Il dovere di “pensare” e aiutare i popoli mediorientali ad
accettare le vie della ricostruzione di una geografia politica
rispettosa dei diritti di sopravvivenza e convivenza di tutti
Le drammatiche notizie che continuano a pervenire da Israele e
Gaza stanno scuotendo il mondo intero, costretto ad assistere pressochè
paralizzato perché, ancora a cento anni dall’inizio della prima guerra
mondiale, non è riuscito a costruire la forza della politica e della
diplomazia nei conflitti internazionali. Anche la “nostra” guerra nacque
così, nella distrazione e sottovalutazione delle potenze europee,
bloccate dalla convinzione dell’ineluttabilità. E pure oggi, in presenza
di una guerra che ha già provocato la morte di oltre mille persone nel
cuore dell’Europa, l’Europa sembra assente.
Comunque immobile, come se le cose potessero sistemarsi da sé e non
rischiassero invece di innestare nuovi processi di intensificazione e
allargamento. Figuriamoci se “questa” Europa, divisa ed egoista, può
posare il suo sguardo su quanto sta accadendo nel perimetro del
Mediterraneo e nell’entroterra più prossimo. Non basta giustificarsi
dicendo che al punto in cui sono giunte le cose non si sa cosa fare.
Occorreva – e occorrerà nell’immediato futuro – lavorare perché le cose
non giungessero a questo punto, posto che nulla di quanto sta accadendo
era imprevedibile.
Anzi, negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze europee si sono
rese responsabili dell’aggravamento della situazione, come nel caso
della guerra in Iraq e dell’improvvisato sostegno a quelle che avrebbero
dovuto essere le primavere arabe. Pensare che il modello di democrazia
occidentale potesse essere esportato e rappresentare la soluzione per
paesi pur oppressi da forme di dittature giustamente inaccettabili ai
nostri occhi, senza un esame serio dei diversi contesti e senza una
strategia di sostegno effettivo e duraturo è stato un errore.
Da più parti a suo tempo si è sottovalutato (quando non
ridicolizzato) l’ammonimento di un profondo conoscitore del mondo arabo e
in particolare mussulmano come don Giuseppe Dossetti, secondo cui la
lunga memoria di quei popoli, la loro attitudine a sedimentare l’odio,
la loro propensione all’uso della violenza come strumento di dominio ed
espansione religiosa, avrebbe portato a un continuo rivolgimento degli
equilibri in tutta l’area del vicino e Medio Oriente e, da ultimo, alla
espulsione progressiva dei cristiani da luoghi per loro sacri.
Ne hanno parlato in queste settimane su Europa tra gli altri Guido Moltedo, Aldo Maria Valli e da ultimo, con un articolo che in effetti è un bellissimo saggio storico, Franco Cardini.
Di per sé qualcuno potrebbe pensare che si tratterebbe di una
non-notizia poiché i cristiani dovrebbero conoscere e accettare il
destino della Croce, ma la politica ha il dovere di altro tipo di
ragionamento e responsabilità. Deve cioè intervenire là dove si
perpetuano ingiustizie e violenze, e l’espulsione dei cristiani dai loro
Luoghi ha un rilievo politico enorme. Non fosse altro perché la loro
presenza lì ha il merito e il valore della rappresentazione di un
pensiero “altro” rispetto a quello di culture dominanti che non
conoscono, o non conoscono in misura sufficiente, i valori del perdono,
della solidarietà, della vita, della convivenza, del pluralismo
religioso, senza di cui sarà assai difficile cambiare la situazione.
Quanto sta accadendo, nei conflitti fra sciiti e sunniti, fra
islamici in genere e curdi, fra islamici e cristiani, fra israeliani e
palestinesi, è l’affermazione di un sistema di controvalori rispetto a
quelli del cristianesimo. Se tale sistema di controvalori lo si lascia
crescere e dilagare, ciò che osserviamo oggi potrà risultare solo la
prima parte di un processo che può investire direttamente e
indirettamente anche l’Europa.
