giovedì 4 dicembre 2014

La fretta non può mai giustificare il racconto di una parte sola di verità


In occasione del conferimento della laurea honoris causa in comunicazione pubblica e d’impresa all’Università degli Studi di Milano

don Virginio Colmegna

Ringrazio il Senato Accademico e il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Sono davvero onorato di ricevere questa laurea honoris causa in comunicazione pubblica e d’impresa da parte di una così importante università della mia città, dove ogni giorno cerco di impegnarmi, insieme a tanti collaboratori e volontari, nell’impresa di condividere un cammino con i più fragili e poveri. Provo in questo momento contentezza e gratitudine. Per l’amicizia che ci lega, sono certo di interpretare anche i sentimenti di Luigi e di Gino se vi dico che sento questo vostro riconoscimento come un’opportunità per ripensare al senso profondo dell’essere chiamati “preti di strada”.
Siamo preti che vivono con una forte motivazione evangelica il partire dalla strada come scelta di vita, che non si stancano di comunicare che l’incontro con i poveri non è una relazione dove li si utilizza per esercitare bontà ma, come dice il Papa, essi sono una “categoria teologica”. Da lì passa quel Gesù che desideriamo incontrare ed attendere. Lì riscopriamo, nella profondità di una ricerca spirituale, quella cura appassionata che gli uomini tutti, senza eccezioni, possono scambiarsi tra di loro per essere più felici. Ci anima una domanda di felicità, una profonda esigenza di felicità!
Per questo viviamo la strada che non è il luogo speciale dei più eroici, degli attivisti originali, ma è la condivisione di un cammino di ospitalità con chi è più vulnerabile, fragile e senza diritti; ci dà la possibilità di comunicare a tutti che il punto di partenza, per rendere possibile una visione di umanità fraterna e solidale, è la giustizia, è la difesa della dignità di ogni persona. Comunicare, dunque, è condividere: la parola deriva dal latino cum munis, “mettere insieme”, e l’etimologia ci rivela la sua caratteristica di espressione sociale: la comunicazione è mettere un valore al servizio di qualcuno che è altro da noi, farlo diventare patrimonio comune per costruire una discussione, un sapere, una cultura.
Il Cardinale Carlo Maria Martini, uno dei miei maestri, nel suo modo di comunicare utilizzava il metodo che a me piace definire dell’icona. Traduceva un concetto, spesso non semplice, in un’immagine efficace, in modo che tutti riuscissero a capire, ad esempio, il senso profondo del fare operoso che caratterizza la dinamica della carità evangelica. È stato un arguto anticipatore quando nel 1991 scrisse per la Diocesi una lettera sulla comunicazione, paragonando i media ad un lembo del mantello del Maestro che, in un famoso brano evangelico, la donna ammalata tocca e subito guarisce, prima ancora che Gesù se ne accorga e le rivolga la parola. Non c’è sonoro in questa scena, c’è lo zoom su quella mano che sfiora il mantello e rifiorisce. Ecco un esempio di comunicazione efficace, profonda, salvifica, che avviene attraverso un mezzo semplice, povero, ma non insignificante.
Un po’ di quel mantello vorremmo essere anche noi della Casa della carità che, dalla periferia di Crescenzago, dove è nato l’amico Gino, parliamo con Milano, con le parrocchie della Diocesi, con le realtà della società civile, con le istituzioni e con i più “sprovveduti”, termine usato proprio dal Cardinal Martini quando annunciò ai Milanesi il dono della Casa della carità perché, disse, “provvedesse agli sprovveduti”. Sono questi sprovveduti, poveri di diritti, che ogni giorno bussano alle nostre porte in via Brambilla, in fondo a via Padova. Da questo angolo di Milano, modesto e semplice, da dieci anni ci sforziamo di tessere un dialogo continuo con le diverse culture, i diversi saperi e le diverse religioni, con le università e i luoghi delle arti, con il territorio, attraverso le sue associazioni di quartiere, e con la città, attraverso le sue risorse sociali.
