Corriere della Sera 26/07/14
Un tetto puro e semplice agli stipendi
è la soluzione più facile e diretta. Ma forse non la cura più
efficace per eliminare certi compensi astronomicamente ingiusti corsi
nelle tasche degli alti burocrati per troppo tempo e insieme far
trionfare la meritocrazia nella Pubblica amministrazione. Tanto per
fare un esempio il tetto non ha effetti su retribuzioni magari appena
più modeste, ma certo altrettanto ingiustificate. C’è quindi da
domandarsi se non funzioni meglio, in funzione del merito, un sistema
di retribuzioni fortemente variabili sulla base di valutazioni serie,
rigorose e soprattutto indipendenti. Fatta questa doverosa premessa,
è davvero difficile contraddire Matteo Renzi sul fatto che 240 mila
euro l’anno non siano un parametro più che adeguato per le buste
paga di Camera e Senato. Dove la cosiddetta «autodichìa», ovvero
quel principio secondo il quale gli organi costituzionali gestiscono
in piena autonomia e senza controlli esterni le proprie risorse, ha
prodotto situazioni di privilegio inenarrabili e
anacronistiche.
Legate a folli automatismi, come la
sopravvivenza di una specie di generosissima scala mobile e un
meccanismo di scatti capace di far salire anche del 400 per cento lo
stipendio netto dall’assunzione alla pensione, le retribuzioni dei
dipendenti avevano raggiunto livelli assolutamente senza senso,
mandando letteralmente in orbita le spese di Montecitorio e Palazzo
Madama. Per non parlare di regimi pensionistici che non hanno pari
nel mondo del lavoro pubblico e privato. Il tutto grazie ad accordi
scellerati con un pulviscolo di sindacati interni, costantemente
protesi alla difesa degli interessi corporativi.
Più dei valori
assoluti, dicono tutto certi rapporti. Lo stipendio medio di un
dipendente della Camera e del Senato, sulle basi dei rispettivi
bilanci, è superiore a 150 mila euro lordi l’anno (la paga
dell’amministratore delegato di un’azienda privata), mentre
quello del loro collega della Camera dei comuni britannica si aggira
intorno ai 40 mila euro. Quattro a uno. Le segretissime tabelle
retributive del Senato informavano nel 2008 che la retribuzione di un
commesso (il livello inferiore della scala) al massimo livello della
carriera poteva raggiungere 159 mila euro lordi l’anno. Mentre
quella di uno stenografo che avesse completato il quarantesimo anno
di attività era in grado di toccare 289 mila euro: tremila euro in
meno dell’appannaggio annuale del Re di Spagna, o 70 mila in più
del compenso del segretario generale dell’Onu, se preferite. Fece
scalpore, nel 2006, la rivelazione dell’Espresso secondo cui il
segretario generale del Senato Antonio Malaschini percepiva 485 mila
euro l’anno: quando è uscito da Palazzo Madama, pochi anni dopo,
viaggiava intorno ai 550 mila. Nel 2012, da sottosegretario alla
presidenza del governo Monti, ha reso noto l’ammontare della sua
pensione parlamentare: 519 mila euro lordi l’anno. Quasi il doppio
dell’indennità del presidente degli Stati Uniti, Barack
Obama.
L’esempio delle Camere ha prodotto a cascata guasti
anche in molte Regioni. Dove gli apparati politici, rivendicando la
stessa «autodichìa» degli organi costituzionali, hanno dilagato
con modalità in qualche caso decisamente peggiori. Stipendi
stellari, assunzioni clientelari, strutture ipertrofiche e
inefficienti. Come documenta il rapporto sui costi della politica
preparato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon per il
commissario alla spending review Carlo Cottarelli, i venti Consigli
regionali italiani spendevano per il personale nel 2012 quasi 360
milioni di euro. Somma paragonabile, considerando il numero degli
eletti, a quella delle due Camere. Nella sola Sicilia, con il
governatore Rosario Crocetta che ha denunciato scandalizzato che la
retribuzione del segretario generale dell’Assemblea regionale
sarebbe addirittura più alta di quelle dei suoi colleghi di
Montecitorio e Palazzo Madama, il personale consiliare costa la
bellezza di 86,6 milioni: contro i 20,8 della Lombardia, Regione che
ha una popolazione doppia.
Cose che se erano già inaccettabili
anni fa, quando l’economia arrancava ma il Paese galleggiava, oggi
lo sono ancora di più. Un insulto alla realtà di una disoccupazione
a livelli record da quarant’anni, di un Prodotto interno lordo
crollato dal 10 per cento dall’inizio della crisi, di una povertà
che cresce a livelli vertiginosi, di una speranza per i giovani di
trovare lavoro semplicemente inesistente.
Quella vecchia
impalcatura di privilegi appartiene a un mondo che ormai non esiste
più. Va solo smantellata. E chi si ostina ancora a difenderla,
sappia che difende ormai l’indifendibile.
Nessun commento:
Posta un commento