di Michele Gesualdi
Presidente della Fonazione Don Milani di Barbiana
Don Lorenzo era uno di quegli uomini
che, per le sue scelte nette e coerenti, le sue rigide prese di
posizione, il linguaggio tagliente e preciso, la sua logica
stringente di ragionare e argomentare, si tirava facilmente addosso
grandi consensi o grandi dissensi con schieramenti preconcetti che
hanno spesso offuscato la sua vera dimensione.
Su di lui è stato detto e scritto
molto, sono state fatte opere teatrali e quattro films, però resta
ancora molto da scoprire sopratutto in quella dimensione religiosa
che è l’aspetto fondamentale di tutta la sua vita e delle sue
opere.
Non è possibile capire appieno don
Lorenzo e i motivi delle sue scelte se, quando ci si avvicina a lui,
non si tiene sempre presente che era un prete e un prete che aveva
deciso di servire Dio nel modo più completo, dopo che da adulto si
era convertito al cristianesimo. Tutto il suo operato successivo va
ricondotto a questa scelta.
La sua vita è stata breve ma intensa.
A 20 anni (improvvisamente) abbandonò
il mondo borghese raffinato e colto a cui apparteneva la sua famiglia
ed entrò in Seminario. I suoi, pur restando sconcertati e soffrendo
del “colpo di testa” di questo loro figlio che consideravano
molto promettente, non lo ostacolarono.
Appena entrato in Seminario cominciò
energicamente a sopprimere il suo “IO” del passato, i 20 anni che
lui considerava “passati nelle tenebre”. Ogni suo atto cercava di
renderlo coerente con il Vangelo drasticamente, senza mezze misure.
Aveva lasciato gli agi ed i privilegi
dei borghesi, la loro cultura ed il loro mondo per un’altra scelta
di campo: servire il Vangelo, il Cristo, tentare cosi di salvarsi
l’anima stando dalla parte giusta dei poveri, cioè degli ultimi
nella scala gerarchica, cercare di conoscerli da vicino, di viverci
insieme, di imparare la loro lingua, insegnargliene un’altra,
condividere le loro cause, difendere le loro ragioni.
Per lui prete l’ingiustizia sociale
era un male e andava combattuto perché offendeva Dio.
Ordinato sacerdote a 24 anni fu mandato
a San Donato a Calenzano come cappellano del vecchio proposto, don
Daniele Pugi.
Calenzano era già allora nel 1947 un
paese in via di industrializzazione (aveva 1300 abitanti, oggi ne ha
16.000); la sua popolazione aumentava ed il vecchio Proposto non ce
la faceva più a reggere la parrocchia. Espose al Cardinale la
necessità di avere un cappellano, ma non sapeva come fare a pagarlo.
Il Cardinale rispose: “ho quest’anno un giovane prete, non ha
nessuna pretesa, e vuole vivere poveramente: un certo don Lorenzo
Milani”.
Don Lorenzo arrivò a Calenzano pieno
di entusiasmo come colui che ha trovato il senso della propria vita:
finalmente poteva mettersi al servizio del suo prossimo e restituire
quanto per 20 anni aveva ricevuto.
All’inizio cercò di avvicinare i
giovani alla Chiesa col gioco del pallone, il ping pong e il circolo
ricreativo come facevano gli altri preti. Presto però si rese conto
che non solo avvicinava una sola parte di giovani ma,
soprattutto, che era indegno e puerile per un prete di Cristo
abbassarsi a questi mezzi per evangelizzare, ma al contrario proprio
la mancanza di cultura era un ostacolo alla evangelizzazione e
all’elevazione sociale e civile del suo popolo.
Così un giorno il pallone e gli
attrezzi del ping pong finirono in fondo a un pozzo che era in mezzo
al cortile della canonica e don Lorenzo organizzò una scuola serale
per giovani operai e contadini. “La scuola era il bene della classe
operaia, la ricreazione la rovina; bisognava che i giovani con le
buone o con le cattive capissero la differenza e si buttassero dalla
parte giusta”.
