lunedì 2 marzo 2015

I pregiudizi sul ruolo del leader


Sergio Fabbrini
Il Sole 24 ore 28 febbraio 2015
La politica è spesso mobilitazione di pregiudizi. Un esempio è la denuncia fatta dalla presidente della Camera dei deputati dell’«uomo solo al comando» (cioè Matteo Renzi) che starebbe minacciando la democrazia italiana. Viene mobilitato il pregiudizio che la leadership coincida con la tirannia, da un politico (Laura Boldrini) che proviene da un partito (Sel) in cui, lì davvero, c'è un uomo solo al comando (Nichi Vendola). Oppure si consideri la discussione sulla riforma elettorale in discussione, l’Italicum, che intende promuovere una competizione tra due partiti e i loro leader. Quella riforma viene denunciata perché promuove l’«uomo solo al comando» (chissà perché le donne non sono mai considerate) da politici, come Matteo Salvini o Renato Brunetta o Luigi Di Maio o Giorgia Meloni, che fanno parte di partiti che sono strettamente personali, come Lega o Forza Italia o 5 Stelle o Fratelli d’Italia. Oppure si guardi al più generale dibattito sulla riforma istituzionale. Non passa giorno che qualcuno non denunci, come ha fatto l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica del 25 febbraio), i cambiamenti istituzionali in corso di approvazione in quanto destinati a smantellare la nostra democrazia costituzionale, «comprimendo la rappresentanza e schiacciando le minoranze, nella logica vincitore-vinti».
Il pregiudizio negativo nei confronti del leader può avere in alcuni casi (la generazione più anziana) una giustificazione ideologica. L’ascesa del leader mobilita il ricordo del capo che parlava dal balcone di Palazzo Venezia. Tuttavia, nella maggioranza dei casi quel pregiudizio riflette la difesa di posizioni di potere. Per addomesticare le sue drammatiche divisioni post-belliche, la democrazia repubblicana ha costruito un sistema istituzionale a potere diffuso (tra le due camere del Parlamento, tra una molteplicità di partiti, all’interno dei più grandi di questi ultimi, tra le burocrazie statali, tra le agenzie e le imprese a partecipazione pubblica), così da prevenire ogni decisione che non godesse di un consenso vastissimo. Quella democrazia ha creato anche una predisposizione diffusa nel Paese, ovvero che la decisione è un vizio da evitare e non già una virtù da coltivare. Per decenni, l’Italia ha così acquisito un carattere oligarchico dalla testa ai piedi. Il funzionamento del Parlamento è stato l’emblema di questa logica: le decisioni venivano prese consensualmente, coinvolgendo tutte le forze politiche, anche a costo di non prenderle affatto. Naturalmente, un sistema che non ha capacità decisionale affida ad altri il compito di prendere decisioni al suo posto. Nel nostro caso, furono spesso gli Stati Uniti e le istituzioni comunitarie ad assumersi questo compito. Ma soprattutto un sistema consensuale è inevitabilmente irresponsabile. Se l’Italia ha ancora una questione meridionale irrisolta (anzi, peggiorata), di chi è la responsabilità?
Le oligarchie sono spaventate dall’arrivo dei leader. Di qui la resistenza accanita contro il leader, nel nostro caso Matteo Renzi, ridotto a «uomo solo al comando». Ma si tratta di una resistenza inefficace. Non solo perché l’Italia è cambiata e ci si è accorti che senza la buona leadership è impossibile risolvere problemi collettivi, innovare un’organizzazione e motivarne i membri. Ma perché è cambiata anche la Repubblica sotto la spinta dei processi di integrazione politica e monetaria. Articoli come quello di Gustavo Zagrebelski o interventi come quello di Laura Boldrini sarebbero impensabili nelle altre grandi democrazie europee. A nessuno verrebbe in mente, in Germania, di denunciare il cancelliere Angela Merkel come «una donna sola al comando», o, nel Regno Unito, il premier David Cameron come «il despota del partito conservatore». Le grandi democrazie non funzionano senza leader. I leader producono beni collettivi. Naturalmente, nessuna grande democrazia è priva di meccanismi per controllare quei leader, sia a livello delle istituzioni che all’interno dei partiti. Tant’è che esse hanno governi e partiti “con” il leader, e non già “del” leader (una distinzione che sembra sfuggire anche a non pochi politologi). Non occorre avere due camere che abbiano gli stessi poteri per tenere sotto controllo il potere esecutivo. Anzi. Così come è errato assumere che spetti al potere legislativo vigilare sul potere esecutivo. Nei parlamentarismi maturi, il governo è tenuto sotto controllo dall’opposizione. Il Parlamento è il luogo dove governo e opposizione si scontrano in nome dei rispettivi elettorati e non delle proprie oligarchie. Attraverso quel confronto gli elettori possono maturare le loro opinioni. Le democrazie moderne sono democrazie elettorali di massa. Non già quei regimi di ottimati che suscitano la nostalgia dei difensori del parlamentarismo assemblearista.
I cambiamenti istituzionali in corso hanno certamente i loro difetti. Tuttavia, se approvati, possono rendere l’Italia più simile alle grandi democrazie guidate, o con il leader, dell’Europa. Invece di mobilitare pregiudizi, sarebbe meglio guardare come esse funzionano. Per questo è necessario che l’Italicum preveda il ballottaggio tra i primi due partiti, così come è necessario che il bicameralismo simmetrico venga sostituito da un monocameralismo politico. Entrambi i cambiamenti possono creare le condizioni per rafforzare la capacità decisionale del governo (introducendo in futuro anche il voto di sfiducia costruttiva) e la capacità di controllo dell’opposizione (prevedendo in futuro anche l’istituzionalizzazione del governo-ombra.

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