Ho gioito quando ho sentito per la prima volta Papa Francesco indicare a tutti la strada: “Partire dalle periferie esistenziali e sociali”. Per me, per noi, per tanti credenti e non credenti, cristiani o di altre religioni, questo è un suggerimento prezioso, perché oggi sono le periferie urbane ed esistenziali il punto strategico da cui guardare se si vuole cambiare questa società e renderla più giusta. Ecco, allora, che comunicare non è solo condividere, è scegliere il punto migliore da cui guardare la realtà per capirla e condividerla.
È questo “sguardo” che il Cardinal Martini ci ha chiesto di tenere sulla città. Del Cardinal Martini ricordo un’altra icona, forse la più bella, presa dalla Bibbia, dal libro della Genesi (cap. 18), dove si racconta di Abramo che accoglie tre uomini apparsi all’improvviso sotto il sole dell’ora più torrida del giorno e, dopo aver subito ceduto loro il suo posto all’ombra delle querce di Mamre, corre a preparare insieme alla moglie Sara un pranzo con tutto ciò che ha in casa affinché possano godere di un’ospitalità degna e conviviale.
È un’immagine che resta impressa: quell’Abramo già anziano, che potrebbe starsene tranquillo a riposare all’ombra, che potrebbe sbrigarsela offrendo un riparo ai tre ospiti e che, invece, si dà freneticamente da fare per accogliere al meglio i tre viandanti, cedendo loro il posto migliore all’ombra, correndo a preparare da bere e mangiare. È la sintesi perfetta dell’idea di un’ospitalità generosa, disinteressata, desiderosa di dare all’altro tutto ciò che si può dare, senza chiedere all’altro chi è, cosa vuole, cosa è venuto a fare. Un’ospitalità che sorprende e stupisce, che genera futuro e non ha nulla a che fare con il buonismo assistenzialista. Questa icona ci dice che non c’è comunicazione senza sorprese e senza emozione: questa emozione però non si muoverebbe se Abramo non sapesse scorgere il suo Signore nell’uomo che domanda ospitalità, che ci interroga, ci inquieta, non ci rassicura. Non si possono “usare” i poveri per rafforzare la propria identità: chi è povero dei diritti e privato dell’umanità interpella la responsabilità di tutti noi.
Comunicare è rendere le complessità comprensibili. Comunicare è stabilire un contatto con gli altri. Comunicare è abbattere divisioni. Ecco perché la Casa della carità per noi è un soggetto che comunica. Parafrasando il pensiero del filosofo tedesco Jurgen Habermas nella sua Teoria dell’agire comunicativo, la Casa della carità è un insieme di dire e di fare, dunque è un soggetto che comunica. Lo è in quanto luogo dove si svolgono azioni che parlano e in quanto luogo da cui escono parole cariche di azione. Dire e fare. È questo un intreccio profondo che smonta qualsiasi atteggiamento retorico. Personalmente credo che lo si debba ricondurre anche a tematiche che riguardano la coscienza. Luigi dice spesso “graffiare le coscienze”, intendendo la necessità di entrare nel cuore. Ha ragione, c’è un gran bisogno di ricreare una coscienza educata. Siamo in ritardo e su questo ritardo pesano molte sconfitte.
Così come ha ragione Gino che non si stanca mai di dire che bisogna investire molto di più nelle scelte educative per prevenire e promuovere giustizia. È vero, da loro ho imparato molto. È un’operazione fortemente culturale quella che stiamo cercando di imbastire insieme. Non a caso, contro ogni tentazione di retorica, da tempo con Luigi e Gino diciamo che la parola “volontari” va archiviata e sostituita con il termine di “cittadini responsabili”. Per unire azione sociale e ricerca culturale il Cardinal Martini volle che la Casa della carità promuovesse un’Accademia della carità; anche in questo guardava lontano. Perché non basta offrire un tetto, un letto e del cibo ai più poveri, diceva, occorre promuovere e sollecitare ragionamenti e riflessioni sui fenomeni di esclusione sociale, se si vuole una città capace di inclusione.
