mercoledì 29 aprile 2015

Il segretario: il partito è con me. 
E ora li scavalcheremo a sinistra.


Corriere della Sera 29/04/15
Maria Teresa Meli
Matteo Renzi è convinto che il can can suscitato dalla decisione di una parte della minoranza di non votare la fiducia «durerà poco».

 In verità la sfilata dei big che usciranno dall’Aula preoccupa gli stessi fedelissimi del premier. Ma il presidente del Consiglio li rassicura così: «Vedrete che alla fine non sarà controproducente per il nostro elettorato, anche se il loro obiettivo è proprio questo. L’importante è spiegare bene le cose. Io lo farò anche a Bologna, nel mio discorso alla festa dell’Unità. E poi nelle prossime settimane li scavalcheremo a sinistra con l’azione di governo». Come? L’inquilino di palazzo Chigi pensa all’utilizzo del tesoretto in questa chiave. Immagina un «grande piano anti-povertà» perché quelle risorse, a suo giudizio, devono essere destinate alla «parte più debole del Paese».

 Per evitare la durissima reazione di Bersani, Letta, Bindi, Speranza e degli altri che oggi diserteranno le votazioni, Renzi avrebbe dovuto rinunciare allo strumento della fiducia. Era l’opzione del mediatore a oltranza Andrea Orlando che, ieri, in Consiglio dei ministri, ha invitato Renzi a considerare l’ipotesi di rinunciarvi nel caso fossero arrivati da parte della minoranza interna «significativi segnali politici».

 Ma quel che è giunto è stato invece il pronunciamento dell’ex capogruppo Roberto Speranza: «Non voterò la fiducia». «Il richiamo della foresta è stato più forte», secondo il premier che, a quel punto, ha avuto gioco facile a convincere anche i più perplessi: «Facciamo questa battaglia a viso aperto, come sempre. O passa la riforma o andiamo al voto e non sono certo io a temere le elezioni».

 Del resto, in cuor suo, Renzi non ha mai avuto dubbi in proposito, convinto com’era convinto, che sull’emendamento che prevede l’apparentamento al secondo turno, i suoi oppositori interni ed esterni avrebbero «cercato di metterci sotto», vanificando così l’impostazione bipartitica dell’Italicum.

 Ma sulla riforma elettorale Renzi non poteva non «tirare dritto». «È un impegno — ha spiegato ad alcuni parlamentari — che ho preso con i cittadini italiani, non saremmo credibili se non facessimo questa riforma. Io ci metto la faccia, come sempre».

 E non c’è solo questo, ovviamente. Il premier crede veramente che l’Italicum, per quanto non sia un provvedimento «perfetto», sia pur sempre un «ottimo compromesso» e che, soprattutto, raggiunga gli obiettivi che si era prefissato: «Così daremo la stabilità necessaria ai governi e la faremo finita una volta per tutte con le coalizioni disomogenee che non funzionano». 

Queste sicurezze del premier non debbono far pensare che Renzi ritenga che non accadrà nulla: «Vedrete — confida ai più stretti collaboratori — che una parte dei mass media ci salterà sopra ed è proprio quello che vuole una fetta della minoranza, l’ala più oltranzista, quella che magari medita di andarsene oppure di riprendersi in qualche modo la ditta». Ma la prima ipotesi, quella della scissione, con questa riforma elettorale diventa molto più difficile e la seconda, quella caldeggiata da Massimo D’Alema, per Renzi, è improbabile: «Non mi fermeranno».

 Insomma, il presidente del Consiglio è disposto a scontare un po’ di «caos mediatico», per dirla con le parole di un renziano di stretta osservanza, perché è sicuro di poter ribaltare la situazione: «Il partito è con noi, soprattutto gli iscritti. La stragrande maggioranza mi chiede di non fermarmi e di non arretrare».

 Renzi non ci sta a essere dipinto come un dittatore, non accetta il fatto che Bersani e compagni lo facciano passare per quello che ha voluto dividere il partito imponendo la fiducia sull’Italicum: «Diciamoci la verità, abbiamo modificato questo disegno di legge un sacco di volte per andare incontro alle richieste espresse dalla minoranza. Ora quelli non vogliono cambiarlo nel merito, vogliono affossarlo e, magari, con l’Italicum affossare anche me. Noi però non glielo permetteremo».

 E comunque la «vera prova» per il presidente del Consiglio sarà rappresentata dalle elezioni regionali. Se in quelle consultazioni il Pd riporterà un successo (cosa di cui il presidente del Consiglio sembra abbastanza convinto), allora «ogni discussione lascerà il tempo che trova».




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