quanto luogo da cui escono parole
cariche di azione. Dire e fare. È questo un intreccio profondo che
smonta qualsiasi atteggiamento retorico. Personalmente credo che lo
si debba ricondurre anche a tematiche che riguardano la coscienza.
Luigi dice spesso “graffiare le coscienze”, intendendo la
necessità di entrare nel cuore. Ha ragione, c’è un gran bisogno
di ricreare una coscienza educata. Siamo in ritardo e su questo
ritardo pesano molte sconfitte.
Così come ha ragione Gino che non si
stanca mai di dire che bisogna investire molto di più nelle scelte
educative per prevenire e promuovere giustizia. È vero, da loro ho
imparato molto. È un’operazione fortemente culturale quella che
stiamo cercando di imbastire insieme. Non a caso, contro ogni
tentazione di retorica, da tempo con Luigi e Gino diciamo che la
parola “volontari” va archiviata e sostituita con il termine di
“cittadini responsabili”. Per unire azione sociale e ricerca
culturale il Cardinal Martini volle che la Casa della carità
promuovesse un’Accademia della carità; anche in questo guardava
lontano. Perché non basta offrire un tetto, un letto e del cibo ai
più poveri, diceva, occorre promuovere e sollecitare ragionamenti e
riflessioni sui fenomeni di esclusione sociale, se si vuole una città
capace di inclusione.
Occorre promuovere e dare spazio ad una
cultura plurale. Se guardo all’esperienza di questi dieci anni,
Casa della carità è un luogo plurale dove sono passate migliaia di
persone, uomini, donne e bambini provenienti da 95 differenti Paesi
del mondo. È un luogo dove si incontrano le diversità, ma dove
contano i nomi delle persone, i loro volti, la loro soggettività,
dove si cerca di evitare il più possibile qualsiasi rapporto
massificante perché l’obiettivo è aiutare gli ospiti a
riconquistare l’autonomia, prendersi cura dei loro bisogni,
aiutarli (anche se in questo momento potete capire quanto sia
difficile) a trovare un lavoro e una casa. La nostra casa è un luogo
pieno di domande più che di risposte. E comunicare significa fare
domande più che dare risposte.
Il Cardinal Martini ci ha insegnato ad
essere appassionati da questa ricerca e da questa inquietudine: la
cattedra dei non credenti, in questo senso, è stata una strategica
indicazione culturale e credo, per noi preti, anche un’indicazione
pastorale e spirituale. Per fare domande, però, bisogna ascoltare:
alla Casa della carità e in tutti gli anni della Caritas, ma
soprattutto pensando all’avvio a Sesto San Giovanni della
cooperativa Colce e della Grande Casa e all’esperienza di parroco
in un quartiere di periferia, ho ascoltato storie individuali, storie
di ghetti e di baraccopoli, di quartieri difficili, di famiglie
sfrattate, di ospedali dove si viene contenuti, di tanta sofferenza,
di sofferenza mentale, di carceri dove ci si dimentica di essere un
uomo, di persone che hanno lottato per essere considerate persone
normali, ma continuano a portarsi addosso lo stigma dell’esclusione.
In Casa della carità ho imparato la
dinamica di un ascolto che non ammette risposte standardizzate, ma
obbliga ad interrogarsi sulle tante domande che ci vengono poste. È
un luogo dinamico dell’agire e un luogo pensante di ricerca, che ci
richiama però continuamente all’umiltà del sapere perché i
poveri, se li si ascolta con attenzione, ci danno una lezione di vita
che può sedimentarsi in una capacità di pensiero e di riflessione.
Questa onorificenza va consegnata nel suo valore profondo a una
visione di città dove gli ultimi sono portatori di domande di
diritti, che ne siano consapevoli, oppure no. Ho già accennato al
momento di crisi che stiamo vivendo e per questo oggi c’è un
grande bisogno di dare alle persone segni di speranza. Le buone
notizie sono segni di speranza. Comunicare buone notizie deve
diventare un segno di buona comunicazione.
Vladimiro Zagrebelsky, per molti anni
giudice della corte europea dei diritti dell’uomo, quando parlava
del ruolo che la stampa deve svolgere e deve poter svolgere in una
società democratica usava anche lui un’icona, un’immagine nata
nei Paesi anglosassoni: la stampa come cane da guardia della
democrazia, come “un cane che gira libero attorno a casa, orecchie
tese e naso al vento e abbaia, anche più forte del necessario e
qualche volta deve mordere”. Credo, però, che una corretta e
completa informazione non debba trascurare mai quanto di buono
avviene. Ad esempio, quando si racconta di migranti e di rom che
occupano case popolari destinate ad altri, perché non dire anche che
quei rom, ai quali è stata data a Milano una possibilità concreta
di abbandonare la vita nei campi, oggi vivono in case dove pagano
l’affitto, mandando i figli a scuola con regolarità e che si
mantengono lavorando?
