David Grossman
La Repubblica 8 luglio 2014
Speranza e disperazione. Ci sono stati
anni in cui abbiamo oscillato fra le due. Oggi sembra che la maggior
parte degli israeliani e dei palestinesi si trovi in uno stato
d’animo nebuloso, piatto, privo di orizzonte. In un torpore ottuso,
in un’auto-narcosi.
AL giorno d’oggi, in un Israele
avvezzo alle delusioni, la speranza (sempre che qualcuno vi faccia
cenno) è immancabilmente insicura, un po’ timida, sulla difensiva.
La disperazione invece è disinvolta, risoluta. Pare che parli a nome
di una legge della natura o di un assioma che stabilisce che questi
due popoli saranno per sempre condannati alla guerra e non avranno
mai pace. Agli occhi della disperazione chi ancora spera, o crede, in
una possibilità di pace è, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo
o un visionario delirante, e, nella peggiore, un traditore che,
irretendo gli israeliani con miraggi, ne indebolisce la capacità di
resistenza.
In questo senso la destra ha vinto. È
riuscita a instillare la sua pessimistica visione del mondo nella
maggior parte degli israeliani. E si potrebbe dire che non solo ha
sconfitto la sinistra, ma che ha sconfitto Israele. Non tanto perché
questo suo modo di vedere le cose spinge lo stato ebraico a una
condizione di paralisi su un terreno tanto cruciale per lui, dove
servirebbero audacia e flessibilità e creatività, ma perché ha
sconfitto quello che un tempo si sarebbe potuto definire «lo spirito
israeliano»: quella scintilla, quella capacità di rinascere a
dispetto di tutto. Ha annientato il nostro coraggio e la nostra
speranza.
Nell’ambito più importante della sua
esistenza Israele è quasi del tutto immobile, se non addirittura
impotente. Stranamente, però, questa situazione non comporta una
sofferenza visibile per i suoi leader e per gran parte dei suoi
cittadini che sono bravissimi a compiere una netta separazione tra lo
stato di cose esistente e la loro coscienza. Molti israeliani vivono
così da molti anni, quarantasette per la precisione, e nemmeno
troppo male, laddove di fatto, al centro del loro essere, c’è il
vuoto. Un vuoto di azioni e di coscienza in cui si verifica
un’efficace sospensione del giudizio morale.
Lo scrittore americano David Foster
Wallace racconta di due pesciolini che, mentre nuotano in mare,
incontrano un anziano pesce. Salve ragazzi, li saluta l’anziano,
come va? Alla grande, rispondono i due. E l’acqua, com’è?
Domanda il vecchio. Ottima, gli rispondono. Poi lo salutano e
continuano a nuotare. Dopo qualche istante uno dei pesciolini domanda
all’altro: dì un po’, ma cosa diavolo è l’acqua?
Ascoltate l’acqua. L’acqua in cui
nuotiamo e che beviamo da quarantasette anni. Alla quale siamo
talmente abituati da non percepirla. È la vita che scorre qui,
ancora indubbiamente piena di vitalità e di creatività ma anche un
po’ folle, con un’atmosfera caotica da saldi di fine stagione, da
disturbo bipolare in cui mania e depressione si intrecciano, in cui
la sensazione di possedere un grande potere si alterna a cadute di
profonda debolezza. Una vita che scorre in una democrazia compiaciuta
di se stessa, con pretese di liberalità e di umanesimo ma che da
decenni si impone su un altro popolo, lo umilia e lo schiaccia. Una
vita che scorre nel forte clamore dei media, in gran parte mirato a
distrarre l’opinione pubblica e a intorpidire i sensi. Come si può
infatti resistere in una situazione simile senza distrazioni, senza
un po’ di autonarcosi? Come si possono affrontare, per esempio, le
conseguenze della cosiddetta “opera di insediamento” e il pieno
significato di questa folle scommessa sul futuro del paese? Ascoltate
l’acqua: sotto la melma nella quale sguazziamo ormai da
quarantasette anni c’è una corrente profonda e gelida: il terrore
di un errore storico, di uno sbaglio madornale, di ciò che, sotto ai
nostri occhi, sta assumendo la forma di uno Stato binazionale, o di
uno Stato di apartheid, o militare, o rabbinico, o messianico.
Nella disperazione israeliana c’è
anche uno strano elemento, una specie di gaiezza per l’imminente
catastrofe, o per la delusione. Una sorta di gioia maligna nei
confronti di chi ha visto deluse le proprie speranze. Una gioia
particolarmente distorta perché, in fin dei conti, ci rallegriamo
delle nostre stesse disgrazie. Talvolta sembra che nell’animo degli
israeliani frema ancora l’offesa del 1993 quando, con la firma
degli accordi di Oslo, osarono credere non solo che il nemico si
fosse trasformato in un partner, ma che le cose avrebbero anche
potuto andar bene qui, che un giorno saremmo stati bene. È come se
avessimo tradito noi stessi — dicono i rappresentanti del partito
della disperazione — per essere stati tentati a credere a qualcosa
di totalmente contrario alla nostra esperienza, alla nostra tragica
storia, a un qualche segno distintivo del nostro destino. E per
questo abbiamo pagato e ancora pagheremo, con gli interessi. Ma per
lo meno, da ora in poi, nessuno più ci coglierà in fallo, non
crederemo più a niente, a nessuna promessa, a nessuna opportunità.