Occorre promuovere e dare spazio ad una cultura plurale. Se guardo all’esperienza di questi dieci anni, Casa della carità è un luogo plurale dove sono passate migliaia di persone, uomini, donne e bambini provenienti da 95 differenti Paesi del mondo. È un luogo dove si incontrano le diversità, ma dove contano i nomi delle persone, i loro volti, la loro soggettività, dove si cerca di evitare il più possibile qualsiasi rapporto massificante perché l’obiettivo è aiutare gli ospiti a riconquistare l’autonomia, prendersi cura dei loro bisogni, aiutarli (anche se in questo momento potete capire quanto sia difficile) a trovare un lavoro e una casa. La nostra casa è un luogo pieno di domande più che di risposte. E comunicare significa fare domande più che dare risposte.
Il Cardinal Martini ci ha insegnato ad essere appassionati da questa ricerca e da questa inquietudine: la cattedra dei non credenti, in questo senso, è stata una strategica indicazione culturale e credo, per noi preti, anche un’indicazione pastorale e spirituale. Per fare domande, però, bisogna ascoltare: alla Casa della carità e in tutti gli anni della Caritas, ma soprattutto pensando all’avvio a Sesto San Giovanni della cooperativa Colce e della Grande Casa e all’esperienza di parroco in un quartiere di periferia, ho ascoltato storie individuali, storie di ghetti e di baraccopoli, di quartieri difficili, di famiglie sfrattate, di ospedali dove si viene contenuti, di tanta sofferenza, di sofferenza mentale, di carceri dove ci si dimentica di essere un uomo, di persone che hanno lottato per essere considerate persone normali, ma continuano a portarsi addosso lo stigma dell’esclusione.
In Casa della carità ho imparato la dinamica di un ascolto che non ammette risposte standardizzate, ma obbliga ad interrogarsi sulle tante domande che ci vengono poste. È un luogo dinamico dell’agire e un luogo pensante di ricerca, che ci richiama però continuamente all’umiltà del sapere perché i poveri, se li si ascolta con attenzione, ci danno una lezione di vita che può sedimentarsi in una capacità di pensiero e di riflessione. Questa onorificenza va consegnata nel suo valore profondo a una visione di città dove gli ultimi sono portatori di domande di diritti, che ne siano consapevoli, oppure no. Ho già accennato al momento di crisi che stiamo vivendo e per questo oggi c’è un grande bisogno di dare alle persone segni di speranza. Le buone notizie sono segni di speranza. Comunicare buone notizie deve diventare un segno di buona comunicazione.
Vladimiro Zagrebelsky, per molti anni giudice della corte europea dei diritti dell’uomo, quando parlava del ruolo che la stampa deve svolgere e deve poter svolgere in una società democratica usava anche lui un’icona, un’immagine nata nei Paesi anglosassoni: la stampa come cane da guardia della democrazia, come “un cane che gira libero attorno a casa, orecchie tese e naso al vento e abbaia, anche più forte del necessario e qualche volta deve mordere”. Credo, però, che una corretta e completa informazione non debba trascurare mai quanto di buono avviene. Ad esempio, quando si racconta di migranti e di rom che occupano case popolari destinate ad altri, perché non dire anche che quei rom, ai quali è stata data a Milano una possibilità concreta di abbandonare la vita nei campi, oggi vivono in case dove pagano l’affitto, mandando i figli a scuola con regolarità e che si mantengono lavorando?
Comunicare è impegnativo. Posso capire i tempi brevi nei quali un cronista deve spesso imbastire un articolo, ma la fretta non può mai giustificare il racconto di una parte sola di verità. Proprio perché non hanno diritti e non hanno voce per essere ascoltati, gli sprovveduti, gli ultimi, i più poveri tra i poveri, hanno bisogno di non essere considerati unicamente un problema, un problema di costi, di ordine pubblico o, peggio ancora, essere indicati come un pericolo. Non hanno bisogno di falso pietismo e di atteggiamenti elemosinieri. Hanno bisogno di giustizia e di giusta comunicazione. In Casa della carità abbiamo coniato uno slogan, “stare nel mezzo”. Significa stare là dove si determina l’emergenza sociale per superarla gradualmente, impegnandosi in interventi condivisi, nella convinzione che a partire dall’attenzione per chi è ai margini si possa produrre benessere per tutti.
