Renzi approfitta di un estremismo anti-riforme che rimarrà
schiacciato nel referendum. I suoi avversari in realtà lo stanno
aiutando. Fin troppo
Il sistema per arrivarci è decisamente anomalo, diciamo un escamotage.
L’obiettivo però è cruciale: dare ai cittadini elettori l’ultima parola
sulle riforme della Costituzione sulle quali ci si sta scontrando in
parlamento. Lo strumento referendario in materia costituzionale è
specificatamente previsto ed è stato già utilizzato: una volta ha
confermato la riforma del Titolo V con la quale nel 2001 il
centrosinistra aveva cercato di evitare la sconfitta elettorale;
un’altra volta ha bocciato il pacchetto del centrodestra nato nelle
famose sere estive di Lorenzago. Due riforme strappate in parlamento con
maggioranze di parte, con quorum inferiori ai due terzi, quindi
insufficienti a evitare il decisivo test popolare.
Ma il quorum fissato nella Carta del ’47 aveva senso in un’epoca di
solidità del sistema parlamentare. Oggi sarebbe consigliabile sottoporre
al giudizio degli italiani perfino una legge approvata dai tre terzi di
deputati e senatori, oltre tutto eletti col Porcellum. Di qui
la “trovata” del Pd: autoridurre le dimensioni del voto finale sulla
riforma Boschi, in modo da poter poi dare la parola agli elettori.
E subito c’è chi lo chiama plebiscito. L’abbiamo già notato:
gli avversari delle riforma Boschi si fanno forti di una asserita
volontà popolare di mantenere il senato elettivo, e su questa base
descrivono lo scenario di terribili colpi di mano e spaventose svolte
autoritarie. All’apparire però di un referendum confermativo, la gran
parte di loro dimentica la virtù superiore del suffragio universale e
denuncia l’operazione gollista: una posizione davvero molto debole.
Noi cerchiamo di essere più equilibrati. E sinceri.
È vero che, sulla sua linea politica e nella sfida con gli
oppositori, Matteo Renzi gode di tre maggioranze sovrapposte e
crescenti: quella parlamentare delle larghe intese, ereditata dal voto
del febbraio 2013; quella, più ampia e più concentrata sul suo partito,
uscita dalle Europee del maggio scorso (palesemente connessa al
programma di riforme); infine quella virtuale che fin d’ora gli
garantiscono tutti i sondaggi e che verosimilmente Renzi saprà aggregare
sulla scelta secca pro o contro bicameralismo.
Questa constatazione non esclude però il rischio plebiscitario,
casomai lo conferma. Ed è giusto riconoscere che se in un momento fra il
2015 e il 2016 Renzi dovesse ottenere il placet referendario sulle sue
riforme, il risultato andrebbe molto oltre il tema istituzionale, e c’è
da immaginare che l’incasso politico ed elettorale sarebbe immediato.
Al di là delle simpatie di parte, fa paura questa prospettiva? Invece
di spaventarsi sarebbe meglio lavorare fin d’ora a creare le condizioni
affinché una vittoria politica non si trasformi in potere squilibrato,
eventualità che non deve piacere a nessuno: è tutto un tema di garanzie
da potenziare nelle istituzioni e di credibilità da conquistare di
fronte all’opinione pubblica. Ebbene, dall’opposizione di questi giorni
alla riforma Boschi, per come è condotta, non scaturiranno né garanzie
migliori né un più forte contrappeso al renzismo.
Nel fronte anti-riforma ci sono molti, forse la maggioranza, che
hanno come vero unico obiettivo la totale sconfitta del premier. Ora,
prima che possa rafforzarsi ulteriormente.
Ce ne sono però anche altri sinceramente interessati al merito
istituzionale, e a riequilibrare su questo terreno i rapporti di forza
col segretario del Partito democratico.
Costoro farebbero meglio a rinunciare alla linea della spallata, che è
perdente e li schiaccia sull’oltranzismo. Molto più logico e produttivo
sarebbe abbandonare l’ostruzionismo, entrare nell’orizzonte della
riforma accettando i paletti per il Pd irrinunciabili, lavorare su
correzioni sui punti di garanzia (per esempio i referendum) e
soprattutto sull’incrocio tra nuovo assetto istituzionale e legge
elettorale, visto che in ogni caso l’Italicum dovrà quasi sicuramente essere rivisto.
Non sarebbe una resa a Renzi (mentre perdere davanti a lui nel
referendum confermativo equivarrebbe a una disfatta). Sarebbe un
servizio ai cittadini, in primis a quelli critici e preoccupati.
Ci si sfilerebbe dal fronte del No, bersaglio troppo facile per un
premier icona dell’ottimismo. Si ricostruirebbe, nella partecipazione
alle riforme, un ruolo politico non negativo da spendersi in futuro.
È un discorso che vale in particolare per Sel e per la Lega. Certo
non per Cinquestelle preda delle sue contraddizioni, né per i suoi
fiancheggiatori di ambiente intellettuale e giornalistico: i più
arrabbiati di tutti perché più di tutti hanno da perdere dalla
rifondazione per via di riforme di un “paese normale” liberato dalle
scorrerie di bande contrapposte di odiatori di professione.
Scontiamo oggi il fatto che il doppio binario immaginato dal
prsidente Napolitano per Monti e poi per Letta (al governo gli
interventi economici e sociali, al parlamento l’autoriforma della
politica) si sia rivelato un binario morto. Il parlamento non era
riuscito a produrre nulla, prima di dover partire alla rincorsa di una
leadership affamata. L’intera legislatura si stava arenando, insieme
all’immagine dell’Italia, in un gioco estenuante (assai poco trasperente
e quindi assai poco democratico) di veti incrociati.
Quello che accade oggi è il bello e il brutto di una situazione
anomala nella quale si intrecciano due percorsi che, certo, sarebbe
stato meglio tenere distinti.
Non è colpa di Renzi, se le cose sono andate così. Ma è evidente che è
Renzi, l’uomo «dell’ultima spiaggia», che può beneficiarne. In che
misura – se tanto o poco, il giusto o troppo – dipenderà anche dalla
saggezza dei suoi avversari: dovessero continuare a sbagliare, a
insistere a stare nel posto peggiore, poi non potranno lamentarsi quando
si manifesterà la tanto evocata volontà popolare.
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