Corriere della Sera 27/07/14
Il caso dell’insegnante lasciata a
casa da una scuola religiosa trentina per non essere disposta a
nascondere la propria convivenza omosessuale pone una questione di
difficile soluzione: prevale la tutela della libertà morale e
sessuale dell’insegnante, o la tutela della libertà religiosa
della scuola?
Il problema nasce dal fatto che non può esserci
vera libertà politica o religiosa per tutti se non viene garantita
anche la libertà delle associazioni politiche o religiose di
selezionare il proprio personale secondo criteri di coerenza con le
rispettive idee. Questo è il motivo per cui in tutti gli ordinamenti
democratici viene protetta la libertà di pensiero e di attività
politica delle persone, ma al tempo stesso anche la libertà dei
partiti di escludere dai propri organici chi ha un orientamento
politico diverso; la libertà religiosa e morale delle persone, ma al
tempo stesso la libertà delle Chiese e associazioni religiose di
esigere l’adesione al proprio credo da chi da esse dipende.
Non
ci sarebbe vera libertà di opinione circa temi etici caldi come
quello dell’aborto o dell’eutanasia se si vietasse
all’Associazione Luca Coscioni di escludere Paola Binetti dal
novero dei propri collaboratori, né se si vietasse a Radio Maria di
fare l’esame di catechismo ai propri speaker. A patto, ovviamente,
che la «causa» sia lecita, cioè non sia soggetta a uno specifico
divieto. Per esempio, il decreto legge n. 122/1993 commina una
sanzione penale per chi promuova idee razziste o xenofobe; e vieta la
costituzione di associazioni che abbiano tale finalità.
Ora,
nel caso da cui siamo partiti la «causa» che la scuola religiosa
trentina intende sostenere comporta l’affermazione secondo cui
l’esercizio dell’omosessualità costituisce un male, un
comportamento immorale, «contro natura». L’opinione di moltissimi
italiani, tra i quali chi scrive, e probabilmente anche di papa
Francesco, è che questa affermazione sia sbagliata e contraria allo
spirito del Vangelo; una cosa, però, è certa: oggi in Italia
sostenere questa tesi non è vietato. Anche il disegno di legge n.
1052/2013, approvato dalla Camera dei deputati nel novembre scorso e
attualmente all’esame del Senato, che si propone di prevenire e
reprimere le manifestazioni di omofobia, esclude dal divieto «la
libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni
riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino
all’odio o alla violenza».
Tuttavia possiamo affermare con
altrettanta certezza che la discriminazione ai danni di un lavoratore
riferita al suo orientamento sessuale oggi in Italia è, in linea
generale, positivamente vietata: lo stabilisce il secondo comma
dell’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori, a seguito di
un’integrazione apportata nel 2003. E una recente raccomandazione
del Consiglio dei ministri Ue invita gli Stati membri a porre in atto
misure efficaci non solo per vietare, ma anche per prevenire la
discriminazione omofobica.
Così stando le cose, tre scuole di
pensiero si confrontano: quella secondo cui, quando è in gioco una
prerogativa essenziale della persona qual è l’esercizio della sua
sessualità, la tutela della sua libertà morale deve prevalere in
ogni caso sulla tutela della libertà della scuola privata; quella
intermedia, sostenuta da Nadia Urbinati su Repubblica di mercoledì
scorso e diffusamente condivisa, secondo cui lo Stato può
subordinare il sostegno finanziario al rispetto da parte della scuola
privata del divieto generale di discriminazione; infine quella
secondo cui la libertà di pensiero e di religione sarebbe lesa anche
dal condizionare il finanziamento pubblico a una scuola religiosa al
rispetto da parte sua del divieto di discriminazione. Quest’ultima
linea di pensiero corrisponde di fatto al modo in cui vanno le cose
in Italia, dove è accaduto più volte che scuole e atenei religiosi
abbiano licenziato per motivi ideologici pur beneficiando di
finanziamenti pubblici.
La soluzione intermedia parrebbe a prima
vista la più equa. Ma per sposarla occorre superare due argomenti
molto forti a sostegno, rispettivamente, delle due tesi estreme. Il
primo è quello di chi osserva che negare alla scuola A, perché
sostiene una sua ideologia, il finanziamento pubblico concesso invece
alla scuola B che aderisce a quella statuale, non è poi così
diverso dal mettere fuori legge la prima e, in ultima analisi,
limitare la libertà ideologica di entrambe.
Drammaticamente
opposto è l’argomento secondo cui negare a una persona, sia pure
solo nell’ambito di un rapporto di lavoro, la libertà di
manifestare il proprio orientamento sessuale menoma la sua esistenza
più intimamente di quanto non faccia una riduzione della sua libertà
di manifestazione del pensiero: una mutilazione che neppure la tutela
della libertà di una comunità religiosa, con o senza finanziamento
pubblico, potrebbe giustificare.
La questione è aperta. La
soluzione incerta come poche.
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