I risultati del Pd, comprese le bocciature, spingono ad accelerare il processo innescato da Renzi
Solo in un paese seriamente stressato può capitare che il
risultato del voto amministrativo in una sola città di provincia possa
pesare, politicamente e mediaticamente, più del medesimo voto espresso
in decine di altri comuni e perfino più del voto nazionale alle elezioni
europee di appena due settimane prima. Ma tant’è, si vede che era
davvero forte l’ansia – partigiana o professionale – di ridurre appena
possibile la portata e la forza della vittoria del Pd di Renzi del 25
maggio. Di qui le aperture di giornali, siti, talk show politici: “La
sconfitta di Livorno”.
Del resto accadde già, due anni fa: quando i democratici
conquistarono decine di amministrazioni, rovesciando i rapporti di forza
col Pdl allora ancora forte, ma quel turno rimane nella memoria per un
solo evento, cioè la conquista di Parma da parte del grillino
Pizzarotti.
Il Pd può evitare di affannarsi nella replica. Intanto perché appunto
il precedente di Pizzarotti segnala quanto sia incontrollabile per M5S
l’effetto delle sue stesse vittorie. E poi perché – astuzia della storia
– è stato proprio lo sciame sismico grillino di questi anni a forzare
il cambiamento nel Pd, imporre Renzi come leadership in qualche modo
obbligata, dare al Pd connotati talmente nuovi da spingerlo in termini
di consensi là dove non era mai arrivato.
Infine, infilarsi nella polemica interna su quale Pd abbia vinto
domenica e quale abbia perso è un autolesionismo inutile. Banalmente,
vale per il Pd quello che vale per chiunque altro a qualsiasi livello in
Occidente: per vincere devi corrispondere a una domanda radicale di
novità, se in qualsiasi modo gli elettori ti avvertono in continuità con
gestioni di governo precedenti, la speranza di resistere è poca, con
qualunque sigla. Tanto più per i sindaci, in una stagione di risorse
tagliate, tasse locali aumentate, servizi ridotti. Livorno, Perugia,
Civitavecchia, senza disturbare la storia, si spiegano sostanzialmente
così.
L’esito dei ballottaggi si presta ad alte analisi più razionali e utili.
Innanzi tutto la conferma dell’estrema mobilità del mercato
elettorale, di cui la scelta dell’astensionismo è parte a pieno titolo.
Senza scomodare la storia, la fondazione del Pci o chissà cosa, Livorno
si spiega come Bergamo, come Bari, come Potenza, come il 40,8 per cento
di Matteo Renzi: non esistono più bacini elettorali chiusi e
impenetrabili, roccaforti imprendibili. È così da tempo (Bologna che
finisce a Guazzaloca è del 1999), oggi molto di più. Il fenomeno della
fedeltà di voto è naturalmente ancora forte, ma personalizzazione e
de-ideologizzazione rendono tutto possibile, se si dispone di candidati
credibili e di una forte proposta, appunto, di innovazione. Del resto,
come Renzi sa bene, in questo sistema i voti arrivano e se ne vanno
facilmente, magari per tornare nel silenzio dell’astensione. I fenomeni
esplodono e rientrano: ne paga oggi le conseguenze il bravo forzista di
Pavia Alessandro Cattaneo.
Fra tanta fluidità, comincia ad avere una sua solidità e persistenza
il re-insediamento del Pd al Nord. Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli
Venezia Giulia, Liguria: ormai le amministrazioni non di centrosinistra
sono l’eccezione. Appena due tornate elettorali fa, era l’opposto. Qui
davvero si apre un’opportunità storica, dopo i decenni nei quali
sinistra e Nord sembravano separati culturalmente, prima ancora che
politicamente ed elettoralmente. Per molti aspetti la vittoria di
Giorgio Gori è quella più emblematica, simbolicamente più significativa.
Bisognerà vedere come i sindaci e Renzi riusciranno a consolidare il
nuovo ruolo di avvocati del Nord, di ceti produttivi ritrovati o mai
conosciuti prima.
Qui nel Nord si conferma il dato delle europee: quali che siano i
destini del centrodestra, le leadership e i rapporti di forza interni,
ora è la Lega a dettare tempi, modi, toni e contenuti dell’eventuale
alleanza. Su una linea dichiarata di “vero centrodestra”, che per Forza
Italia diventa però contraddittoria rispetto all’altra opzione, il
ricongiungimento con i centristi di Alfano.
Per il Pd, infine, in realtà c’è poco da discutere e da decidere. I
risultati, comprese le bocciature, spingono ad accelerare il processo
innescato da Renzi. Un nuovo gruppo dirigente va formandosi non (solo)
per cooptazione del leader ma anche per la selezione operata dagli
elettori.
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