martedì 31 marzo 2015

Cameron e la sfida del referendum 
La scommessa che spaventa l’Europa.


Corriere della Sera 31/03/15
Antonio Armellini
Il premier britannico David Cameron ha incontrato la regina Elisabetta II a Buckingham Palace per informarla dello scioglimento del Parlamento in vista delle elezioni del 7 maggio. Si tratta di una formalità che mette fine ai cinque anni di governo di coalizione di conservatori e liberali. «Fra 38 giorni affronterete una scelta difficile», ha poi detto pubblicamente il leader conservatore, dando il via ufficiale alla campagna elettorale, tra le più imprevedibili del Paese, con i sondaggi che danno un testa a testa tra i due maggiori sfidanti, lo stesso Cameron e il laburista Ed Miliband. Il governo resta in carica per l’ordinaria amministrazione, mentre il Parlamento ha chiuso i battenti. La prima seduta della nuova legislatura il 18 maggio; il 27 il discorso della Corona nella Camera dei Comuni.

Resisterà l’Unione Europea sino al 2020? Se il Regno Unito dovesse decidere di uscirne, l’impatto ne potrebbe modificare profondamente la natura e innescare una disgregazione difficilmente arrestabile. L’esito delle elezioni del 7 maggio è tuttora apertissimo: il tema dell’immigrazione alimenta l’euroscetticismo di una parte consistente dell’opinione pubblica, che accusa Bruxelles di aprire le porte a flussi incontrollabili e reclama modifiche radicali su welfare e occupazione. È un nodo delicato per tutti, ma soprattutto per i conservatori: impegnandosi in caso di vittoria a indire un referendum sul «Brexit» — l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue — nel 2017, David Cameron ha fatto una scommessa che rischia di costare cara non solo a lui.

Se dovesse prevalere a maggio, Cameron dovrà spuntare da Bruxelles argomenti atti a favorire un ripudio convincente del «Brexit»: solo così potrebbe cercare di mantenere il controllo del suo partito. Un successo di stretta misura gli permetterebbe forse di sopravvivere, in una sorta di libertà vigilata marcato a vista dagli euroscettici al suo interno. Se dovessero prevalere i no, la sua caduta sarebbe scontata. In entrambi i casi il partito sarebbe sottoposto a forti tensioni e la sirena dell’Ukip (United Kingdom Independence Party, Partito per l’indipendenza del Regno Unito) di Nigel Farage potrebbe attirare buona parte della consistente fronda euroscettica verso un nuovo partito antieuropeo alla destra dei tories.

I laburisti si sono dichiarati contrari al referendum e, se dovessero vincere loro, il problema cesserebbe di esistere. C’è chi come Jon Snow (colonna storica di Channel 4 News e uno dei rarissimi federalisti dichiarati del Paese) teme che la grande stampa tory aprirebbe un fuoco di fila per costringere il governo ad andare comunque al referendum. Ma l’impegno europeo del Labour rimane convinto, ancorché non unanime: ci penserebbero i liberaldemocratici di Nick Clegg, del cui appoggio Ed Miliband avrebbe quasi certamente bisogno, a prevenire derive negative.

L’idea di dare vita ad una entità politicamente integrata capace di fare sentire la voce dell’Europa è stata all’origine del discorso europeo, ma non è entrata a far parte della visione della Gran Bretagna la quale, coerentemente, continua a tenersene lontana. Se per gli euroscettici della destra tory, come Bernard Jenkin, il termine stesso di «unione politica» induce al sospetto, per il leader storico degli europeisti del partito, Kenneth Clarke, esso può solo significare una libera associazione di Stati sovrani, senza strutture federali che potranno essere forse possibili in un futuro lontano, ma in ogni caso senza la Gran Bretagna. L’ambasciatore italiano, Pasquale Quito Terracciano, è un osservatore attento e disincantato della scena britannica: egli ritiene che — differenze sull’euro a parte — l’Europa di Cameron offra più di un punto di contatto con quella cui pensa Matteo Renzi. Se fosse così — e ha probabilmente ragione — sarebbe la conferma che il percorso europeo dell’Italia di oggi è sempre più lontano da quello che ne ha caratterizzato azione e influenza per decenni.

Il tema della Germania attraversa il dibattito con toni contrapposti che lasciano incuriositi e perplessi. Peccando forse di troppo ottimismo, Cameron vede in Angela Merkel un alleato fondamentale, che non vorrà mai rinunciare al contrappeso offerto da Londra al debordare delle ambizioni francesi. Sul fronte opposto Sir Bill Cash, veterano tory di mille battaglie anti-europee, sostiene che l’unione politica dell’Europa porterebbe ad una nuova egemonia tedesca sul continente e la Gran Bretagna non si piegherà mai a un simile disegno. Al di là dell’iperbole, si coglie in questi discorsi l’eco di sbiadite nostalgie di potenza e, al tempo stesso, l’immagine della Germania come avversario storico da contenere, con una forza che non è facile ritrovare altrove.

Il sistema imprenditoriale britannico è tutto schierato per il sì e si prepara alla campagna per il referendum, contrapponendo allo spettro del dirigismo brussellese l’imperativo di non tagliare i ponti con un blocco economico fra i più importanti del mondo. Le possibilità di successo, osserva Lord Adair Turner — il potente ex presidente della Financial Services Authority — dipenderanno in buona misura dalla capacità di associare a quella dell’industria le voci di altri settori strategici della pubblica opinione. A questo scopo, aggiunge, potrebbe tornare assai utile l’esito del recente referendum scozzese.

Alec Salmond, il leader indipendentista dello Scottish National Party, ha ribadito che in caso di «Brexit» la Scozia chiederebbe di aderire all’Unione Europea. La secessione sarebbe inevitabile e il Regno Unito non esisterebbe più. L’Inghilterra, con la coda gallese e nord-irlandese, rimarrebbe una media potenza ma dovrebbe abdicare ad un ruolo politico di primo piano, a partire da quello di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, per il quale verrebbe a cadere ogni giustificazione.

Al pari di altre conseguenze legate al «pasticcio» del referendum, anche questa non è stata chiaramente percepita da un’opinione pubblica in parte scettica sulla possibilità di una vera separazione, e in parte indifferente e male informata. Confrontata con l’imminente realtà di un simile scenario — concorda il Direttore del think tank europeista Cer (Centre for European Research), Charles Grant — potrebbe risvegliarsi e votare per il sì.

Il «Brexit» produrrebbe i suoi effetti ben aldilà del Regno Unito. Assorbire il contraccolpo sarebbe per l’Ue un esercizio tecnicamente possibile, ma politicamente dirompente. Nell’Europa a Ventotto, Londra rappresenta un riferimento essenziale per quanti auspicano un’Unione impostata sulla libertà del mercato e non una federazione tendenzialmente sovranazionale. Se tale riferimento dovesse venire meno, uno dei cardini del dibattito europeo ne risulterebbe fortemente impoverito. Parlare di integrazione differenziata — l’unica via di crescita possibile — sarebbe più difficile e l’intero impianto dell’Ue rischierebbe di diventare prigioniero di rigidità che potrebbero mettere a dura prova le sue regole fondamentali. Sarebbe una manna inaspettata per i movimenti antieuropei di vario segno che vanno crescendo in Europa e la fine dell’Unione, così come è stata sin qui concepita, rischierebbe di farsi un’ipotesi concreta.

Accadrà tutto ciò? Probabilmente no, perché il referendum potrebbe non tenersi e, se si tenesse, il «Brexit» uscirne sconfitto. Dare per scontata una conclusione del genere sin da ora potrebbe rivelarsi però un errore fatale.

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