E anche se Mahmoud Abbas si batterà con tutte le sue forze per
prevenire il terrorismo contro gli israeliani, anche se proclamerà
che verrà a Safed, sua città natale, unicamente come turista, anche
se dichiarerà che la Shoah è il peggior crimine della storia umana
e attaccherà ferocemente gli assassini dei tre ragazzi rapiti, il
primo ministro israeliano Netanyahu si affretterà a versargli in
testa un secchio d’acqua gelata.
È interessante notare che sebbene
Israele abbia seriamente tentato la via della pace con i palestinesi
soltanto una volta, nel 1993, è come se avesse deciso di rinunciare
per sempre a perseguire questa possibilità dopo quel fallito
tentativo. Anche qui entra in gioco la logica distorta della
disperazione. La strada della guerra, dell’occupazione, del
terrorismo, dell’odio, l’abbiamo provata decine di volte senza
stancarci né scoraggiarci. Come mai invece ci affrettiamo a
respingere definitivamente quella della pace dopo un solo fallimento?
Israele, naturalmente, ha molte ragioni
di preoccuparsi, di stare in ansia. Ma proprio davanti a pericoli e
minacce la disperazione e l’inazione non possono essere considerate
una linea politica efficace. L’attuale governo israeliano, come i
suoi predecessori, si comporta come se fosse prigioniero della
disperazione. Non ricordo di aver mai sentito un discorso di seria
speranza da parte di Netanyahu, dei suoi ministri e dei suoi
consulenti. Nemmeno una parola sul sogno di vivere in pace, sulle
possibilità racchiuse in un simile ideale, o sull’opportunità che
Israele si inserisca in un intreccio di nuove alleanze e interessi in
Medio Oriente. Come ha fatto la speranza a trasformarsi in un termine
volgare, colpevolizzante, secondo per pericolosità soltanto a
“pace”? Guardateci: il paese più forte della regione — una
potenza, in termini locali — che gode dell’appoggio quasi
inconcepibile degli Stati Uniti, della simpatia e del sostegno di
Germania, Inghilterra e Francia, dentro di sé si considera ancora
una vittima impotente. E si comporta come tale: vittima delle proprie
paure, reali o immaginarie, delle atrocità sofferte in passato,
degli errori di vicini e nemici.
Quale speranza ci può essere in una
situazione tanto difficile? Una ce n’è, malgrado tutto. La
speranza che, senza ignorare i pericoli e le numerose difficoltà, si
rifiuta di vedere solo quelli. La speranza che, se le fiamme del
conflitto si affievoliranno, potrebbero ancora emergere, a poco a
poco, i tratti sani ed equilibrati dei due popoli sui quali comincerà
ad agire il potere terapeutico della quotidianità, della saggezza
della vita, del compromesso, di una sensazione di sicurezza
esistenziale grazie alla quale poter crescere i figli senza la
minaccia della morte, senza l’umiliazione dell’occupazione, senza
la paura del terrorismo, e aspirare a un tessuto di vita semplice,
familiare, fatto di lavoro e di studio.
Oggi, nei due popoli, agiscono quasi
esclusivamente agenti di disperazione e di odio. Potrebbe essere
quindi difficile credere che la visione che ho prospettato sia
possibile. Ma una realtà di pace comincerà a forgiare agenti di
speranza, di vicinanza e di ottimismo, che abbiano un interesse
concreto e privo di risvolti ideologici a creare sempre più contatti
con i membri dell’altro popolo. Forse, un giorno, fra molti anni,
ci saranno un riavvicinamento più profondo e persino rapporti di
amicizia tra questi due popoli. Tra questi esseri umani. Non sarebbe
la prima volta nella storia.
Io mi aggrappo a questa speranza e la
custodisco in me perché voglio continuare a vivere qui. Non posso
permettermi il lusso della disperazione. La situazione è troppo
grave per esse- re lasciata ai disperati e, accettarla con
rassegnazione, sarebbe di fatto un’ammissione di sconfitta. Non una
sconfitta sul campo di battaglia ma una sconfitta umana. Nel momento
infatti in cui accettiamo che la disperazione ci governi qualcosa di
profondo e di vitale in noi esseri umani ci viene negato, ci viene
portato via. Chi segue una linea politica che, di fatto, non è che
una sottile patina di rivestimento di un sentimento di profonda
disperazione, mette in pericolo l’esistenza di Israele. Chi si
comporta in questo modo non può sostenere di «essere un popolo
libero nella nostra terra». Può forse cantare la Tikvah, la
Speranza, il nostro inno nazionale, ma nella sua voce, al posto della
parola «speranza», echeggerà «disperazione ». «Una disperazione
di duemila anni».
Noi, che da moltissimi anni chiediamo
la pace, continueremo a insistere sulla speranza. Una speranza
consapevole e che non si dà per vinta. Che sa di essere, per
israeliani e palestinesi, l’unica possibilità di sconfiggere la
forza di gravità della disperazione.
Nessun commento:
Posta un commento