mercoledì 22 aprile 2015

Quali norme per punire i nuovi schiavisti.


Corriere della Sera 22/04/15
Michele Ainis
Un egiziano non è tutti gli egiziani. E nemmeno un somalo, un tunisino, un libico. Noi però, fin troppo spesso, facciamo di tutta l’erba un fascio. Li consideriamo uguali, e ugualmente minacciosi, solo perché hanno la pelle un po’ più scura e gli occhi sgranati dei bambini. Invece no, nessuno di loro è uguale all’altro. In quella truppa marciano colpevoli e innocenti, vittime e carnefici. E terroristi, certo. Ma sono di più i terrorizzati.

Dinanzi all’onda biblica dell’immigrazione, la prima esigenza è quindi di distinguere. La seconda, di reprimere. Perché c’è un delitto che non verrà punito mai abbastanza, in questa tragedia collettiva: quello degli scafisti, o degli schiavisti, se vogliamo chiamarli per nome e cognome. In Europa ci vorrebbe un altro Lincoln, per dichiarargli guerra. Sennonché gli europei non sanno più imbastire cariche, al di là dello scaricabarile. E il barile finisce regolarmente addosso a noi italiani. Ma l’Italia, il suo ordinamento normativo, quanto sa essere capace di castighi? E in che misura sa distinguere nel popolo che bussa alle sue porte?

A frugare nella nostra sartoria legislativa, scopriamo che ogni immigrato ha un abito diverso. Ma il sarto, ahimè, avrebbe bisogno degli occhiali. In primo luogo ci sono i rifugiati: quanti subiscono persecuzioni nello Stato d’origine, ai quali spetta il permesso di soggiorno. Ma il riconoscimento di tale condizione può avvenire solo dopo lo sbarco in terraferma: chi farfuglia di respingimenti in mare non sa di cosa parla.
Poi c’è lo status di protezione sussidiaria o temporanea, e c’è infine il diritto d’asilo, garantito dall’articolo 10 della Costituzione allo straniero cui nel proprio Paese venga impedito l’esercizio delle libertà. Il diritto ad avere diritti, così lo definiva Hannah Arendt. Diritto di carta, tuttavia: dopo quasi settant’anni, non è mai stata licenziata una legge che ne stabilisca le condizioni d’esercizio. In compenso la legge italiana nega il voto amministrativo agli immigrati regolari e nega la cittadinanza ai loro figli, anche se parlano in dialetto lombardo o calabrese. C’è quindi urgenza d’un tagliando normativo, per dividere Abele da Caino. E c’è bisogno del pugno di ferro, rispetto a chi traffica con le persone come se fossero arance o saponette. La legge Turco-Napolitano contempla il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, punendolo con la reclusione fino a 5 anni; i topi d’appartamento rischiano 6 anni. È un errore: non si può essere garantisti con chi frusta questo carico umano per costringerlo all’obbedienza cieca, oppure lo scaraventa in mare. Poi, certo, esistono varie circostanze aggravanti. Tuttavia — per dirne una — l’anno scorso il Tribunale di Catania escluse l’omicidio volontario per due scafisti che avevano provocato la morte di 17 persone, contestando solo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E no, in questi casi i reati sono ben più gravi: sequestro di persona, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani. Applichiamoli, rendiamoli operanti. E magari chiediamo al Parlamento di spicciarsi ad approvare il reato di tortura. Per loro, ma dopotutto anche per noi: questo spettacolo di morte è una tortura collettiva.

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