Corriere della Sera 15/06/14
Fuori Mineo, dentro Orfini. Via il
senatore scomodo, reo di essersi messo di traverso sui binari del
nuovo corso riformista, e dentro l’ex avversario interno. Un colpo
ai principi costituzionali, che tutelano la libertà dei
parlamentari, e un colpo a favore del pluralismo, che in un partito
non fa mai male, specialmente quando si supera la fatidica soglia del
40 per cento. Renzi è fatto così: pratico, veloce e non a caso pare
siano bastati due sms, inviati dall’estero, per dare il via ad
entrambe le operazioni.
Nella foto della vittoria, quella
scattata al Nazareno per suggellare il trionfale risultato delle
europee, Orfini è il secondo a sinistra, in piedi, soddisfatto e
sorridente. È alle spalle del «nonno» Zanda, il capogruppo al
Senato, l’unico di una certa età in una squadra di
trenta-quarantenni, il liquidatore di Mineo, appunto. A differenza di
Fassina che al momento dello scatto andò pudicamente a nascondersi
in un cantuccio («questa non è la mia vittoria», ammise) Orfini
nella foto si vede, eccome. Del resto, «Orfini chi?», Renzi non lo
ha mai detto, mentre su Renzi lui ha dichiarato di tutto e di più,
anche di essere passato «dalla rottamazione al riciclo». Lo disse
dopo gli endorsement di Franceschini e Fioroni a favore del nuovo
segretario Pd e chissà se, soddisfatto per la battuta,
nell’esternare non gli passò per la mente che tra i riciclati un
giorno potesse esserci anche lui. Eppure è successo. Oggi Orfini è
il nuovo presidente del Pd, occupa il posto che nel Pci fu di Longo
quando fu eletto Berlinguer e nel Pds di Rodotà, quando i professori
ancora andavano di moda; sostituisce quel Cuperlo che abbandonò
offeso per essere stato definito da Renzi, proprio mentre tesseva le
lodi delle preferenze, un nominato e non un eletto. Più estroverso
di Fassina, meno permaloso di Cuperlo, ma ispirato dalla stessa idea
della politica come arte suprema del governo: questo è l’ex
giovane turco Orfini. La sua elezione a presidente Pd non è solo la
conferma della teoria secondo cui gli opposti spesso si tengono: cosa
c’è, infatti, di più distinto e distante di un segretario
politico che indossa il giubbotto di Fonzie e un presidente di
partito che preferisce, invece, le t-shirt dedicate a Togliatti?
L’elezione di Orfini è molto di più. I renziani di primo e
secondo conio dicono che è il superamento, nel segno del
rinnovamento generazionale, delle logiche novecentesche che hanno
dilaniato i vecchi partiti. Sarà. Ma intanto è di sicuro la
capitolazione di un modello di sinistra che ha avuto sempre
un’altissima considerazione di sé. Di quella sinistra che fa gli
origami o soffia distaccata sui foglietti degli appunti mentre la
plebe si accapiglia; che con la scusa dello storicismo ha sempre
trovato una giustificazione buona per ogni errore o ritardo. Quella
sinistra spocchiosa e culturalmente aristocratica, dalemiana e
post-dalemiana, pronta a dar lezioni urbi et orbi , ma che nei fatti
non è riuscita ad arrestare il proprio declino. Per questa sinistra,
Renzi è sempre stato una piuma, un palpito, un fenomeno marginale e
passeggero, un leader assolutamente inadeguato alla ricostruzione di
un’egemonia nel Paese. E se loro, i giovani turchi, insieme si
autorappresentavano come la nuova corazzata Potemkin della sinistra
italiana; e se ognuno di loro s’immaginava, nell’intimo, un
moderno Ejzenstejn, Renzi, nella loro considerazione, non era altro
che un Pieraccioni buono al massimo a guidare una squadra
parrocchiale. Così dicevano e pensavano, prima d’entrare nel
governo e prima d’insediarsi ai vertici del partito. Prima, cioè,
d’inchinarsi alla leggerezza dell’essere renziano.
«L’allegria
con cui si passa da Veltroni a Bersani a Renzi senza provare a
giustificare i propri cambiamenti — ebbe a dire un giorno Orfini —
è un male storico del Pd». L’allegria è rimasta, il male chissà.
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