mercoledì 2 luglio 2014

Il rischio jihadista alle porte di Gerusalemme

Guido Moltedo 
Europa  

La durezza della reazione israeliana può anche portare alla crisi di Hamas. Ma chi riempirà il suo vuoto? E nell'Anp Abu Mazen è sempre più screditato. L'unico in grado di ridare credibilità alla politica palestinese è Marwan Barghouti, attualmente in prigione.
Rappresaglia, un termine esecrabile che avrebbe dovuto finire per sempre negli archivi della storia e che invece i media impiegano, con un discutibile retropensiero, per descrivere la reazione israeliana all’uccisione di Gil-Ad Shaer, Eyal Yifrah e Naftali Fraenkel. Vendetta. Punizione collettiva. Annientamento. Anche queste sono parole dure da sentire, ma sono comprensibili se sono sulla bocca di cittadini israeliani intervistati dalle tv internazionali che raccontano dal vivo lo stato d’animo di un paese sotto shock e addolorato dopo il ritrovamento dei cadaveri dei tre giovani, due sedicenni e un diciannovenne, rapiti il 12 giugno scorso.
Se però questa è la “linea” prevalente nel governo israeliano, è molto più difficile da capire. Sono state valutate le conseguenze di una guerra con Hamas, perché di questo si tratterebbe?
Prima ancora che si arrivasse al tragico epilogo della tragedia dei tre giovani, Janiki Cingoli scriveva sull’Huffington Post che «ci si deve chiedere, ammesso e non concesso che con questi mezzi si riesca a estirpare Hamas dalla Cisgiordania, chi riempirebbe il vuoto da esso lasciato, se le forze più moderate o non piuttosto i gruppi jihadisti e qaedisti, come già è successo in Iraq e in Siria».
Ci si dovrebbe, anzi, innanzitutto chiedere se i rapitori siano membri di Hamas o siano stati coperti dall’organizzazione islamista, come afferma il governo d’Israele. Hamas respinge l’accusa ma lo fa con un’ambivalenza sospetta. Ammettere che un evento così grave sia successo a sua insaputa o contro i suoi interessi, sarebbe ammettere che non ha più il monopolio e il controllo delle operazioni terroristiche contro Israele e che già gruppi collegati al jihad sono presenti e operativi in Cisgiordania.
Che questo stia effettivamente avvenendo o possa presto avvenire è il tema cruciale su cui ragionare, tenendo conto di quanto sta accadendo nella regione: in Siria, in Iraq e, si teme, presto in Giordania. E nello stesso Egitto, dove il silenzio imposto dal pugno di ferro del generale Sissi non significa che l’estremismo islamico sia fuori gioco. Caso mai è vero il contrario. Si può pensare che il mondo palestinese possa restare immune al “contagio” qaedista?
L’ala oltranzista del governo Netanyahu non sembra rendersene conto, quando chiede ancora più durezza e, cinicamente, propone di promuovere nuovi insediamenti in memoria dei tre giovani rapiti e uccisi. Una decisione di evidente violazione internazionale, che sarebbe vista come un basso calcolo politico in un momento in cui la comunità internazionale si stringe intorno a Israele. In più non farebbe che esasperare lo stato d’animo dei palestinesi.
Dove porta tutto questo? Nell’immediato, politicamente, all’ulteriore delegittimazione di Abu Mazen, sempre più un leader solitario di fronte al suo popolo e al suo stesso partito. Nessun dirigente di rango di al Fatah – neppure i più moderati – ha espresso posizione di condanna il rapimento dei tre ragazzi, né ha difeso il presidente dell’Anp, che ha collaborato con Israele nella ricerca dei rapiti.
Tra un mese circa ci sarà la conferenza generale di al Fatah, che è il gruppo politico più importante nell’Olp, nel corso della quale sarà eletta la nuova leadership. Il candidato più accreditato è Marwan Barghouti, leader della prima e della seconda intifada, detenuto dal 2002. Lo chiamano il “Mandela palestinese”, ed è il leader più popolare in Cisgiordania e a Gaza. In queste ore di tensione altissima in Israele, sarebbe assurdo aspettarsi una qualche apertura verso la possibilità di consentire a Barghouti di assumere pienamente, al più presto, la guida dei palestinesi. Ma più in là, più a freddo, ci si dovrà rendere conto che è questo l’unico percorso plausibile per aprire un processo di dialogo tra Israele e palestinesi.

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