martedì 17 marzo 2015

Le tre spine di un ministro


SEBASTIANO MESSINA 
La Repubblica 17 marzo 2015
Quando la macchia nera della corruzione si spande su appalti per 25 miliardi, quando viene arrestato per corruzione il super-dirigente del ministero che controllava tutte le grandi opere, quando vengono indagati 51 personaggi di ogni colore politico, non si può più parlare di episodi occasionali.
Di casi isolati, di zone d’ombra. È giusto, è corretto, è inevitabile parlare — come hanno fatto i magistrati di Firenze — di «un articolato sistema corruttivo», nel quale chi assegnava quei colossali lavori e chi si aggiudicava gli appalti erano strettamente legati da «reciproci rapporti di interesse illecito». Altre volte, certo, erano emerse le complicità ministeriali ed era affiorato il fiume di denaro che serviva a ungere le ruote dei grandi appalti. Ma il fatto che ieri sia stato arrestato l’uomo che da quattordici anni era il responsabile numero uno delle grandi opere nazionali, quell’Ercole Incalza che fino a pochi mesi fa guidava la Struttura Tecnica di Missione del ministero delle Infrastrutture, legittima il sospetto che il cancro della corruzione sia ormai arrivato — e chissà da quanto tempo — al cuore dello Stato. Autorizza il dubbio — e forse qualcosa di più che un dubbio — che mentre noi coltivavamo l’illusione di uno Stato che magari non riesce a estirpare la malapianta delle tangenti, ma cerca almeno di non farsi imbrogliare dai costruttori, nelle stanze del ministero corrotti e corruttori si incontravano per pilotare gli appalti. Perché era lì, al ministero delle Infrastrutture, che un imprenditore di cui non molti italiani conoscevano fino a ieri il nome — Stefano Perotti — riusciva a ottenere immancabilmente l’incarico di progettare e di dirigere 17 grandi opere, dalle autostrade alle ferrovie, dalle metropolitane all’alta velocità, e l’uomo che doveva essere il suo supercontrollore veniva ricambiato con consulenze e incarichi «lautamente retribuiti».
Tranne Sel e i grillini, che il 4 luglio scorso avevano chiesto le dimissioni di quel dirigente, già pluri-indagato ma mai condannato, questa bomba giudiziaria non risparmia nessuno. Nemmeno il Pd: l’ex sottosegretario Antonio Bargone, l’ex presidente della Provincia di Modena Graziano Pattuzzi, l’ex assessore alla Mobilità dell’Emilia Romagna Alfredo Peri e l’ex consigliere regionale Vladimiro Fiammenghi sono tra i 51 indagati e appartengono all’area politica del partito del presidente del Consiglio, insieme a una variegata compagnia dominata da esponenti del centrodestra, vecchio e nuovo.
Di fronte a queste notizie, i cittadini hanno il diritto di domandarsi a cosa serva avere un’Autorità anticorruzione diretta da un eccellente magistrato se poi dev’essere la Procura di Firenze a scoprire il marcio che c’è in un ministero. E anche quegli italiani che non credono affatto alla propaganda pentastellata che vorrebbe destra e sinistra complici nella corruzione oggi si chiedono come mai, a due anni dall’inizio della legislatura, non sia ancora arrivata in aula la legge contro la corruzione. Di fronte a questi legittimi interrogativi non basta, non può bastare, il tweet con cui Matteo Renzi ha risposto a questo nuovo capitolo di Tangentopoli («Contro corruzione proposte governo: pene aumentate e prescrizione raddoppiata. E l’Autorità oggi è legge con Cantone presidente»). Servono norme immediate ed efficaci. Servono pene più severe. Servono scelte coraggiose, facendo pulizia nelle stanze dei ministeri prima e non dopo l’arrivo dei carabinieri. Questo è ciò che gli italiani si attendono da Renzi.
Ma c’è qualcos’altro, in questa inchiesta, che investe direttamente uno degli uomini più in vista del governo: il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi. Il suo nome non è nell’elenco degli indagati, perché non gli viene contestato alcun reato, ma dalle carte dell’inchiesta emergono tre vicende che chiamano in causa la responsabilità politica del ministro. La prima è che Perotti — l’uomo da 25 miliardi — fece assumere il figlio di Lupi, Luca, da un’impresa amica. Un incarico che secondo Perotti valeva 2.000 euro al mese e per il ministro solo 1.300, ma che l’imprenditore procurò al giovane ingegnere appena laureato definendolo «un giovane che ho bisogno di far entrare», mostrandosi però preoccupato che la cosa si venisse a sapere. La seconda vicenda è il Rolex da 10.350 euro che lo stesso Perotti aveva regalato al giovane Lupi per la sua laurea: facendoglielo consegnare da un funzionario del ministero al quale versava 7.000 euro al mese per suoi servigi, ovviamente in nero. Poi, al terzo posto, c’è l’appassionata difesa che il ministro fa del suo superdirigente e della sua struttura, non solo in Parlamento ma anche in privato: «Su questa roba ci sarò io e ti garantisco che se viene abolita la Struttura Tecnica di Missione non c’è più il governo, hai capito?».
A questo punto, Maurizio Lupi si trova di fronte a due domande. La prima: è eticamente accettabile per un uomo di governo che suo figlio accetti un Rolex da un imprenditore che gestisce lavori pubblici per 25 miliardi e poi vada anche a lavorare per lui? La seconda: quando un ministro difende come ha fatto lui il suo dirigente più potente, minacciando addirittura una crisi di governo se viene toccato quel centro di potere, e poi quel dirigente viene arrestato per corruzione, non sente su di sé la pesantissima responsabilità di non aver capito nulla di ciò che avveniva attorno a lui? Sono due domande semplici, che aspettano una risposta degna di un uomo di governo.

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