MASSIMO L. SALVADORI
Ecco la scena: i leader dei tre
maggiori partiti, e non solo, messi di fronte a contestazioni, in
parte aperte e in parte coperte, del loro ruolo; le riforme
universalmente invocate, ma molte divisioni e sottodivisioni in
relazione al volto che queste dovrebbero assumere; la rivendicazione
in materia avanzata da dissidenti, collocati trasversalmente, del
diritto di ciascun parlamentare di opporsi per motivi di “coscienza”
ai deliberati delle rispettive maggioranze di partito in quanto
giudicati persino pericolosi per la stessa democrazia.
Circa la disponibilità universale a
varare le riforme, teniamola per quel che vale: niente; poiché è
come la conclamata volontà che nessuno vorrebbe negare di perseguire
il bene pubblico. In concreto ciò che si osserva sono acuti
contrasti. Condizione in verità normale secondo la dialettica
democratica; sennonché il problema è che i contrasti dalle
conseguenze più rilevanti sono dentro il Pd e Fi, dove emergono
critiche intransigenti da parte di bellicose minoranze nei confronti
della linea dei leader e delle maggioranze che li seguono (ma ora,
per quanto riguarda Fi, dopo la sentenza liberatoria di Milano
occorre attendere di vedere in che misura il politicamente
ringiovanito Berlusconi sarà in grado di mettere in riga l’ala
protestante dei Fitto e compagni). Anche tra i 5 Stelle le nuvole
nere non sono poche e il Grillo parlante ha i suoi sudditi riottosi.
La sfida al leader si presenta
rilevante soprattutto nel Pd, dove Renzi si trova a misurarsi con uno
stato di cose palesemente contraddittorio. Infatti, da un lato egli è
fortissimo: per la clamorosa vittoria conseguita alle Primarie, il
successo eclatante alle elezioni europee e il consenso dimostratogli
da eminenti partner dell’Ue; dall’altro però è non poco
indebolito dal fatto che tra il Pd rispecchiato nei suoi gruppi
parlamentari — espressioni di una precedente stagione ma in grado
di far valere il potere decisionale che quella stagione ha loro
consegnato — e il partito degli iscritti e degli elettori
conquistati dal giovane leader si è interposta un’ombra profonda.
In settori influenti dei gruppi e nelle minoranze del Pd non viene
meno la resistenza a Renzi, un segretario e un presidente del
Consiglio non amato, mal sopportato, ma molto temuto, che si vuole
contrastare tanto nella gestione nel partito quanto nel disegno delle
riforme. Si oppone resistenza a che il Pd diventi il “partito di
Renzi”, su cui vengono fatte gravare le accuse ogni giorno ripetute
di neoberlusconismo e decisionismo autoritario. Alle quali Renzi
risponde che coloro i quali gli remano contro sono gufi, e anche,
quando perde maldestramente le staffe, persone timorose di un nuovo
che potrebbe sbalzarli dalle poltrone. Serpeggia, insomma, nei
maggiori partiti in particolare e in generale nell’intero arco
politico un malessere che mette in luce squilibri tutt’altro che di
secondaria importanza.
Ma veniamo alle rivendicazioni dei
parlamentari che affermano il diritto (Chiti, Mineo, Minzolini e
altri) di opporre il dissenso che sale dalla loro “coscienza” —
in difesa dello spirito autentico della Costituzione e della
democrazia — rispetto all’orientamento prevalente nei propri
partiti. È una posizione ineccepibile. Un parlamentare non ha
vincolo di mandato, è e ha da essere e rimanere libero di obbedire
alla sua coscienza. Sennonché un uomo di partito sceglie in quanto
tale di operare in un organismo che può agire con efficacia alla
condizione che entro di esso prevalga il principio di maggioranza, il
quale è il fondamento di una democrazia che non sia soltanto libertà
di espressione ma anche da ultimo la capacità di far prevalere un
progetto sull’altro. Se, dunque, la minoranza si convince che la
maggioranza — caso di estrema gravità — diventi portatrice di
progetti antidemocratici, allora essa ha il diritto-dovere di negare
il proprio consenso. Ma è chiaro, andando al sodo delle
implicazioni, che quanto dettato dalla coscienza politicamente non ha
altro significato se non la messa in atto di una linea politica
alternativa. Affermare: io ho una coscienza pura e democratica e per
questo mi oppongo, suggerisce di necessità che gli altri,
consapevolmente o inconsapevolmente, coscienza e spirito democratico
non abbiano. Tutto ciò pone o quanto meno dovrebbe porre ai
dissidenti l’interrogativo circa la natura e il senso dei loro
rapporti con i partiti cui appartengono.
È presumibile che assisteremo a
scomposizioni e ricomposizioni nel nostro sistema politico tali da
darci una mappa politica segnata da rimescolamenti e rimodellamenti.
Mappa la quale non si delinea ancora, ma che — dato che i partiti
sono agitati da fibrillazioni e appaiono organismi dai collanti
incerti, divenuti per aspetti assai rilevanti decisamente ambigui —
pare essere insieme inevitabile e augurabile.
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