La durezza della reazione israeliana può anche portare alla crisi
di Hamas. Ma chi riempirà il suo vuoto? E nell'Anp Abu Mazen è sempre
più screditato. L'unico in grado di ridare credibilità alla politica
palestinese è Marwan Barghouti, attualmente in prigione.
Rappresaglia, un termine esecrabile che avrebbe dovuto finire
per sempre negli archivi della storia e che invece i media impiegano,
con un discutibile retropensiero, per descrivere la reazione israeliana
all’uccisione di Gil-Ad Shaer, Eyal Yifrah e Naftali Fraenkel. Vendetta.
Punizione collettiva. Annientamento. Anche queste sono parole dure da
sentire, ma sono comprensibili se sono sulla bocca di cittadini
israeliani intervistati dalle tv internazionali che raccontano dal vivo
lo stato d’animo di un paese sotto shock e addolorato dopo il
ritrovamento dei cadaveri dei tre giovani, due sedicenni e un
diciannovenne, rapiti il 12 giugno scorso.
Se però questa è la “linea” prevalente nel governo israeliano, è
molto più difficile da capire. Sono state valutate le conseguenze di una
guerra con Hamas, perché di questo si tratterebbe?
Prima ancora che si arrivasse al tragico epilogo della tragedia dei tre giovani, Janiki Cingoli scriveva sull’Huffington Post
che «ci si deve chiedere, ammesso e non concesso che con questi mezzi
si riesca a estirpare Hamas dalla Cisgiordania, chi riempirebbe il vuoto
da esso lasciato, se le forze più moderate o non piuttosto i gruppi
jihadisti e qaedisti, come già è successo in Iraq e in Siria».
Ci si dovrebbe, anzi, innanzitutto chiedere se i rapitori siano
membri di Hamas o siano stati coperti dall’organizzazione islamista,
come afferma il governo d’Israele. Hamas respinge l’accusa ma lo fa con
un’ambivalenza sospetta. Ammettere che un evento così grave sia successo
a sua insaputa o contro i suoi interessi, sarebbe ammettere che non ha
più il monopolio e il controllo delle operazioni terroristiche contro
Israele e che già gruppi collegati al jihad sono presenti e operativi in
Cisgiordania.
Che questo stia effettivamente avvenendo o possa presto avvenire è il
tema cruciale su cui ragionare, tenendo conto di quanto sta accadendo
nella regione: in Siria, in Iraq e, si teme, presto in Giordania. E
nello stesso Egitto, dove il silenzio imposto dal pugno di ferro del
generale Sissi non significa che l’estremismo islamico sia fuori gioco.
Caso mai è vero il contrario. Si può pensare che il mondo palestinese
possa restare immune al “contagio” qaedista?
L’ala oltranzista del governo Netanyahu non sembra rendersene conto,
quando chiede ancora più durezza e, cinicamente, propone di promuovere
nuovi insediamenti in memoria dei tre giovani rapiti e uccisi. Una
decisione di evidente violazione internazionale, che sarebbe vista come
un basso calcolo politico in un momento in cui la comunità
internazionale si stringe intorno a Israele. In più non farebbe che
esasperare lo stato d’animo dei palestinesi.
Dove porta tutto questo? Nell’immediato, politicamente, all’ulteriore
delegittimazione di Abu Mazen, sempre più un leader solitario di fronte
al suo popolo e al suo stesso partito. Nessun dirigente di rango di al
Fatah – neppure i più moderati – ha espresso posizione di condanna il
rapimento dei tre ragazzi, né ha difeso il presidente dell’Anp, che ha
collaborato con Israele nella ricerca dei rapiti.
Tra un mese circa ci sarà la conferenza generale di al Fatah, che è
il gruppo politico più importante nell’Olp, nel corso della quale sarà
eletta la nuova leadership. Il candidato più accreditato è Marwan
Barghouti, leader della prima e della seconda intifada, detenuto dal
2002. Lo chiamano il “Mandela palestinese”, ed è il leader più popolare
in Cisgiordania e a Gaza. In queste ore di tensione altissima in
Israele, sarebbe assurdo aspettarsi una qualche apertura verso la
possibilità di consentire a Barghouti di assumere pienamente, al più
presto, la guida dei palestinesi. Ma più in là, più a freddo, ci si
dovrà rendere conto che è questo l’unico percorso plausibile per aprire
un processo di dialogo tra Israele e palestinesi.
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