Anche per ciò la denuncia di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera,
sull’“Indifferenza che uccide”, riguardo al fenomeno delle persecuzioni
dei cristiani, a causa della perdita in occidente del senso religioso e
della paura che paralizza soprattutto l’Europa, è condivisibile, ed
evocherebbe – a mio avviso – una iniziativa del nostro governo che, per
bocca del suo presidente in varie occasioni, ha mostrato sensibilità e
anticonformismo rispetto ad altri governi dell’Unione, e ha anche
ottenuto un risultato importante con la liberazione di Meriam, la
ragazza sudanese condannata a morte per la sua fede cristiana.
Non c’è dubbio infatti che l’occidente negli ultimi venti anni si è
mostrato privo di strategia al riguardo. L’Europa non ne parliamo. Così
come non c’è dubbio che se scattassimo una istantanea oggi sul quadro
mediorientale, non possiamo che riconoscere che ha ragione Israele nel
pretendere di disarmare i palestinesi di Gaza, cioè l’arsenale militare e
ideologico che attenta alla sua esistenza (pur non avendo ragione
nell’uso sproporzionato di forza militare e nell’assoluto rifiuto di
fermarsi di fronte ai drammatici costi umani che esso determina), ma se
solo allarghiamo la prospettiva sul piano storico e su quello del futuro
prevedibile, non possiamo non renderci conto che di questo passo il
conflitto è destinato a sfuggire di mano e ad accumulare ulteriori e
ancora più poderosi serbatoi di odio destinati a rendere in primo luogo
ancora più insicura l’esistenza “in pace” di Israele stesso. La spirale
va fermata sin che si è in tempo.
Cosa accadrebbe infatti se i palestinesi della Cisgiordania
aderissero (vi sono già manifestazioni di piazza a Ramallah, piuttosto
inquietanti) alla ripetute sollecitazioni provenienti dall’Iran e dal
Qatar ad aprire un nuovo fronte? E se (sto parlando di scenari
tutt’altro che improbabili) crollasse la Giordania sotto la pressione
dei miliziani dell’Isis, i quali sono già penetrati a Mann, a soli 250
kilometri da Amman? Israele si sentirebbe più sicura? Non credo proprio.
Ma torniamo alla riflessione del professor Cardini. Ieri ha scritto
che, a un certo punto della storia recente: «La pesante e spregiudicata
politica britannica cominciò a diffondere tra le popolazioni arabe un
pregiudizio nuovo, per esse prima sconosciuto: l’astio verso gli
occidentali. E dal momento che era (e resta) comune la confusione tra
Occidente e Cristianità, l’odio antioccidentale si andò traducendo da
allora anche in odio indiscriminatamente anticristiano». La guerra
contro l’Iraq – aggiungo io – ha fatto il resto. All’odio verso gli
ebrei si è così aggiunto quello verso i cristiani.
Ecco perché l’Europa, che nella sua coscienza da un lato porta il
peso della shoah e dall’altro è custode di quei valori cristiani che
hanno forgiato la civiltà della tolleranza e del pluralismo religioso,
ha oggi il dovere di “pensare” e aiutare i popoli mediorientali ad
accettare le vie della ricostruzione di una geografia politica
rispettosa dei diritti di sopravvivenza e convivenza di tutti.
Accogliendo in tal modo l’appello disperato di tanti donne e uomini di pace guidati da Nurit Peled, cittadina israeliana che ha perso una figlia in un attentato kamikaze, Premio Sakharov dell’Ue: «Noi cittadini di Israele e popolazione senza Stato della Palestina, non possiamo da soli ottenere la fine dell’occupazione e fermare il bagno di sangue. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutta la comunità internazionale e della Unione europea in particolare…».
Accogliendo in tal modo l’appello disperato di tanti donne e uomini di pace guidati da Nurit Peled, cittadina israeliana che ha perso una figlia in un attentato kamikaze, Premio Sakharov dell’Ue: «Noi cittadini di Israele e popolazione senza Stato della Palestina, non possiamo da soli ottenere la fine dell’occupazione e fermare il bagno di sangue. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutta la comunità internazionale e della Unione europea in particolare…».
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