Quattordici senatori si autosospendono dal gruppo al senato, ma
restano isolati. Domani in assemblea il segretario farà pesare il 40,8%
conquistato alle Europee per ricomporre il partito
Il 40,8% gigante che dominerà il palco dell’assemblea nazionale
di domani la dice lunga sulle intenzioni di Matteo Renzi. Il
premier-segretario nella sua relazione trasmetterà a tutto il Pd il
senso di responsabilità che gli è stato trasmesso dal risultato delle
elezioni europee, spingendo sull’acceleratore delle riforme, a partire
da quelle istituzionali (ma anche pubblica amministrazione, lavoro,
fisco, giustizia). Una relazione che renderà ancora più stretto lo
spazio di manovra per i quattordici senatori dissidenti, che ieri si sono autosospesi dal gruppo dem a palazzo Madama per protestare contro la sostituzione di Corradino Mineo e Vannino Chiti in commissione affari costituzionali.
Sono proprio loro i primi a essere consapevoli della difficoltà cui
vanno incontro. Subito dopo il loro annuncio, hanno letto una dopo
l’altra le dichiarazioni non tanto dei renziani Maria Elena Boschi, Luca
Lotti, Francesco Bonifazi, ampiamente prevedibili, quanto quelle del
bersaniano Miguel Gotor, di Gianni Cuperlo, del “turco” Francesco
Verducci, del lettiano Francesco Russo: tutti ad auspicare una
ricomposizione ma, soprattutto, a stigmatizzare l’atteggiamento
intransigente di una ristretta minoranza del gruppo, che «non può
contribuire a determinare una maggioranza diversa rispetto a quella
sostenuta» dal Pd (Gotor). Nessuno, insomma, a dare sponda alla loro
battaglia. Ad eccezione di Pippo Civati e Stefano Fassina, rimasti ormai
gli unici a tirarsi fuori dalla “pax renziana”.
«È stupefacente che Corradino Mineo parli di epurazione – ha
commentato Renzi dal Kazakistan, prima di rientrare ieri sera in Italia –
il partito non è un taxi che si prende per farsi eleggere. Non ho preso
il 41 per cento per lasciare il futuro del paese a Mineo». Il premier,
insomma, ha tutta l’intenzione di andare avanti, scommettendo sul fatto
che l’area dei dissidenti (già fortemente ridimensionata, grazie al
lavoro che è stato portato avanti da Zanda, Finocchiaro e Boschi nel
gruppo del senato, nel corso di ben dieci assemblee) si limiterà alla
fine a una battaglia di testimonianza, senza mettere a rischio i numeri
della maggioranza. Il premier potrà mostrarsi così in una posizione di
forza anche nei confronti di Silvio Berlusconi, con il quale potrebbe
incontrarsi presto (ma sicuramente dopo l’assemblea nazionale) per
rinsaldare il patto sulle riforme.
Anche da questo punto di vista, l’appuntamento di domani dovrà
servire al premier per mostrare che il suo partito è compatto attorno a
lui. «Sarà tutto un cinematografo», sintetizza ironicamente uno dei
quattordici dissidenti. Anche per questo si è deciso di rinviare il
confronto sulla costituzione della nuova segreteria, mentre la scelta
del nuovo presidente sarà il primo fascicolo che il segretario si
ritroverà sulla scrivania oggi, rientrato in Italia.
Il tentativo di affidare al confronto interno alla minoranza
cuperliana l’indicazione del nome non è andato a buon fine: le divisioni
interne a quell’area ormai sono talmente profonde da rendere difficile
un dialogo tra i Giovani turchi, da una parte, e i bersanian-dalemiani
di Area riformista, dall’altra. Per questo, l’ipotesi di affidare la
presidenza dell’assemblea a Matteo Orfini, circolata negli ultimi
giorni, potrà realizzarsi solo su indicazione diretta di Renzi. Le altre
opzioni rimangono quella della lettiana Paola De Micheli (prima scelta
dei bersaniani) e dei governatori Nicola Zingaretti o Sergio
Chiamparino. Ma di fronte all’empasse, sono sempre di più i dem
che auspicano una scelta più “alla Renzi”: una donna, possibilmente una
amministratrice, che segni un distacco rispetto al gruppo dirigente
precedente e renda ancora più evidente il rinnovamento interno.
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