Per lui prete la scuola era il mezzo
per colmare quel fossato culturale che gli impediva di essere capito
dal suo popolo quando predicava il Vangelo; lo strumento per dare la
parola ai poveri perchè diventassero più liberi e più eguali, per
difendersi meglio e gestire da sovrani l’uso del voto e dello
sciopero. Con quella tenacia di cui era capace quando era convinto di
avere intuito una verità andò a cercare uno ad uno tutti i giovani
operai e contadini del suo popolo. Entrò nelle loro case, sedette ai
loro tavoli per convincerli a partecipare alla sua scuola perchè
l’interesse dei lavoratori, dei poveri non era quello di perdere
tempo intorno al pallone e alle carte come voleva il padrone, ma di
istruirsi per tentare di invertire l’ordine della scala sociale.
“Voi – diceva – non sapete
leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttare
come disperati sulle pagine dello sport. E’ il padrone che vi vuole
così perchè chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale
è oggi e sarà domani dominatore del mondo”. Aveva una dialettica
e una capacità di leggere dentro straordinaria. Riusciva a
toccare e far vibrare le corde più sensibili di ognuno.
Nella sua scuola raccolse giovani
operai e contadini di ogni tendenza politica, presenza che mantenne e
ampliò perchè dimostrò di servire la verità prima di ogni altra
cosa: “vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio
unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità
di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori,
perchè la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le
sigarette”, disse ai suoi giovani uno dei primi giorni di scuola a
Calenzano. Una scuola dove l’impegno sindacale e quindi l’impegno
sociale era considerato come un preciso dovere a cui un lavoratore
cristiano non poteva sottrarsi. Attraverso la scuola ed i suoi
giovani conobbe i veri problemi del popolo. Entrò nelle famiglie
come uno di loro pronto a dare un aiuto su qualunque questione.
Quando licenziarono Mauro da una
tessitura di Prato, non avevano licenziato solo uno del popolo, ma il
“suo” Mauro del quale per mezzo della scuola e le discussioni che
venivano fatte ogni sera fino a tarda notte, conosceva tutto:
famiglia, problemi, gioie e disperazioni. Così a quel licenziamento
reagì con tutto il peso del suo pensiero e della sua parola. Per
giorni interi si discusse a scuola con sindacalisti, magistrati e
ispettori del lavoro su come reagire, come impedire una ingiustizia
così grave.
Operava per far prendere coscienza ai
giovani operai sulla necessità che divenissero protagonisti del loro
futuro rifuggendo da schieramenti preconcetti, ma distinguendo sempre
il vero dal falso. Ragionando sempre con la propria testa.
Era severo nei propri comportamenti e
richiedeva ai giovani coerenza tra idee, parole e comportamento
pratico, senza mai rinunciare alla gioia di dire sempre la verità e
di vivere senza nessun formalismo.
La sua scuola accoglieva solo operai e
contadini, perchè intendeva eliminare la differenza culturale che
esisteva tra questi e altri strati sociali. Per questo la definiva
scuola classista, nel senso cioè di scelta dei poveri.
Questo suo schieramento, sempre
giustificato alla luce del Vangelo, era un aspetto costantemente
presente nella sua attività scolastica e pastorale che trapelava
continuamente.
Un giorno un ragazzo di solida famiglia
cattolica gli disse: “ma lei insegna anche a lui che è comunista e
dichiarato nemico della Chiesa? Io gli insegno il bene – rispose –
gli insegno a essere un uomo migliore e se poi continua a rimanere
comunista, sarà un comunista migliore.”
E a Pipetta, il giovane comunista che
gli diceva “se tutti preti fossero come Lei, allora …”,
rispondeva: “il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di
qualche parco, installato la casa dei poveri nella reggia del ricco,
ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente
potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di
Cristo, beati i poveri perchè il regno dei cieli è loro. Quel
giorno io non resterò con te, io tornerò nella tua casuccia piovosa
e puzzolente a pregare per te davanti al mio signore crocifisso.”
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