EZIO MAURO
La Repubblica - 19/7/14
A un anno di distanza, la sentenza
d’appello sul caso Ruby assolve completamente Silvio Berlusconi dai
due reati di concussione e prostituzione minorile, ribaltando del
tutto la condanna di primo grado a sette anni che era andata
addirittura oltre la richiesta del Pubblico Ministero Boccassini. Un
rovesciamento clamoroso che cancella due accuse infamanti per
chiunque ma insopportabili per qualunque uomo politico, e toglie
l’ostacolo penale più grande dal pesante percorso giudiziario del
Cavaliere, già condannato definitivamente a quattro anni per frode
fiscale nel processo Mediaset e oggi indagato a Milano nel caso
Olgettine per corruzione in atti giudiziari, imputato a Napoli per la
compravendita di senatori nel processo De Gregorio, sotto richiesta
di rinvio a giudizio a Bari per aver pagato Tarantini inducendolo a
mentire sulle escort.
Il processo Ruby era la madre di tutte
le battaglie di Berlusconi con la magistratura, anche perché
riassumeva in sé molti degli elementi di un potere legittimo che
concepiva se stesso come sciolto da ogni limite e ogni controllo,
dunque sproporzionato nella concezione dei privilegi privati e degli
abusi pubblici, intrecciati tra loro. Una storia che aveva fatto il
giro del mondo, con la vergogna politica di far votare ad un
parlamento succube la favola capace di trasformare una minorenne
marocchina in nipote di Mubarak, dunque in caso internazionale.
OGGI la Corte d’Appello sanziona che
non c’è stata concussione nella telefonata in cui il presidente
del Consiglio ordinò al capo di gabinetto della questura di Milano
di consegnare immediatamente e nottetempo la ragazza Ruby ad una
vedette del bunga-bunga spacciata per “consigliere ministeriale”:
che appena dopo averla sottratta alla polizia abbandonò la minorenne
da una prostituta brasiliana. Il fatto non sussiste, anche perché
nella riforma approvata in fretta e furia all’epoca del ministro
Severino la fattispecie della concussione si restringe e occorre
dimostrare un vantaggio per il funzionario concusso. Così come non
c’è, secondo la Corte, il reato di prostituzione minorile,
probabilmente perché l’utilizzatore finale (come lo ha chiamato
l’avvocato Ghedini) non conosceva l’età della minorenne nelle
notti ad Arcore.
Resta tuttavia da spiegare — se il
Paese e i giornali volessero saperlo — la ragione di tanta fretta e
di un così grande affanno, i motivi di quelle bugie enormi, il
terrore che Ruby restasse in mano alla questura o nella tutela del
tribunale dei minori, la necessità di costruire ad ogni costo non un
aiuto alla ragazza (la prostituta brasiliana non può esserlo) ma una
scappatoia notturna a interrogatori, domande, possibili risposte.
Perché questa impalcatura avventurosa, quest’ansia notturna che
spinge un presidente del Consiglio ad interferire nelle procedure
abituali della polizia dopo un furto, a far balenare addirittura un
incidente diplomatico, a mandare una fidatissima olgettina a
“esfiltrare” Ruby dalla questura per poi subito abbandonarla a
missione evidentemente compiuta?
Non si tratta più di ipotesi
criminali, dopo la sentenza d’appello. Si tratta tuttavia di
interrogativi logici e perfettamente legittimi, soprattutto se
riguardano un leader politico che al momento aveva anche
responsabilità di governo. Nulla di moralistico, come dicono i
cantori, nulla di voyeuristico. Siamo dentro il territorio pieno
della politica, del profilo pubblico di un Primo Ministro, dell’uso
privato che fa della sua carica e del suo peso istituzionale.
Dell’imbarazzo repubblicano — come accadrebbe in ogni democrazia
occidentale — per questa vulnerabilità costante che spinge ogni
volta un Capo di governo a sporgersi oltre il limite alzando la posta
dell’abuso per i potenziali ricatti, imprigionato in una rete
evidente di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari
vergognosi, pagamenti affannosi, e il contorno di taglieggiamenti
incrociati di profittatori e mezzani come Lavitola e Tarantini.
