domenica 14 dicembre 2014

Oggi nel Pd deve succedere qualcosa di serio

Stefano Menichini 
Europa  
Non potrà bastare neanche un ampio voto di maggioranza. Il gruppo dirigente allargato deve lanciare un messaggio di feroce determinazione: vogliamo rispondere agli italiani degli impegni assunti. Senza inciampare sulle votazioni per il Quirinale.
Non si ricordano assemblee nazionali del Pd ove si siano verificati memorabili eventi politici. L’unica forse fu quella del 20 settembre 2013, quando il disperato e vano tentativo di bersaniani e lettiani di fermare le imminenti primarie valse da preannuncio non solo e non tanto della vittoria renziana, quanto dello sfaldamento dei suoi disorientati oppositori.
Sarebbe molto grave se l’assemblea democratica di oggi finisse nel dimenticatoio dei molti altri appuntamenti superflui.
Dovrebbe essere evidente a tutti che il Pd corre temerariamente sul filo del rischio che Renzi vide già nelle prime ore dopo la vittoria delle europee: se ad aspettative e a responsabilità così grandi come quelle suscitate allora fosse seguita una delusione, si sarebbe bruciata non solo una leadership personale ma la sorte di tutto il partito.
Da allora, la sistematica opera di logoramento ai danni di Renzi da parte dei suoi oppositori non ha conosciuto pause. In queste settimane su Jobs Act, legge elettorale e riforma del bicameralismo ci sono state scelte parlamentari che c’entrano poco con l’asserita volontà di “migliorare i testi” e anzi spesso la contraddicono: c’è un disegno politico evidente, che sarebbe anche legittimo se non fosse negato, e se non calpestasse alcune regole base della convivenza in uno stesso partito.
Certo, il segretario-premier ha compiuto i suoi errori. Il paese ha assistito, nel perdurare di una crisi sociale angosciante, a uno scontro tra governo e sindacati come non se ne ricordavano: era inevitabile che accadesse ed è stato anzi tardivo, ma poteva svolgersi con modalità meno ansiogene per una comunità già molto insicura.
Scandali e inchieste hanno colpito duramente, tra le retroguardie dei vecchi gruppi dirigenti ma non solo, e agli occhi dei cittadini Renzi fatica a tenere le distanze da un sottobosco che avrebbe dovuto estirpare e invece è ancora folto.
Per dirla in una frase: da che sembrava che fosse diventato la soluzione, il Pd è tornato a essere un problema per l’Italia, come gli è capitato spesso in passato per responsabilità degli stessi vecchi gruppi dirigenti che ora tentano il colpo di coda.
Cosa grave, visto che parliamo, più che del partito che governa ormai quasi ogni angolo del paese, dell’unico vero partito rimasto in piedi.
Né l’ottimismo nelle proprie possibilità né la noncuranza verso gli avversari possono più bastare a Renzi. Il quale deve dare – oggi – il segnale forte di una totale ripresa di controllo. E il segnale non potrà venire solo dai numeri della prevista votazione finale nell’assemblea.
Il segretario deve prosciugare tutta l’acqua, ondivaga se non stagnante, che continua a esserci tra sé e i suoi oppositori dichiarati.
Una minoranza ci deve essere, corrisponde del resto a dubbi e resistenze che sono reali nello stesso Pd e che meritano di essere rappresentati. Ma deve esserci a maggior ragione, soprattutto, una vera maggioranza. Convinta e compatta non solo sulle scelte contingenti, quanto sulla prospettiva: la radicalità delle riforme, la tenuta di governo e legislatura, il sostegno pieno alla leadership che ha reso possibile questa insperata (e non del tutto, e non da tutti, meritata) stagione di egemonia democratica sulla vita politica italiana.
Tutti sappiamo, e scriviamo, dell’ostacolo che frena l’irruenza renziana: il voto a camere riunite sul successore di Napolitano, forse già verso la fine di gennaio.
Il premier ha mostrato più volte una notevole perizia tattica, che gli avversari avevano sottovalutato. Potrebbe non bastare, in un parlamento dove nessun leader, a cominciare da Berlusconi e Grillo, controlla i propri gruppi. Sulla fedeltà di deputati e senatori democratici non c’è da farsi molte illusioni.
E allora fin da subito Renzi potrebbe rendere chiaro che certo la partita del Quirinale verrà giocata con ogni accortezza, perseguendo maggioranze le più ampie possibili e uscendone con la personalità migliore nel solco di quell’idea dell’Italia e della democrazia di cui s’è fatto campione Giorgio Napolitano; ma che si tratta in ogni caso di una parentesi, per quanto importante, e che non sarà nel segreto di quelle cabine che si deciderà il destino della stagione renziana.
Da qui a quella scadenza, nel corso di quella scadenza, e dopo quella scadenza, il gruppo dirigente del Pd nel suo recente ampliato perimetro deve dare all’esterno e all’interno, a cominciare dall’assemblea odierna, un messaggio di determinazione feroce su un punto cardine della democrazia, che non consiste solo nel confronto tra politici ma soprattutto nel diritto e dovere di completare la propria agenda e di sottoporne i risultati agli elettori.
Né le ricorrenti e ambigue minacce di scissione, né l’opera distruttiva di dirigenti sconfitti, superati ma non rassegnati, possono stravolgere gli impegni che il Pd aveva preso con gli italiani.
Dopo di che, se i pilastri che sostengono la maggioranza per le riforme istituzionali cederanno altrove – cioè dentro Forza Italia – il bilancio del lavoro svolto verrà presentato agli elettori in anticipo, con l’ammissione di un fallimento che ovviamente coinvolgerà Renzi e il suo gruppo dirigente, ma del quale essi potranno dire con buoni argomenti di non essere responsabili.

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