Corriere della Sera 14/06/14
Protestarono. Protestarono vivacemente,
prima nel 2002 e poi nel 2008, i magistrati che videro nella proposta
del governo sul loro trattamento pensionistico una minaccia alla
autonomia e alla indipendenza della magistratura. Come in questi
giorni. Solo che in quelle due occasioni, «l'attacco alla
magistratura» sarebbe stata sferrato con la proposta di aumentare
l'età pensionabile. Ora invece, con la proposta di diminuirla.
Esiti opposti, identica veemente protesta: ogni volta che si parla di
soldi e carriere, negli organismi sindacali scatta incoercibile la
pulsione a dare l'allarme sull'«indipendenza» violata,
sull'«autonomia» compromessa. Compromessa per un paio d'anni di
pensione?
Fantastica questa attitudine
dell'organo sindacale della magistratura, la Anm, di fare di una
questione di sacrosanti trattamenti in denaro, una sublime questione
di libertà e di indipendenza. Ieri, nella presentazione della bozza
che il governo ha preparato per la riforma della Pubblica
amministrazione, la riduzione dell'età pensionabile per i
magistrati, motivata dall'esigenza di accelerare il turn-over in
tutto il pubblico impiego, subito diventato un attentato all'intero
assetto giudiziario: «Con la pensione a 70 anni, la Cassazione
chiuderebbe». Avete letto bene: a 70 anni, non a 52 o a 60. A 70
anni. La difesa (legittima) di una categoria trasfigurata a difesa di
un organo decisivo dello Stato di diritto, nientemeno. Invece quando
l'aumento dell'età pensionabile venne proposto con un principio
generalizzato di riforma delle pensioni resa necessaria dalla
crescita delle aspettative di vita e dall'invecchiamento progressivo
della popolazione, un'altra «indipendenza» venne invocata, come se
il magistrato costretto a lavorare anziché a godersi il meritato
riposo dopo una lunga e soddisfacente carriera fosse l'emblema del
giudice calpestato nei suoi diritti fondamentali. Qualche mese fa,
quando il neonato governo Renzi, per finanziare la restituzione Irpef
degli 80 euro mensili, propose un tetto massimo alle retribuzioni dei
supermanager ma anche dei magistrati con oltre 240 mila euro annui di
stipendio, da parte dell'Associazione nazionale magistrati non si
esitò a legare indissolubilmente la pesantezza della busta paga
all'indipendenza dei giudici. O, meglio, «il collegamento che vi è
tra lo stipendio dei magistrati e il principio di indipendenza».
Collegamento molto avventuroso, che però aveva ricevuto poco prima
l'autorevole avallo della Corte costituzionale, secondo la quale
l'indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche con
l'apprezzamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue
varie articolazioni concernenti, fra l'altro, oltre alla progressione
in carriera, anche il trattamento economico». Non è detto che i
magistrati, e anche i giudici della Corte costituzionale, abbiano
l'esatta nozione delle reazioni certamente superficiali e ingiuste
che queste parole producono sulla cittadinanza. L'idea che un
magistrato tanto più sia indipendente quanto più guadagni, faccia
carriera e vada in pensione non delinea, a occhio e croce, una
considerazione molto alta della fibra morale di chi, piuttosto,
dovrebbe custodire la sua indipendenza comunque, anche con uno
stipendio più magro (neanche di tanto, poi). Quel collegamento che
invece l'organo sindacale dei magistrati istituisce in tutte le
occasioni, ultima quella della riforma della pubblica
amministrazione. L'indipendenza, del resto, si può conquistare
sempre. L'anagrafe non c'entra. E nemmeno il conto in banca.
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