Per questo, tra mille difficoltà ma anche con tanto entusiasmo, io, Gino e Luigi cerchiamo di portare avanti le nostre realtà che lavorano in quei luoghi e a contatto con persone che non producono il consenso, inteso come vantaggio politico o economico. Accogliamo persone senza permesso di soggiorno, ma abbiamo abolito la parola “clandestino” perché avvertiamo quanta irregolarità viene prodotta da dei meccanismi legislativi inadeguati, dall’abitare in strada e da una diffusa sotterranea disperazione. Ci sono seri giornalisti che hanno saputo fare tesoro della Carta di Roma, quella stilata nel 2008 che invita i media ad avere delle attenzioni per gli stranieri, a non violarne la dignità, a rispettarne la fragilità.
Non di rado specificare in un titolo la nazionalità dei protagonisti di una notizia può, dice la Carta, “incidere gravemente sulla convivenza civile e alimentare in modo pericoloso pulsioni razziste e xenofobe presenti nella nostra società”. Se la comunicazione non pone tutti sullo stesso piano - di persone con uguali diritti e uguali doveri- non è buona comunicazione, ma comunicazione di parte. Per questo la sfida è culturale: far crescere nella società una visione diversa di uguaglianza. Io chiamo questa sfida “utopia con i piedi per terra”, Padre Balducci la indicava con uno slogan impegnativo che mi piace sempre ricordare: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Don Tonino Bello preferiva definirla “convivialità delle differenze”.
Nel rileggere in Casa della carità la parabola del buon samaritano, il Cardinal Dionigi Tettamanzi ci ha consegnato un’altra icona, quella del samaritano, l’unico a fermarsi per soccorrere il malcapitato aggredito dai briganti sulla via che va da Gerusalemme a Gerico, mentre il levita e il sacerdote non si fermano ma fingono di non aver visto nulla. Alle cure del locandiere il samaritano affida il malcapitato. La via, la strada che collega territori diversi, è dove ci si incontra. La locanda è dove si abita e si condivide. Per questo servono case che siano dimora e strade che portino alle case, soprattutto in un periodo come questo, dove la paura esce dai normali e abituali confini e diventa patologica, viene gestita in modi aggressivi, incapaci di riassumere la complessità del vivere, incapaci di dare risposte coraggiose che nascono solo da una profonda visione etica, umana, civile e spirituale.
Accogliere lo straniero è importante perché lo straniero è il paradigma di questa alterità radicale e di una cultura che non vede nell’altro un diverso da escludere, da espellere, da demonizzare. Per questo è necessaria una comunicazione coraggiosa. Il coraggio non è comunicare i problemi degli sprovveduti, il coraggio è comunicare che gli sprovveduti hanno diritto ad essere ascoltati, ad avere delle risposte e persino a dare risposte originali per il bene di tutta la collettività. Casa della carità non sceglie i suoi interlocutori. È scelta. Si tratta di coloro che, con un termine ormai diventato famoso, definiremmo “vite di scarto”, vite prodotte dal libero mercato, modello dominante nella società liquida contemporanea che ai tanti suoi rifiuti ha aggiunto persone private dei loro modi e mezzi di sopravvivenza, gli esuli, i richiedenti asilo, i rifugiati della contemporaneità.
Questo mi ha dato la forza di non tenermi dentro tante storie, tanti volti, tante vite e mi ha dato il coraggio di comunicarle, nel sogno di una cittadinanza attiva in cui finalmente la cronaca bianca fa notizia, perché diventino un messaggio forte e pieno di speranza, che raggiunge il cuore di tanti uomini e donne del nostro tempo. Per questo, non sembri un paradosso, dobbiamo recuperare il valore del silenzio, del contemplare. È quella dinamica contemplativa che il Cardinal Martini indicò nella sua prima lettera pastorale. La parola che comunica sgorga dal silenzio.

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