L'approvazione della riforma costituzionale in commissione sembra
poca cosa di fronte ai nuovi dati sulla crisi economica. Invece la
connessione c'è, e spinge a insistere sulla strada delle riforme
istituzionali.
Da una parte c’è il voto di una commissione parlamentare, solo
il primo, su un testo di legge che dovrà avere ancora molti passaggi.
Dall’altra ci sono correzioni in peggio di previsioni economiche che
riaprono scenari inquietanti: manovre correttive, aumenti di tasse,
pesanti tagli di spesa (tutte ipotesi ieri scartate seccamente dal
presidente del consiglio).
Le due dimensioni non sembrano paragonabili, quanto a impatto sulla
realtà italiana. Un percorso di auto-riforma della politica, per quanto
atteso e apprezzato, suonerà sempre distante dalla condizione di
famiglie e imprese rispetto ai conti che non migliorano e ai consumi che
non ripartono. Oggi molti commentatori rimarcheranno il contrasto e lo
metteranno a carico del governo, provando a sminuire il successo della
prima approvazione della riforma costituzionale che mette fine al
bicameralismo in vigore dal 1947.
Non è una contraddizione alla quale si possa rispondere facendo
spallucce: i dati economici sono veri e preoccupanti, le previsioni sul
Pil vanno riviste al ribasso con le conseguenze del caso, Padoan ne ha
parlato con Napolitano.
Renzi però ha un ragionamento semplice da proporre, che di per sé non
risolve nulla ma restituisce il senso di quanto si sta facendo. Perché
la connessione tra crisi e riforme delle istituzioni c’è, eccome.
Non saranno né una ricetta né un’ideologia, tanto meno una manovra, a
risolvere la crisi. La sua dimensione globale, che non risparmia
nessuno, imporrà la ricerca di soluzioni tutte politiche. Nuovi
strumenti, revisioni dei trattati, cambi di rotta che oggi appaiono
irrealistici e potranno divenire obbligati. A quel punto conteranno la
credibilità e l’energia che paesi e leadership sapranno mettere in
gioco, perfino più delle rispettive condizioni di salute economica.
Ecco la gigantesca prova di forza ingaggiata da Renzi. Dimostrare che
l’Italia può andare contro i suoi tabù e contro i suoi vizi ancestrali.
Non risanarsi miracolosamente da sola, ma presentarsi al momento delle
decisioni avendo rimesso a posto le tessere del puzzle impazzito che è
il nostro sistema, essendoci liberati di scorie e zavorre, avendo
recuperato fiducia e orgoglio per il semplice fatto di aver cambiato in
casa nostra ciò che sembrava impossibile cambiare. Insomma: senatori che
votano a grande maggioranza la sostanziale fine della propria stessa
istituzione. Non proprio un fatterello banale e scontato, direi.
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