domenica 21 dicembre 2014

L’ospedale all’epicentro di Ebola 
«Italia, lascia partire i tuoi medici».


Corriere della Sera 21/12/14
corriere.it
Un prato del Comitato olimpico della Sierra Leone in sei settimane è diventato un ospedale per combattere Ebola. Ma mentre in Europa rimbalzano gli appelli roboanti per cinquemila medici da mandare in Africa, qui non se ne vedono neanche cinquanta.

Cinquemila sono anche i metri quadrati su cui si estende il nuovo centro di trattamento che Emergency ha aperto in questi giorni a Goderich, periferia di Freetown: 100 posti letto, 24 di terapia intensiva. Il virus rimane padrone della Sierra Leone, che ha superato la Liberia per numero di casi: cala l’attenzione internazionale ma la gente continua a morire nelle strade, dove anche i ragazzini improvvisano checkpoint sanitari tirando corde per misurare la febbre a chi passa.

L’Onu dice che Freetown è il nuovo epicentro dell’emergenza Ebola in Africa. Un segno dell’emergenza: oltre alle partite di calcio e alle serate in discoteca, il governo ha proibito le celebrazioni del Natale, per ridurre contatti e possibili contagi, in un Paese dove le feste dei cristiani (il 40% della popolazione) vengono celebrate anche dai musulmani. Prima di Ebola i cristiani andavano alla moschea il venerdì e i musulmani ricambiavano passando dalla messa la domenica, straordinario esempio di convivenza interreligiosa. Ora nessuno va più da nessuna parte. Economia al collasso, scuole chiuse, campi abbandonati, province in quarantena. È un Paese paralizzato dalla paura.

Una guerra contro un nemico invisibile. Ogni giorno un doppio dilemma: curare i malati, proteggere il personale che li cura. In questo Paese più di 160 operatori sono morti combattendo Ebola. Siamo abituati a stare anche 12 ore in sala operatoria, ma lavorando a 18 gradi: gli scafandri di protezione indossati nella zona rossa, invece, sono forni che rendono i turni massacranti. È dura resistere per più di un’ora. Per garantire un’assistenza sulle 24 ore serve molto più personale rispetto alla chirurgia.

Nel nuovo ospedale abbiamo assunto 600 operatori nazionali che stiamo addestrando. Dei 100 internazionali che servono ne abbiamo una trentina: a giorni ci raggiungerà un team sudcoreano, da gennaio conteremo su alcuni colleghi sudafricani. E gli altri? Molti medici e infermieri italiani sono pronti a darci una mano, ma non hanno ottenuto dalle Asl l’aspettativa necessaria. In sei settimane centinaia di operai locali e i Royal Engineers dell’esercito britannico, incaricati dalla cooperazione allo sviluppo inglese, lavorando 24 ore su 24 hanno trasformato un campo di calcio in un ospedale. Da più di due mesi in Italia si sentono politici che promettono aspettative per ragioni umanitarie, provvedimenti ad hoc. La verità è che fino a ora quasi tutti coloro che hanno chiesto il permesso di partire se lo sono visti rifiutare. Spero che qualcuno ci faccia il regalo di Natale: dando indicazioni precise alle regioni e alle Asl, non suggerimenti, per concedere queste «benedette aspettative» come avviene in altri Paesi. L’Italia deve fare la sua parte, e in fretta. I pazienti non aspettano le conferenze Stato-regioni. Ogni giorno qualcuno muore perché mancano i medici che l’avrebbero potuto curare.

Emergency è in questo Paese da 13 anni. Nei due centri (chirurgico e pediatrico) siamo riusciti a non far entrare un singolo malato di Ebola. Le precauzioni non sono sempre sufficienti. Uno dei nostri addetti alle pulizie, che era a casa in malattia da due settimane per una ferita a una gamba, si è infettato. Durante quelle due settimane ha partecipato a un funerale tradizionale, durante il quale i corpi vengono toccati da diverse persone. Purtroppo è tornato da noi troppo tardi ed è morto in breve tempo.

Poi ci sono i casi in cui non trovi una spiegazione ed è ancora più inquietante. È successo con uno dei nostri medici italiani. Ora l’angoscia per lui si è dissipata e credo si possa dire con tutte le cautele del caso che abbia imboccato la via della guarigione. Da quella domenica in cui gli è comparsa la febbre non siamo riusciti a capire come sia potuto succedere. La sera prima io e lui abbiamo lavorato insieme guardando dati di pazienti al computer. Il giorno dopo è risultato positivo ai test e noi tutti che abbiamo vissuto in casa con lui abbiamo provato in maniera più intensa quel po’ di ansia che fa da sottofondo alle giornate e non se ne va mai perché ti confronti con un nemico invisibile.

Poi ci sono momenti in cui l’umore cambia: ogni volta che si dimette un paziente guarito e quel paziente tre giorni dopo viene a chiedere se può lavorare al centro, anche perché vuole aiutare chi vive quel che ha vissuto lui. È successo lo stesso quando si è ammalato il nostro collega: in fretta e furia il giorno del suo rientro in Italia abbiamo cercato pazienti sopravvissuti per chiedere di donare il loro sangue. Il sangue dei pazienti guariti può essere utilizzato per combattere la malattia. In 2 ore si sono presentati in cinque. Persone della Sierra Leone arrivate al nostro ospedale per aiutare un medico italiano che si è infettato combattendo Ebola.

Nessun commento:

Posta un commento