martedì 21 aprile 2015

L’esilio voluto del Grande Spodestato per studiare la rivincita


FILIPPO CECCARELLI
La repubblica 21 aprile 2015
Il derby con Matteo non si è chiuso ieri ma semmai a questo punto si è riaperto
Me ne vado per tornare. I politici in genere ragionano così e senza dubbio Enrico Letta può considerarsi ed essere considerato un animale politico. Uno degli ultimi esemplari, oltretutto, ad avere dietro di sé una scuola, un codice di comportamento e soprattutto un senso del tempo e dei tempi che ieri gli hanno consentito di dosare la sorpresa – all’opinione pubblica, ma non al presidente Mattarella senza per questo rinunciare all’opportunità di un rientro, quando ce ne saranno le condizioni, e perciò quando Renzi si troverà nei guai.
Intanto – e anche questo è molto politico, per la precisione molto democristiano – Letta annuncia che si dimetterà dal Parlamento il primo settembre, ovvero circa tra cinque mesi, che non sono pochi. A Roma, dinanzi a impegni di lunga scadenza, il buonsenso impone lo scettico motto: “Beato chi ci ha un occhio”, per dire che tutto può sempre accadere.
Poi, come vuole il costume delle assemblee rappresentative, il Parlamento respingerà le dimissioni, che Letta ripresenterà. Con la testa, certo, è già da ora a Parigi. Ma nel frattempo il Grande Spodestato rimane qui; e se per caso Renzi, che pure è molto politico e altrettanto democristiano, pensa di essersi finalmente liberato dell’uomo che, scuro in volto, nel febbraio del 2014 gli consegnò il campanello del potere come fosse un topo morto, beh, l’astuto premier smentirebbe senz’altro questa sua acclaratissima fama.
Quando Renzi ricevette per qualche minuto i sindacati nella Sala Verde di Palazzo Chigi il portavoce di Camusso, Gibelli, notò che in anticamera fra i vari ritratti dei presidenti del Consiglio mancava, o ancora mancava (ma era novembre) proprio quello di Letta. Per cui ieri sera, invece di chiudersi, il “derby”, come tristemente usa dire, in realtà ha tutta l’aria di essersi aperto – con quale vantaggio per la collettività è un dilemma che gli spettatori non devono necessariamente sciogliere in questo scorcio di primavera.
Come per i vecchi democristiani momentaneamente sconfitti (accadde con Dossetti, poi con Fanfani, quindi con Moro, per certi versi anche con Forlani) la procurata assenza corrispondeva al più incombente interesse, così come il silenzio preparava nel migliore dei casi la rivincita e nel peggiore la vendetta. Ora, quanto l’ex presidente del Consiglio ha detto in tv a Fabio Fazio nel presentare il suo libro – pretesto, quest’ultimo, di elegante e distaccata partecipazione alla vita pubblica – è anch’esso un notevole saggio di soave cattiveria o pugnace indifferenza rispetto al renzismo di governo e al suo fondatore appena tornato dagli Stati Uniti carico di successi, ma anche di incidenti grammaticali.
Passi per la questione di terri- bile attualità degli sbarchi e di Mare Nostrum, sulla quale del resto Letta dopo l’ennesimo naufragio era già intervenuto con secca severità in un tweet due mesi orsono. Al punto che Renzi fu costretto a replicare: «Strumentalizzare i morti è triste prima ancora che ingiusto, il problema è la Libia, non Mare Nostrum o Triton». Passi anche per le critiche alle riforme istituzionali ed elettorali che non cercano il necessario consenso, sono frettolose e paiono pasticciate. E passi perfino l’ormai vecchia storia del colpo di mano che Letta, dice, non si aspettava da parte di Renzi, per giunta dopo il celebre invito a stare sereno. Quasi impossibile infatti che si fidasse del giovane e arrembante segretario del Pd. Anche tenendosi lontano dall’osservanza del culto di Frank Underwood, ce n’era abbastanza per preoccuparsi. In quel frangente si farebbe un torto all’ex presidente del Consiglio nel pensare che stesse girandosi i pollici confidando nella lealtà del segretario fiorentino. Di sicuro, dopo il patatrak, avrà apprezzato più la telefonata di Papa Francesco che gli elogi di Napolitano.
A pensarci bene, anche se forse secondo canoni meno spendibili in serie tipo “House of cards”, la più raffinata e radicale cattiveria che ieri il prossimo direttore del dipartimento di studi internazionali parigini ha buttato lì inavvertitamente sta nella premessa entro cui ha posto la sua scelta: «Mi dimetto da questo Parlamento sulla base del fatto che torno a lavorare». Come se lo status, il potere, il comando non coincidessero più con un qualche esercizio civile. Una implicita dichiarazione di estraneità, anche qui, che sembra rivolgersi a un mondo, non necessariamente a un elettorato, che nell’odierno statuto della politica non riesce più non solo a credere, ma nemmeno a riconoscersi.
Tutto questo – prima la sparizione, poi le punzecchiature occasionali, adesso questa specie di consapevole, ma temporaneo esilio – Renzi lo capisce benissimo. Ma è abituato male, o quasi viziato, nel senso che i suoi carissimi oppositori, nella loro varie tribù, si agitano, strepitano, promettono ogni catastrofe, ma poi finiscono sempre per dividersi e alla fine per motivi che non si immaginano così nobili si adattano alla realtà e gli fanno fare quello che vuole.
Enrico Letta, almeno, è solo. Però è un politico, quindi aspetta, e guarda, e al momento giusto ci sarà lui, e non loro.

Nessun commento:

Posta un commento