Prosegue l'offensiva su Gaza, ore decisive: tregua o guerra su
larga scala? Peres e Rivlin, il presidente israeliano uscente e il
neo-eletto, firmato un appello comune per la pace: «Fermare la violenza è
nelle nostre mani»
Il sangue sparso nelle scorse settimane sta cambiando alleanze
ed equilibri della politica israeliana. Oggi Avigdor Lieberman –
ministro degli esteri, leader della destra di Yisrael Beitenu e alleato
di Benjamin Netanyahu alle ultime elezioni – ha annunciato che il suo
patto col partito del premier deve considerarsi concluso. Non lascia il
governo, ma il cartello elettorale Likud-Beitenu non esiste più. In
altre parole: preparatevi al voto in tempi rapidi.
Lieberman accusa Netanyahu di essere troppo cauto nella gestione
dell’ultima crisi con Hamas. Vorrebbe un’operazione massiccia contro il
movimento islamista, forse addirittura un’invasione di terra di Gaza.
Netanyahu è più prudente. Lui, che fino a pochi giorni fa veniva
considerato un “falco”. Per capire la vicenda bisogna fare un passo
indietro.
Il 30 giugno vengono ritrovati i corpi dei tre ragazzi israeliani
spariti diciotto giorni prima dalla colonia di Gush Etzion, in
Cisgiordania, poco lontano da Hebron. La sera stessa si tiene una
riunione d’urgenza del governo israeliano. Lieberman non c’è: è a
Berlino per una missione diplomatica. La destra del governo – con in
testa il ministro dell’economia Naftali Bennett, del partito della
Patria israeliana – vuole un’immediata dichiarazione di guerra ad Hamas.
L’ala moderata dell’esecutivo, la capo-mediatrice coi palestinesi Tzipi
Livni e il ministro delle finanze Yair Lapid, chiede cautela. Netanyahu
sta nel mezzo: i falchi non prevalgono, partono i bombardamenti contro
Hamas ma non l’operazione militare su vasta scala.
Poi l’omicidio di Mohammed Abu Khder,
sedicenne palestinese arso vivo a Gerusalemme. Gli assassini –
probabilmente – sperano di innescare una spirale di violenza. La
reazione di una buona parte della società civile israeliana, però,
spinge nella direzione opposta. Questa vendetta non ci appartiene, ci
ripugna, dicono voci più o meno autorevoli. Fino alla lettera pubblicata oggi da Yedioth Ahronoth, tra i principali quotidiani israeliani, e scritta a quattro mani da Shimon Peres e Reuven Rivlin. Il
presidente della repubblica uscente e quello entrante, un uomo della
sinistra e uno della destra, uniti nell’appello per la pace.
«Sia dannato colui che dice: vendetta!», esordiscono i due presidenti
citando il poeta Hayim Nahman Bialik. «È il momento di scegliere una
strada comune. È il momento di guardare a ciò che ci unisce e non a
quello che ci divide. È il momento di credere nella nostra capacità di
vivere insieme, in questa terra. Non abbiamo scelta, non abbiamo altra
terra. È il momento di prevenire il prossimo spargimento di sangue. È
nelle nostre mani».
In questo clima, Netanyahu è rimasto in bilico tra le due posizioni. I
droni israeliani stanno colpendo Gaza, e Hamas ha annunciato oggi
almeno sei vittime tra i suoi miliziani. Mentre i missili di Hamas
colpiscono le regioni meridionali di Israele. Ma l’attacco su larga
scala ancora non è partito. «Non capisco cosa stiamo aspettando», ha
incalzato Lieberman nella conferenza stampa di stamattina, in cui
annunciava la rottura dell’accordo con Netanyahu.
La situazione ricorda in parte quella del novembre 2012: Netanyahu,
nel ruolo di super-falco, lanciò l’operazione “Colonna di nube” contro
Gaza. Ma si fermò un attimo prima di avviare l’operazione di terra, con
gli Stati Uniti che lo invitavano alla prudenza.
Tante cose sono cambiate da allora. L’Onu ha riconosciuto lo Stato di
Palestina. Netanyahu, alle elezioni del gennaio 2013, ha perso molti
dei suoi consensi di fronte all’avanzata dei centristi di Yai Lapid. E
Hamas non è più isolata: oggi è al governo con Fatah, e una buona parte
della comunità internazionale preme per un accordo con il governo
israeliano.
Tutti gli scenari sono aperti: da un lato la guerra, dall’altro
l’accordo tra Hamas e Israele. Con le sue dimissioni Lieberman vuole
fare pressione su Netanyahu, ma anche tenersi libere le mani nel caso in
cui la trattativa vada in porto (notano gli osservatori che durante la
conferenza stampa di stamattina il ministro degli esteri era
nervosissimo). Ancora una volta, sono ore decisive per la pace in Medio
Oriente.
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