ANDREA BONANNI
La Repubblica - 28/6/14
Oggi comincia l’Europa di Jean-Claude
Juncker. E sarà, nel bene o nel male, un’Europa diversa da quella
che abbiamo conosciuto. Profondamente diversa, a cominciare dalla
designazione del presidente della Commissione europea avvenuta, per
la prima volta nella storia, con un voto che mette in minoranza la
Gran Bretagna e pone fine a quarant’anni di veti inglesi sulla
politica europea.
La nomina di Juncker non è stata
decisa in conciliaboli segreti tessuti nelle anticamere del vertice,
come quella di tutti i suoi predecessori. Per diventare presidente
della Commissione, l’ex premier lussemburghese ha dovuto ottenere
l’investitura dei leader del Ppe come candidato del partito. Il Ppe
ha dovuto vincere le elezioni. Il Parlamento ha dovuto costruire una
maggioranza basata sulla grande coalizione popolari-socialisti. I
capi di governo hanno dovuto inchinarsi alla volontà dei cittadini e
dei partiti politici.
Bruxelles e, grazie all’impulso dell’Italia,
hanno dovuto elaborare una pur vaga
piattaforma programmatica per il futuro governo dell’Europa. Tutto
questo non era mai successo. E, ora che è avvenuto, cambia
radicalmente gli equilibri di una Unione europea in cui l’Italia
ritrova quel ruolo centrale che aveva perduto dai tempi dei governi
Berlusconi. Ma come sarà l’Europa di Jean Claude Juncker?
Il più bel complimento al nuovo
presidente della Commissione lo ha fatto ieri, senza rendersene
conto, il suo nemico giurato David Cameron: «Per tutta la sua vita
Juncker è stato al centro del progetto europeo con l’obiettivo di
aumentare i poteri di Bruxelles e di ridurre quelli degli stati
membri », ha detto il primo ministro britannico per giustificare il
suo no alla nomina di un «federalista» come presidente della
Commissione europea. Ma la crociata di Cameron è stata inutile, se
non addirittura controproducente. E ora questo cristiano-sociale
lussemburghese, sessant’anni a dicembre, che fu allievo e pupillo
di Helmut Kohl, avrà modo di mettere alla prova la sua consumata
abilità di animale politico alla guida del governo dell’Europa per
cercare davvero di «aumentare i poteri di Bruxelles ». Non avrà un
compito facile.
Il prossimo ostacolo che Juncker dovrà
superare sarà quello di trovare una maggioranza politica nel
Parlamento europeo. «Sono fiero ed onorato di avere ricevuto oggi il
sostegno del Consiglio europeo e contento all’idea di lavorare con
i deputati europei per formare una maggioranza in Parlamento prima
del voto del 16 luglio», ha twittato ieri al momento della nomina.
In teoria il compito dovrebbe essere semplice, visto che la sua
designazione è frutto di un accordo tra socialisti e popolari, a cui
intendono aderire anche i liberali. I tre partiti gli garantiscono
un’ampia maggioranza. Ma il diavolo, come sempre, è nei dettagli.
Riuscirà, per esempio, a conquistare il voto dei laburisti inglesi,
che hanno condiviso la crociata di Cameron contro la sua nomina? E
arriverà a strappare il consenso anche dei verdi e dell’estrema
sinistra, diventando così il presidente degli europeisti
contrapposto agli euroscettici che certamente gli voteranno contro?
Il suo futuro percorso alla guida della Commissione dipenderà anche
dal tipo di maggioranza che avrà saputo raccogliere.
Di certo, le capacità e l’esperienza
non gli mancano. Entrato in politica nell’84, è stato per sei anni
governatore della Banca Mondiale. Poi, per diciannove anni, dal 1995
al 2013, è stato primo ministro del Lussemburgo divenendo il decano
dei leader europei. Ma già nel ‘92, come ministro delle Finanze
del Principato, era seduto al tavolo dei negoziati per il Trattato di
Maastricht. «Oggi ero l’unico capo di governo che non lo
conoscesse personalmente», ha raccontato ieri Matteo Renzi. Per otto
anni, fino al 2013, è stato anche presidente dell’eurogruppo, che
riunisce i ministri delle finanze della zona euro. E in quella veste
ha vissuto in prima persona tutta la difficile gestione della crisi
finanziaria e del salvataggio dell’euro e degli stati minacciati di
bancarotta.
Sbaglia, però, chi crede che
Jean-Claude Juncker sia un profeta dell’austerity in salsa tedesca.
Al contrario. Nel corso della sua lunga carriera ha spesso preso
posizioni sgradite a Berlino, e anche a Parigi. Come quando si
schierò apertamente a favore degli euro-bond e contro la troika.
Durante gli anni della presidenza dell’eurogruppo ha spesso
criticato la Germania accusata di «trattare l’Europa come una sua
filiale», e le politiche di austerity praticate da un’Europa «che
punisce invece di aiutare». Quando se ne è andato dalla guida
dell’eurogruppo non ha mancato di denunciare «le ingerenze
franco-tedesche». Per quanto riguarda l’Italia, non ha mai
nascosto la sua profonda insofferenza verso Berlusconi.
Che con simili precedenti Juncker sia
riuscito ad ottenere prima l’appoggio dei leader del Ppe, Merkel e
Berlusconi in testa, e poi il sostegno di 26 capi di governo su 28 la
dice lunga sulle sue capacità di politico. Ora dovrà metterle al
servizio della sua nuova mansione. Nel corso della campagna
elettorale, il suo slogan è stato tutto centrato sulla necessità di
superare le divisioni e le diffidenze che oggi paralizzano l’Europa.
Non è un compito facile. E il documento programmatico con cui i capi
di governo hanno accompagnato la sua nomina, dalla questione della
flessibilità sui conti pubblici voluta dall’Italia a quella delle
due velocità nell’integrazione europea voluta dalla Gran Bretagna,
sembra delimitare il terreno dei prossimi regolamenti di conti
piuttosto che definire una piattaforma consensuale e condivisa.
In questo regolamento di conti la
futura Commissione europea avrà un ruolo cruciale. Ma quale sarà
questo ruolo dipenderà solo in parte dalla figura del presidente.
Decisive saranno anche le personalità dei commissari che andranno ad
occupare le poltrone strategicamente più importanti: una partita che
si comincerà a giocare al prossimo vertice del 16 luglio.
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