Il segretario del Pd esce dall'assemblea dell'Ergife padrone della
situazione. Perfino il caso Mose alla fine lo ha aiutato. E dopo essersi
negato quando il Pd stava in difficoltà, M5S si offre adesso che le
parti sono rovesciate.
L’impatto più forte del risultato delle europee sul quadro
politico arriva in differita, tre settimane dopo. Un po’ è successo
perché si volevano aspettare i ballottaggi (e questi hanno rafforzato il
messaggio degli elettori, checché ne abbiano scritto coloro che si sono
fatti incantare da Livorno). Un po’ è intervenuto, a un certo punto, lo
scandalo Mose con il coinvolgimento di personaggi di spicco dell’area
democratica. Soprattutto però i partiti usciti sconfitti dalle urne
europee dovevano registrare i propri notevoli problemi interni (per
Forza Italia siamo appena agli inizi) ed erano curiosi di capire come
Matteo Renzi avrebbe regolato i conti all’interno del Partito
democratico.
Devono essere rimasti impressionati. Sia Salvini che Vendola, e più di tutti Grillo e Casaleggio.
Non so se avessero cullato la speranza che il successo elettorale di
Renzi potesse essere rapidamente neutralizzato, dai guai giudiziari
veneziani o dalla rivolta nel gruppo dei senatori della minoranza Pd.
Sta di fatto che, nonostante la scomodità della trasferta asiatica, in
poche ore il segretario-premier ha rovesciato entrambi gli eventi a
proprio favore. Uscendo dall’assemblea nazionale dell’Ergife con un
risultato tennistico. Gioco-partita-incontro.
L’opposizione interna è divisa in tre tronconi, uno dei quali ormai
pienamente coinvolto nel governo del partito dopo l’elezione di Matteo
Orfini alla presidenza del partito; il secondo un po’ allo sbando privo
della guida dei suoi leader Bersani e Letta; il terzo travolto dal
narcisismo di un personaggio al quale con grande imprudenza Civati ha
ceduto il ruolo di uomo-immagine della sua corrente. Eppure bastava
conoscere poco poco Renzi e Corradino Mineo, per capire che il primo
sarebbe passato sopra al secondo come uno schiacciasassi: l’ex direttore
Rai riassume in sé tutte le caratteristiche di quella sinistra
presuntuosa e velleitaria che il segretario del Pd predilige come
avversario. Anzi, persone come Mineo gli tornano utilissime, simboli da
mostrare al corpo del partito per rendere chiara la differenza
tra l’inaffidabilità e l’inconsistenza della vecchia sinistra, e la
concretezza e risolutezza del “nuovo” Pd. Per dirla proprio tutta, ha
fatto perfino un po’ impressione come la platea dell’Ergife abbia
reagito alla demolizione di Mineo: l’insofferenza verso chi frappone
ostacoli al segretario dice molto della voglia di girare pagina,
l’importante è che il segretario faccia appello a questo sentimento con
parsimonia.
Insomma, la conquista del Pd è ormai completa per Renzi. Per questo
non gli costa rendere omaggio ai simboli del partito che fu, anzi farne
uso politico in proprio: ieri si trattava dell’adesione spensierata al
Pse (per diventarne il partito-guida nel giro di due mesi); oggi di
rilanciare le Feste dell’Unità, un brand (come ha detto Renzi) che a livello popolare può funzionare e tranquillizzare ulteriormente chi ancora ne avesse bisogno.
Ma anche dalla vicenda Orsoni il segretario del Pd esce con un paio
di mosse che lo piazzano, dalla posizione scomoda nella quale in teoria
si sarebbe potuto trovare, nel ruolo ideale di chi non lascia angoli bui
in casa propria, non teme ricatti («chi ha da denunciare qualcosa vada
in procura») e rilancia in contemporanea sul tavolo dell’anticorruzione
(i poteri a Cantone) e su quello della sfida alla corporazione togata.
Il suggello della prova superata è nell’editoriale ammirato che gli
regala Marco Travaglio: vedremo se il credito del Fatto quotidiano reggerà alla presentazione della riforma della giustizia di Andrea Orlando, fra pochi giorni.
Insomma è un Matteo Renzi in gran salute, quello che adesso riceve le
profferte di dialogo da parte di tutti i suoi oppositori più accaniti
(a parte il contatto in realtà mai interrotto con Nichi Vendola).
Situazione che inevitabilmente costringerà anche Berlusconi a moderare i
toni e a tornare più disponibile sulla riforma del senato.
In confronto alla professionalità politica esibita dal premier in
questi ultimi giorni, colpisce (anche positivamente se vogliamo)
l’ingenuità dell’iniziativa di Beppe Grillo sulla legge elettorale.
Dopo tutto quello che il M5S ha detto del Pd e di Renzi nell’ultimo
anno, il riconoscimento che ora viene offerto loro ha un sapore di
tatticismo troppo smaccato. Si intuisce che tra Grillo e Casaleggio sia
maturato un giudizio molto preoccupato sul risultato delle europee e
sulla prospettiva di lunghi mesi di opposizione senza costrutto. I due
devono essersi convinti che, a forza di battere su questo
tasto, l’argomento renziano dell’inutilità della presenza grillina in
parlamento ha fatto breccia nell’elettorato. Infine, le tensioni interne
al movimento non si sono certo fermate grazie a Livorno, anzi si
acuiscono.
L’ingenuità della proposta di dialogo emerge proprio dalla
tempistica. Dopo mesi, finalmente ci si dispone a un confronto col Pd
quando quest’ultimo è nella migliore delle condizioni. Ciò che non si
volle concedere a Bersani in un momento di difficoltà, si concede oggi a
Renzi quando la difficoltà s’è spostata tutta sul lato grillino, e
quando il Pd può giocare in parlamento sulle riforme con quasi tutti gli
interlocutori presenti.
Sicché Grillo e i suoi luogotenenti possono sperare di alleggerire le
critiche, prendere tempo e infine, più prima che poi, ripartire con la
propaganda sull’inevitabile fallimento del dialogo. Poco più di questo,
però. È gioco di rimessa. Chi decide quale forno aprire, per tirare
fuori dal parlamento quale tipo di riforma e quale tipo di sistema
elettorale, rimane in ogni caso Renzi: da questa situazione Cinquestelle
può sperare di ricavare davvero scarse soddisfazioni. E non è escluso
che alla fine le divisioni interne si accentuino, invece di sanarsi.
Il segretario del Pd e presidente del consiglio fino a oggi ha avuto
fretta, e continuerà a teorizzare e a praticare la necessità di andare
veloci. L’agenda del governo rimane fitta, è urgente alleggerirla
chiudendo qualche dossier (mentre in realtà se ne aprono altri: la Rai
per esempio). Adesso però il frenetico Renzi sa che, per la prima volta
da quando è partita la sua rincorsa al vertice della politica nazionale,
il tempo comincia a essere dalla sua parte. Come confermano le timide
ma visibili tendenze positive dell’economia.
Per sobrietà e calcolo, quel 40,8 per cento stampato a caratteri
cubitali sul fondale dell’assemblea nazionale democratica non è stato
festeggiato. Ma i suoi effetti positivi si avvertono già.
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