Gli stati del Novecento hanno fallito, la proclamazione del
Califfato dell'Isis ne è il sintomo. Servono nuove entità su base etnica
Nessuno sa bene cosa fare dopo la proclamazione del Califfato da
parte dello Stato islamico dell’Iraq e del levante. E questo per buone
ragioni, perché è l’intero sistema statuale in Medio Oriente a saltare.
La stabilità interna della regione è seriamente compromessa, ma anche
l’intervento esterno risulterebbe assai problematico. Gli Stati Uniti
vedono fallire la loro strategia di promuovere una rete di paesi
partner, addestrando ed equipaggiando le loro forze armate. Alla prova
della realtà si vede che non funziona.
Si pensava che costruire un esercito professionale iracheno fosse una
garanzia verso l’esterno ma vediamo con sorpresa avvenire l’opposto.
Nessuna analisi può cogliere perfettamente un quadro dominato da
emozioni e da forze estranee a quello che conosciamo. E allora che fare?
La risposta è all’evidenza molto difficile. E probabilmente non ce n’è
una sola per tutti. Credo però che sia arrivato il momento di ragionare
di più, coraggiosamente, sul concetto di un principio organizzativo
nuovo, che veda l’emergere di entità politiche su una base etnica.
Alawita nella Siria occidentale, e poi curda, sunnita e sciita.
Ridisegnare gli attuali confini degli stati mediorientali non sarebbe
certo una vittoria, ma a questo punto cosa è meglio per gente che soffre
ogni giorno di più? Abbiamo un precedente in Bosnia che non ci fa
gonfiare d’orgoglio, ma lì non si muore più e qualche convivenza civile
è assicurata.
In ogni caso la scomparsa del confine statale fra Iraq e Siria, e il
collasso dello stato iracheno, sono eventi così radicali da imporci uno
sguardo nuovo, con occhi ben attenti. Cominciamo col dire che nella
vasta regione che va dall’Atlantico al Golfo Persico, i paesi “storici”
sono assai pochi. Lo stesso nome di Siria è stato ripescato dall’epoca
romana, come quello della Libia. Quasi tutti i confini del Medio Oriente
sono frutto degli accordi di compromesso fra Londra e Parigi intorno al
1925.
Ma questi vecchi equilibri all’evidenza non tengono più; di fatto è
in corso una decomposizione delle entità statali su linee etniche e
religiose. Iraq, Siria, Libano e Libia ne sono gli esempi più eclatanti.
Né abbiamo nostalgia di dittatori che tengano tutto insieme con la
forza.
Il secondo punto da tenere a mente è che va riconsiderata l’idea che
lo svolgimento di elezioni indichi di per sé un progresso verso la
democrazia. Negli ultimi mesi si svolte prove elettorali in molti paesi:
in ciascun caso si è visto piuttosto un rafforzamento delle autocrazie
esistenti, che riescono ad utilizzare il processo a loro favore. Le
elezioni siriane sono il caso estremo. In Iraq la procedura elettorale è
stata rispettata, ma questo non basta e lo vediamo con i nostri occhi.
Va aggiunto, e lo si è visto bene dopo l’elezione di Mohamed Morsi in
Egitto, che la cultura prevalente interpreta la vittoria come una
legittimazione a prendere tutto il potere. Manca ancora l’idea dei
contrappesi e di una cultura politica in cui governo e opposizione si
riconoscano a vicenda. In breve, bisogna cercare di promuovere il peso
della società civile e la voce dei cittadini piuttosto che concentrarci
solo sui processi elettorali.
Tornando all’attualità vediamo nuove convergenze-divergenze fra Stati
Uniti ed Iran, dove le prime sembrano prevalere. Certo l’obiettivo
finale di Teheran e quello di Washington sono molto diversi tra loro,
però vi è comunanza di interessi nel combattere l’Isis.
L’America ha un dilemma: le è stato chiesto l’uso della forza area
contro gli estremisti, ma non vuole che la sua aviazione venga percepita
come una “appendice” delle milizie sciite del settario governo di
Bagdad. Il segretario di stato John Kerry è stato da poco nella capitale
irachena, cercando di condizionare l’aiuto americano ad un governo di
unità nazionale che comprenda la componente sunnita. Il messaggio finora
non è passato.
La presenza del premier Nouri al Maliki è un serio problema e lo
stesso grande Ayatollah Al Sistani, massima autorità sciita del paese,
chiede una discontinuità. Sarà possibile? Un po’ di scetticismo è
d’obbligo.
Sul versante opposto re Abdullah – il sovrano saudita, Custode delle
due Sacre Moschee – ha appena ricevuto il segretario di Stato americano
con un mini-vertice di paesi sunniti. L’Arabia saudita rimane il leader
di quello schieramento e ha ribadito una volta di più di essere pronta a
tutto per combattere i movimenti estremisti.
In questo quadro tanto complesso l’Europa appare intimorita. È
comprensibile. Comunque un approfondimento di analisi su scenari
politici futuri sarebbe augurabile, così come un maggior supporto
concreto alle società civili che soffrono.
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