Comunicare è impegnativo. Posso capire
i tempi brevi nei quali un cronista deve spesso imbastire un
articolo, ma la fretta non può mai giustificare il racconto di una
parte sola di verità. Proprio perché non hanno diritti e non hanno
voce per essere ascoltati, gli sprovveduti, gli ultimi, i più poveri
tra i poveri, hanno bisogno di non essere considerati unicamente un
problema, un problema di costi, di ordine pubblico o, peggio ancora,
essere indicati come un pericolo. Non hanno bisogno di falso pietismo
e di atteggiamenti elemosinieri. Hanno bisogno di giustizia e di
giusta comunicazione. In Casa della carità abbiamo coniato uno
slogan, “stare nel mezzo”. Significa stare là dove si determina
l’emergenza sociale per superarla gradualmente, impegnandosi in
interventi condivisi, nella convinzione che a partire dall’attenzione
per chi è ai margini si possa produrre benessere per tutti.
Per questo, tra mille difficoltà ma
anche con tanto entusiasmo, io, Gino e Luigi cerchiamo di portare
avanti le nostre realtà che lavorano in quei luoghi e a contatto con
persone che non producono il consenso, inteso come vantaggio politico
o economico. Accogliamo persone senza permesso di soggiorno, ma
abbiamo abolito la parola “clandestino” perché avvertiamo quanta
irregolarità viene prodotta da dei meccanismi legislativi
inadeguati, dall’abitare in strada e da una diffusa sotterranea
disperazione. Ci sono seri giornalisti che hanno saputo fare tesoro
della Carta di Roma, quella stilata nel 2008 che invita i media ad
avere delle attenzioni per gli stranieri, a non violarne la dignità,
a rispettarne la fragilità.
Non di rado specificare in un titolo la
nazionalità dei protagonisti di una notizia può, dice la Carta,
“incidere gravemente sulla convivenza civile e alimentare in modo
pericoloso pulsioni razziste e xenofobe presenti nella nostra
società”. Se la comunicazione non pone tutti sullo stesso piano -
di persone con uguali diritti e uguali doveri- non è buona
comunicazione, ma comunicazione di parte. Per questo la sfida è
culturale: far crescere nella società una visione diversa di
uguaglianza. Io chiamo questa sfida “utopia con i piedi per terra”,
Padre Balducci la indicava con uno slogan impegnativo che mi piace
sempre ricordare: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Don
Tonino Bello preferiva definirla “convivialità delle differenze”.
Nel rileggere in Casa della carità la
parabola del buon samaritano, il Cardinal Dionigi Tettamanzi ci ha
consegnato un’altra icona, quella del samaritano, l’unico a
fermarsi per soccorrere il malcapitato aggredito dai briganti sulla
via che va da Gerusalemme a Gerico, mentre il levita e il sacerdote
non si fermano ma fingono di non aver visto nulla. Alle cure del
locandiere il samaritano affida il malcapitato. La via, la strada che
collega territori diversi, è dove ci si incontra. La locanda è dove
si abita e si condivide. Per questo servono case che siano dimora e
strade che portino alle case, soprattutto in un periodo come questo,
dove la paura esce dai normali e abituali confini e diventa
patologica, viene gestita in modi aggressivi, incapaci di riassumere
la complessità del vivere, incapaci di dare risposte coraggiose che
nascono solo da una profonda visione etica, umana, civile e
spirituale.
Accogliere lo straniero è importante
perché lo straniero è il paradigma di questa alterità radicale e
di una cultura che non vede nell’altro un diverso da escludere, da
espellere, da demonizzare. Per questo è necessaria una comunicazione
coraggiosa. Il coraggio non è comunicare i problemi degli
sprovveduti, il coraggio è comunicare che gli sprovveduti hanno
diritto ad essere ascoltati, ad avere delle risposte e persino a dare
risposte originali per il bene di tutta la collettività. Casa della
carità non sceglie i suoi interlocutori. È scelta. Si tratta di
coloro che, con un termine ormai diventato famoso, definiremmo “vite
di scarto”, vite prodotte dal libero mercato, modello dominante
nella società liquida contemporanea che ai tanti suoi rifiuti ha
aggiunto persone private dei loro modi e mezzi di sopravvivenza, gli
esuli, i richiedenti asilo, i rifugiati della contemporaneità.
Questo mi ha dato la forza di non
tenermi dentro tante storie, tanti volti, tante vite e mi ha dato il
coraggio di comunicarle, nel sogno di una cittadinanza attiva in cui
finalmente la cronaca bianca fa notizia, perché diventino un
messaggio forte e pieno di speranza, che raggiunge il cuore di tanti
uomini e donne del nostro tempo. Per questo, non sembri un paradosso,
dobbiamo recuperare il valore del silenzio, del contemplare. È
quella dinamica contemplativa che il Cardinal Martini indicò nella
sua prima lettera pastorale. La parola che comunica sgorga dal
silenzio.
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