lunedì 30 marzo 2015

LE SPINE DI OBAMA


FERDINANDO SALLEO
La Repubblica 29 marzo 2015
RICORDA le diatribe politiche interne degli Stati europei, la battaglia che agita l’America nell’ultimo biennio di un presidente, sovente aspra sui temi economici e sociali in vista delle elezioni per la Casa Bianca. Lo scenario di Washington, tuttavia, ha preso crescenti toni oltranzisti con manovre che colpiscono ormai la politica estera degli Stati Uniti e complicano ancor più la gestione delle crisi e i rischi per la stabilità internazionale. Dovrebbe essere una preoccupazione anche per noi europei perché tocca da presso la solidarietà atlantica e la formazione di obiettivi comuni. Dominato dai Repubblicani, il Congresso è apertamente ostile a Obama, anche personalmente e non senza un sottofondo razziale inespresso, mentre i suoi esponenti parlamentari e gli aspiranti candidati alla presidenza fanno a gara su bizzarre posizioni radicali in vista delle primarie, incalzati da settori ideologici tra cui sono ricomparsi i neoconservatori e dai gruppi di pressione, dagli interessi costituiti e dai grandi finanziatori dopo che la Corte Suprema ha eliminato i limiti ai contributi alla politica che inondano di fondi.
La loro strategia concentrica associa la tragedia del Medio Oriente-Mediterraneo e la sorda crisi ucraina in un contesto che mira a esautorare del tutto Obama sul piano politico e privarlo anche della sostanza dei poteri di decretazione — in parte, è vero, controversi sul piano costituzionale — di cui sinora si sono avvalsi molti presidenti. Una risoluzione in corso di trattativa obbligherebbe il presidente a sottoporre al Senato ogni intesa, anche informale, andando questa volta ben di là dal dettato costituzionale. È guerra aperta e senza quartiere, anche se qualche repubblicano vicino alla tradizione cerca prudentemente di nascondersi o di abbozzare cauti contatti con la Casa Bianca.
Così, dopo l’invito a Netanyahu a rivolgere al Congresso l’atteso duro discorso di denuncia del processo di intesa sul nucleare iraniano ormai alle porte, negoziato assieme agli alleati europei e con la possibile collaborazione di Mosca e la legittimazione del Consiglio di Sicurezza, quarantasette senatori repubblicani, capeggiati da McCain che sembra però pentito, sono persino giunti a pubblicare una lettera inviata a Teheran per sottolineare agli ayatollah che il decreto che sancisca un accordo per il rinvio decennale dei progressi verso l’atomica con opportuni vincoli e verifiche potrebbe essere revocato dal prossimo inquilino della Casa Bianca che, ritengono, sarà uno dei loro. L’Iran è stato quindi avvertito del rischio che l’atto non valga tra un anno e mezzo la carta su cui sarà stato scritto. Una decisione che sfiora, se non altro moralmente, l’alto tradimento, l’intesa con il nemico denunciato come pericolo per la sicurezza nazionale. Comunque, rischia di inasprire l’ostilità antiamericana degli estremisti iraniani rendendo un buon accordo quasi impossibile.
Se non altro, le due guerre perdute nel “grande Medio Oriente” dai neoconservatori li hanno dissuasi dal promuovere l’invio di truppe nella regione.
Alla pressione dei repubblicani più radicali per inviare armi a Kiev, pur rischiando un conflitto locale con la Russia che avrebbe distrutto ogni negoziato diplomatico e possibilità di soluzione geopolitica, Obama ha resistito anche con l’appoggio dei più cauti membri della “vecchia Europa”, come ci chiamava Rumsfeld, sfuggendo alle sollecitazioni di taluni nuovi governi dell’Unione preoccupati per il disinvolto avventurismo di Putin nella regione.
Infine, sui due grandi accordi di cooperazione, con l’Asia il Ttp e con l’Europa il Ttip in vista delle premesse per l’integrazione economica di sistema, le lobby mettono in forse i necessari poteri a negoziare senza cui l’incerta ratifica del Senato scoraggia le controparti dal fare concessioni.
Barack Obama non ha mai stabilito con il Congresso e con l’opposizione il rapporto di cordiale, fattivo e continuo dialogo, quella manipolazione diplomatico-politica che molti predecessori avevano creato con i parlamentari dopo lunga consuetudine di attività collegiale, Johnson soprattutto e Ford, ma anche Nixon e lo stesso Clinton — a parte le acute crisi finali delle due presidenze — facendo dei checks and balances tra i poteri dello Stato un sistema funzionale che consentiva intese e compromessi. Assistito da un Consiglio per la Sicurezza nazionale debole e talora incauto — non sono più i tempi di Kissinger, Brzezinski o Scowcroft — Barack Obama appare distaccato e razionale quando si rivolge alla nazione o incontra i governanti stranieri senza spingersi sino al rapporto personale di Roosevelt con Churchill, o di Reagan con Thatcher.
Una visibile disfunzionalità sovrasta il sistema istituzionale che cerca senza troppo impegno una via d’uscita. Anche se è difficile intravedere cambiamenti caratteriali o di stile, il tortuoso processo della scelta dei contendenti del prossimo anno e la consapevolezza che, se l’estremismo può far vincere le primarie, le elezioni presidenziali si vincono al centro, potrebbe ricondurre lo scenario politico di Washington a maggiore senso di responsabilità.



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