martedì 21 aprile 2015

«Possa Dio aiutarci» scritto sulla pelle. 
L’arrivo a Malta dei morti senza nome.


Corriere della Sera 21/04/15
Marco Imarisio
LA VALLETTA. I fiori sono per i senza nome. Quelli che non si sa chi erano, come si chiamavano, non si capisce neppure bene quanti fossero. «Unidentified» c’è scritto sui mazzi di gladioli, tulipani, margherite.

La solitudine dei morti di una tragedia dove non si vede nulla, avvenuta lontano, resa palpabile solo da numeri roboanti che restano comunque freddi senza un volto, è in questo omaggio estremo e raffazzonato nella camera mortuaria dell’ospedale civile de La Valletta. In uno stanzino dove sul tavolo ci sono ancora gli avanzi della merenda dei necrofori che hanno portato le 24 bare di zinco e alle pareti vecchi consigli sul vaccino per l’influenza. Il direttore sanitario, un uomo di buon cuore che si chiama Ivan Falzon, ha fatto un appello pubblico, televisione e social network, per evitare l’umiliazione dell’indifferenza. «Le famiglie di queste persone non sanno neppure che i loro cari hanno smesso di esistere, forse non lo sapranno mai. Chiedo che oggi vengano portati dei fiori per onorarne il ricordo». Hanno risposto in 17, la maggior parte sono dipendenti dell’ospedale, il mazzo di fiori più grande è del ministero della Cultura, quello più piccolo di una signora che piange in disparte e abita nel palazzo di fronte. E su ogni involucro di cellophane c’è una dedica che è come una sentenza. Nel caro ricordo degli «unidentified», gli sconosciuti al mondo.

Gli unici frammenti di queste vite perdute sono incisi sulla pelle. Almeno tre vittime avevano scritto sul palmo della mano il nome di un villaggio vicino a Lagos, la capitale della Nigeria. Altri due avevano una scritta in inglese, Possa Dio aiutarci, che lascia supporre una fede cristiana. L’acqua ha restituito soltanto un documento di identità del Bangladesh, un taccuino che sembra essere un diario scritto in una lingua sconosciuta e un giubbotto salvavita. Null’altro. Le esistenze di questi 24 esseri umani e di chissà quanti altri dovranno essere ricostruite per sommi capi dai loro compagni di viaggio, i 28 superstiti salvati da un mare che dal mattino di domenica nonostante la più imponente operazione di ricerca degli ultimi anni non restituisce più nulla, come riconoscono anche i nostri ufficiali della Guardia costiera, autorizzando a mezza voce qualche cautela sul bilancio finale delle vittime, ammesso e non concesso che il dato numerico abbia poi questa importanza.

Le manovre per sbarcare i corpi della vittime sembravano non dovessero finire mai. Sulla plancia della nave Bruno Gregoretti c’erano 24 cadaveri chiusi in sacchi neri, e di fronte a loro, accanto alla passarella per la terraferma, i loro compagni di viaggio, seduti o sdraiati, superstiti che hanno dovuto assistere in silenzio e con espressione persa all’intera procedura, nascosta ai loro sguardi solo da un parapetto facilmente eludibile. Prima l’inserimento dei cadaveri in body bag bianchi. Poi il trasbordo in bare di zinco. Ripetuto per altre tre volte, perché i carri funebri messi a disposizione dalla Polizia maltese sono pochi, con poco spazio e ogni tragitto verso l’ospedale dura almeno 45 minuti.

«Non è stato un viaggio facile, per nessuno». Il tenente di vascello Gianluigi Bove cerca di raccontare sensazioni altrui che non possono davvero essere espresse. «Quando li abbiamo portati a bordo erano storditi, esausti, neanche si rendevano conto di cosa stava succedendo. Per qualche ora è sopraggiunto un certo sollievo. Poi hanno capito di essere gli unici sopravvissuti, e da allora sono così. Muti, inerti, solo tristezza». Anche i silenzi e le frasi non dette del giovane comandante Bove lasciano capire che non è un lavoro facile, qualche segno resta. «Eravamo a sud di Lampedusa. Siamo arrivati dopo sei ore. Abbiamo issato a bordo due persone vive. Ma i miei uomini pensano soprattutto a quelli che non abbiamo potuto aiutare. È normale, è umano, ma fa comunque male».

Malta era una tappa. La sosta per deporre i morti e continuare il viaggio dei vivi, quasi tutti presi in consegna dal cargo portoghese, verso Catania. Sono testimoni, sono gli unici a poter raccontare, gli unici che ritroveranno la loro identità e saranno chiamati a parlare per chi non c’è più, quelli che restano qui. «Unidentified», senza nome.

Alle due del pomeriggio un ufficiale invita i migranti superstiti ad alzarsi e distribuisce delle tute da lavoro a quelli meno vestiti, per coprirsi dal vento. Una volta in piedi, guardano verso i carri funebri della Polizia maltese, ormai all’ultimo giro. L’orizzonte del porto è delimitato dal lusso di uno yacht enorme e colorato, a tre piani, con tanto di elicottero a poppa. Alcuni residenti dicono che sia di Bill Gates, ma forse è solo una leggenda.

Nessun commento:

Posta un commento