Renzi evoca il 41 per cento per colmare il gap tra le attese
suscitate dalle europee e i difficili rapporti di forza in parlamento.
Un fallimento sarebbe di tutti, nasce da qui il caso Mineo.
La frase di Matteo Renzi suona ruvida, dietro però c’è tutto il
senso politico del momento. Quando dice «non ho preso il 40,8 per cento
per lasciare il paese in mano a Corradino Mineo» esprime la
consapevolezza che una finestra di opportunità si è spalancata adesso,
dopo il 25 maggio, e non rimarrà aperta a lungo.
Le elezioni in effetti hanno consegnato al Pd una grande forza
politica e un mandato imperativo a trasformare in realtà le riforme
avviate, ma in persistenza di un quadro parlamentare difficile, quando
non addirittura sfavorevole.
La prova più importante per Renzi, l’hanno notato tutti, consiste
proprio nel colmare il gap che esiste tra la spinta ricevuta dagli
elettori nel 2014 e i rapporti di forza parlamentari ereditati dalla
sconfitta del 2013. Per recuperare questo divario – in sostanza, per non
fallire nella missione che si è assegnato – Renzi non può fare altro
che spendere il consenso popolare per superare gli ostacoli che di volta
in volta trova davanti.
Questo è tanto più vero adesso che Forza Italia evapora giorno dopo
giorno, come partito e come partner per le riforme istituzionali: le sue
difficoltà la rendono imprevedibile, più esigente. Il quadro
parlamentare si fa incerto. E più rischioso, per un presidente del
consiglio che ha preso pubblicamente con gli elettori impegni che devono
diventare realtà proprio nelle aule di camera e senato.
La grandissima parte del Pd, si fa carico di questa difficile
impresa, il cui eventuale fallimento ricadrebbe su tutti. Toccato il
40,8 per cento, distinzioni tra Renzi, i renziani e gli altri non hanno
più senso agli occhi del cittadino normale.
Dopo decine di assemblee, riunioni, e dopo aver corretto più volte i
testi di riforma, sul tema della riforma del senato rimane irriducibile
l’opposizione di un gruppo di parlamentari. È sacrosanto che si
manifesti. Ma è ingiusto che possa da sola impedire al Pd di proseguire
nel tentativo che ha deciso di fare, e sul quale verrà giudicato dagli
italiani.
Il nocciolo della spiacevole questione Mineo è tutto qui: non ci si
sarebbe dovuti neanche arrivare. Se il senatore (che peraltro non ha
condiviso praticamente nessuna delle decisioni importanti prese dal Pd
nella legislatura, fin da subito, ben prima che arrivasse Renzi) non se
la sentiva di agevolare in commissione il varo del testo, per poi votare
secondo coscienza in aula, la sostituzione avrebbe dovuto chiederla
lui.
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