Scriviamo oggi le esatte parole che
abbiamo usato un anno fa, al momento della condanna in primo grado:
la questione è politica, non soltanto giudiziaria, nient’affatto
moralistica. Questa evidente fragilità privata del Cavaliere rende
vulnerabile la sua funzione pubblica, spiega l’eccesso di comando —
grado supremo della sovranità carismatica — come forma politica di
una potestà sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia
perenne. Un potere statale che protegge se stesso con ogni mezzo e in
ogni forma e, dopo aver sempre privatizzato la funzione pubblica, nel
caso Ruby rende pubblica persino la sfera privatissima del Capo.
Risolto il caso giudiziario (in attesa
del- la Cassazione), rimane dunque ancora molto da capire: o da
spiegare, senza giudizi morali, ma piuttosto con responsabilità
politica. Forse adesso, liberato dall’incubo di una condanna che
sommandosi alla pena del processo Mediaset avrebbe potuto cancellare
i benefici dei servizi sociali, il Cavaliere può dare qualche
spiegazione al Paese. Svelando il movente inconfessabile che lo ha
spinto a rischiare una condanna a 7 anni per non lasciare una giovane
ragazza ladra una notte in questura, fuori da ogni controllo della
potestà di Arcore. Perché la polizia di Stato era un pericolo? E
per chi?
Ci sono molte cose da chiarire, e
Berlusconi potrebbe cominciare a farlo. Anche perché finisce con
questa sentenza la leggenda della persecuzione giudiziaria nei
confronti del Cavaliere: sarebbe bene che finisse anche la
persecuzione politica della destra berlusconiana nei confronti della
giustizia, con intimidazioni preventive come la marcia incredibile
dei parlamentari davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, e con
rivendicazioni postume, come chi oggi dopo l’Appello vuole brandire
la riforma della giustizia come una clava.
Per noi, come un anno fa a sentenza
ribaltata, conta il fatto che sia resa giustizia e cioè che i
processi possano arrivare fino in fondo nonostante impedimenti di
ogni tipo, assicurando uguaglianza di trattamento dei cittadini
davanti alla legge. E perché ciò si compia, serve la reciproca
autonomia tra politica e magistratura. Ecco perché è sbagliato,
oltre che ridicolo, il corto-circuito che Forza Italia tenta un
minuto dopo la sentenza, riscrivendo in forma eroica il disastroso
addio del Cavaliere al governo, quasi fosse un “colpo di Stato”
prodotto dal caso Ruby e non la presa d’atto finale dello
sfarinamento di una leadership. Si tratta di un pretesto ideologico
per costruire un’epica ideologica a posteriori, che nella
dissimulazione della condanna e delle imputazioni esistenti narra al
Paese la falsa leggenda della vittima innocente per costruire un
percorso impossibile che arrivi alla grazia.
Ieri la cornice di pretesto era la
pacificazione: oggi l’assoluzione. Lo Stato è come sempre il mezzo
strumentale, prima la maggioranza di governo delle larghe intese, poi
l’intesa per le riforme. Ma lo Stato, la sua ri-definizione
istituzionale di norme e regole, non sopportano scambi sottobanco,
ricatti, patti segreti di garanzia invisibile. Oggi Berlusconi è
stato assolto da due reati infamanti per un Premier: si deve
dargliene atto. La sua vicenda giudiziaria resta complicata e
pesante, per il passato e per il futuro immediato: deve prenderne
atto.
Questa è la realtà dei fatti.
Berlusconi può riagguantare un partito stremato e diviso,
immediatamente impaurito dal suo ritorno a capotavola. Ma non può
riagguantare un intero sistema politico sottoponendolo nuovamente ad
un ricatto istituzionale, per scambiare riforme costituzionali con
salvacondotti privati. Ci proverà, ma inutilmente, e a quel punto
minaccerà di far saltare il tavolo delle riforme. Anche qui
inutilmente, per due ragioni: perché esistono altre maggioranze
riformatrici possibili. E soprattutto perché nessuna riforma vale il
prezzo dell’autonomia delle politica e delle istituzioni e al
contrario, della loro deformazione.
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